L’attacco contro gli USA in Giordania e il risiko mediorientale
DA CeSI | CENTRO STUDI INTERNAZIONALI (Di Giuseppe Dentice)
Il 28 gennaio, un attacco con droni ha colpito Tower 22, un avamposto statunitense sito in Giordania , che ha provocato tre vittime e ferito trentaquattro militari. Sebbene siano in corso diversi riscontri necessari a comprendere la dinamica e la portata dell’evento, il governo di Amman ha subito smentito parte della ricostruzione statunitense spiegando che ad essere colpito non sarebbe stato il suolo giordano bensì quello siriano – presumibilmente per allontanare qualsiasi ipotesi di coinvolgimento del Paese nel caso di una presunta escalation militare nell’area.
Ad ogni modo, l’attacco è avvenuto in un’area prossima ad al-Tanf, in territorio siriano ma all’incrocio con le frontiere di Iraq e Giordania . Qui opera dal 2016 una guarnigione USA che funge da punto di lancio per le operazioni contro lo Stato Islamico (IS) e i gruppi criminali locali attivi smuggling (soprattutto del captagon), nonché come area di addestramento delle fazioni delle opposizioni siriane che combattono IS e il regime di Bashar al-Assad. A condurre e a rivendicare l’atto è stato il gruppo Resistenza islamica dell’Iraq, un ombrello che riunisce diversi soggetti non statuali filo-sciiti, molto vicini all’Iran. La milizia ha dichiarato in una dichiarazione di aver attaccato una serie di obiettivi lungo il confine tra Giordania e Siria, compreso il campo di al-Rukban.
Il Presidente USA Joe Biden ha accusato dell’attacco il gruppo, operante anche in Siria e sostenuto dall’Iran , che ha negato qualsiasi coinvolgimento con l’accaduto. Al netto delle posizioni e delle retoriche strumentali, l’atto rappresenta un ulteriore tassello nell’ampliamento dello scenario di crisi mediorientale. Infatti, l’attacco alla Tower 22 ha aumentato le probabilità di allargamento del rateo geografico del conflitto tra Israele-Hamas, che andrebbe oltre lo scenario di Gaza e coinvolgerebbe direttamente le forze USA operanti in tutto il Medio Oriente. Un’operazione potenzialmente volta ad impantanare Washington nell’area MENA e che aprirebbe il quadro delle tensioni in un contesto sfaccettato e complesso che si estenderebbe dal Mar Rosso alla Siria, così come dal Libano all’Iraq. Un evento importante che, comunque, manterrebbe inalterato e sullo sfondo il riflesso di una possibile escalation nella tensione latente e costante tra Israele e Iran.
È molto probabile ipotizzare che il target dell’attacco fossero l’avamposto militare e le forze americane ivi locate . Non a caso, l’area è stata diverse volte divenuto oggetto di attacchi negli ultimi mesi, tra cui quello dello scorso 4 gennaio che non ha prodotto feriti. È indiscutibile, inoltre, che gli attacchi di queste milizie siano legati in maniera strumentale alla dinamica del conflitto di Gaza. Infatti, tra gennaio 2021 e marzo 2023 sono stati registrati circa 60 attacchi da parte delle milizie contro le truppe statunitensi. Dopo la guerra di Gaza, le offese portate sono state più di 160. Tuttavia, come nello scenario del Mar Rosso, un’eventuale tregua o cessazione degli scontri armati non dovrebbe però eliminare o ridurre il rischio di azioni condotte da parte delle milizie contro gli USA.
Ad oggi, quindi, salgono a cinque le vittime statunitensi nell’area (due erano cadute in un’operazione nel Mar Rosso qualche settimana fa) ed è plausibile ragionare che tale azione comporterà una rappresaglia (seppur controllata) da parte di Washington nei confronti dei proxies iraniani in Medio Oriente. Se l’obiettivo limitato sarebbe quello di impedire escalation incontrollate e/o fornire appigli per ulteriori retaliation da parte di Teheran o delle sue milizie presenti in Medio Oriente, è pur vero che ad un maggiore coinvolgimento diretto della Casa Bianca corrisponderebbe un impegno massivo della Repubblica Islamica e delle forze a lei fedeli con il rischio di portare il livello di conflittualità ad un piano di attrito più elevato, che induca Washington a sostenere oltre Gaza anche altre quattro dimensioni differenti di scontro: la tensione navale nel Mar Rosso, le zone confinarie tra Iraq e Siria e la frontiera tra Israele e Libano.
Seppur controllata, la risposta USA potrebbe contribuire ad attivare un’escalation con impatti politici più immediati sulle trattative in corso a Parigi (e mediate da Washington con l’aiuto di Doha e il Cairo) tra Israele e Hamas per l’instaurazione di una tregua (nella migliore delle ipotesi) di due mesi con scambio di prigionieri da ambo le parti. Un dilemma strategico che costringerebbe di fatto gli Stati Uniti ad alzare il livello di impegno, considerando sia la campagna presidenziale per le elezioni di novembre 2024 già partita con troppe incognite e preoccupazioni per l’Amministrazione Biden, sia per la scarsa volontà di Washington di volersi esporre su più fronti militari contrapposti e contemporanei (l’Ucraina e non mai sopito rischio di una possibile crisi a Taiwan). Uno scenario simile, quindi, controproducente per gli stessi Stati Uniti, i quali favorirebbero non solo la propaganda regionale e internazionale dell’asse Iran-Russia-Cina, ma andrebbe ad intaccare anche la loro popolarità – già bassa – all’interno delle opinioni pubbliche arabe. In altre parole, la risposta che Biden si troverà ad affrontare sarà duplice: reagire agli eventi nella regione, senza spostare più di tanto i rapporti di forza esistenti per timore di ripercussioni peggiori, oppure inviare un messaggio più grande con un’azione simbolica forte e mirata a ripristinare una deterrenza, oggi blanda, nell’area MENA.
Ecco, dunque, che la tipologia e la profondità della risposta statunitense definirà la possibile contro-replica iraniana e/o dei suoi proxies, nonché il grado di sviluppo dello scenario complessivo mediorientale .
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