Complottisti e anticomplottisti (1a parte)
di IL VELO DI MAYA (Stefano Sissa)
Per quanto ne sappiamo, l’uomo è l’unico animale in grado di proiettarsi mentalmente nel futuro. Molti animali agiscono in vista di necessità future, ma – si presume – senza immaginare sé stessi nel futuro. Anche l’animale in pericolo che si rende conto di rischiare di morire, reagisce sempre ad una sollecitazione presente e immediata, mentre fino a pochi secondi prima poteva sentirsi tranquillo e al sicuro.
Non accade così all’uomo, del quale è tipica la capacità di pensarsi oltre il suo orizzonte immediatamente percepito. Questo comporta per lui il fardello esistenziale più grande, ossia la coscienza del proprio dover morire, che di norma si realizza, però, in modo consistente e profondo solo con l’età adulta, mentre da giovani si aggira facilmente il pensiero della propria morte o addirittura si ‘flirta’ con esso proprio perché non se ne sono ancora pienamente colti gli aspetti profondamente distruttivi sul piano psicologico, cui non vi è antidoto davvero efficace se non l’adozione di una prospettiva in un qualche senso religiosa, metafisica o comunque spirituale.
A ciò si aggiunge il fatto che il progressivo venire a conoscenza della iper-complessità del sistema di relazioni in cui viviamo e dell’interdipendenza dei fattori che determinano le nostre esistenze, anziché spingerci ad affrontare la vita con maggior sicurezza, ha l’effetto di scoraggiarci e paralizzarci, sottraendoci – almeno come soggetti individuali – la convinzione di poter agire in modo incisivo e non velleitario almeno sul nostro microcosmo sociale.
Questi fattori di stress, di incertezza e di timore, in parte strutturali per la condizione umana, in parte derivati da una determinata temperie storica, comportano un vero sovraccarico di ansie da gestire, che nella misura in cui non trovano riduttori efficaci, si configurano in forma di angoscia. Il bambino, nelle primissime fasi della sua crescita, per aver poi uno sviluppo equilibrato, deve conseguire un senso di fiducia fondamentale verso il mondo. A questo devono contribuire in modo decisivo genitori o comunque caregivers. Il punto paradossale è che questa fiducia fondamentale, così necessaria, è in buona parte infondata. Infatti il mondo in cui siamo ‘gettati’ non è assolutamente lì apposta per confortarci o venire incontro alle nostre esigenze. Non per nulla il compito dell’educazione degli adolescenti, quantunque oggi molto disatteso, è anche portare il giovane – attraverso una serie di ben dosati riti di passaggio – alla consapevolezza, gravida di impegno e responsabilità, che il mondo non è lì per accontentarlo né per dargli una soddisfazione garantita, nonostante che in età infantile sia stato necessario farglielo credere, pena lo sviluppo di strutture della personalità particolarmente debilitate, inefficaci e infelici.
Una delle funzioni della trasmissione culturale, almeno nelle società in cui prevale il soggetto eterodiretto dalla tradizione, è – oltre a tutte le necessità inerenti la socializzazione e l’acquisizione delle tecniche collaudate – proprio quella di fornire un orientamento all’azione sufficientemente codificato e ‘sicuro’ da evitare che le nostre energie biopsichiche siano massicciamente coinvolte in processi di codifica e decodifica particolarmente onerosi e ansiogeni. Perciò facciamo fatica a superare le nostre abitudini (quantunque ciò sia possibile e a volte necessario per riadattarci): per un certo periodo ci hanno consentito un adattamento se non ottimale quantomeno accettabile. Analogamente accade per tutti i processi, non slegati dall’azione, in cui si tratta di semantizzare le nostre esperienze e dare loro un senso esistenziale, funzione che pare essere connaturata al comportamento umano e, di fatto, ineludibile (anche nella forma paradossale del vivere con lo scopo di distruggere il senso che gli altri danno alla loro vita, che è tipico del cosiddetto narcinismo). Tuttavia, nella contemporanea “società del rischio”, caratterizzata dall’iperconnettività e dall’imprevedibilità degli effetti a medio-lungo termine e su ampia scala (il famoso “battito d’ali della farfalla in Giappone che innesca l’uragano a New York”), questo confortante presidio dei pattern culturali tradizionali appare seriamente scompaginato e sempre più ineffettuale.
Ora, dinanzi a questo scenario problematico, si profila sin dall’infanzia, ma con maggiore urgenza nell’età adulta poiché meno vi provvedono interventi sgravanti da parte di genitori e insegnanti, una spinta al padroneggiamento di sé e della propria biosfera che ha connotati di assoluta necessità; si tratta di una spinta fondamentalmente positiva, quando non assume forme maniacali, ossessive, sadico-costrittive, ecc. Le strategie di padroneggiamento (mastery) sono varie e situate su vari livelli del complesso biopsichico. Non di rado, tuttavia, queste tecniche ricorrono, a monte, a meccanismi di difesa potenzialmente nevrotici che consentono uno sgravio psichico sull’immediato al prezzo però di una sempre minore possibilità di acquisire competenze per interpretare correttamente e congruamente il contesto vitale e le motivazioni profonde del proprio comportamento.
Noi tutti, dinanzi al rischio di sentirci insicuri, inadeguati e angosciati per le nostre reali capacità di comprensione e di intervento, effettivamente sempre assai modeste, ci allestiamo facilmente degli script cognitivo-comportamentali basati su alcune strategie di coping piuttosto elementari la cui flessibilità è in realtà relativa, per il semplice motivo che anche la loro continua ristrutturazione comporterebbe un costo elevato in termini di energie impiegate e di resistenze da vincere. Ciò ci consente comunque di dedicare le nostre attenzioni su obiettivi limitati e considerati più o meno alla nostra portata, stralciando altri ambiti di intervento in cui la nostra incidenza sarebbe quantomeno dubbia o che comporterebbe un investimento ingente e con scarse possibilità di riscontro. Possiamo concentrarci sul conseguimento della nostra laurea, della promozione in ufficio, nel corteggiamento di un’auspicabile partner perché non ci occupiamo di tutto il resto, che riguarda in realtà complessi di condizioni sociali, economiche, culturali e di validazione della conoscenza assolutamente determinanti per la nostra esistenza, ma la cui portata ci sfugge.
Mentre le persone più ‘semplici’ o comunque più disponibili a plasmarsi secondo codici di conformità molto strutturati e massivamente diffusi stentano persino a porsi il problema e replicano a più non posso comportamenti non riflessivi condivisi dalla massa con effetto rassicurante e ‘scacciapensieri’, quelli un minimo più consapevoli – o comunque per varie ragioni meno adattati – scorgono più o meno chiaramente il fatto che le condizioni sistemiche sono in effetti decisive anche per le riuscita delle loro strategie locali e del perseguimento dei loro obiettivi, incluso quello della sicurezza e della gestione dell’ansia.
Questa percezione ansiogena solleva un’istanza di riduzione dello stress che non può rimanere a lungo inevasa. La risposta funzionale a questa condizione emotivamente angustiante è di autoconvincersi di possedere invece sufficienti risorse cognitive per sbrogliare determinati problemi almeno sul piano della mappatura cognitiva. Per dirla semplicemente, dinanzi alla iper-complessità e alla percezione che esistano soggetti o entità composite in grado di esercitare una coazione anche senza riserve su noi stessi, ci piace reagire pensando “Eh, ma invece la so lunga, io; non mi faccio fregare!”; ossia con una mozione, per lo più illusoria, di padroneggiamento.
Orbene, ciò che distingue essenzialmente i complottisti dagli anticomplottisti è il modo in cui declinano questa autoconvinzione sostanzialmente fallace in relazione alla prevalenza del tipo di meccanismo di difesa che sta alla base della loro opzione. In sostanza né gli uni né gli altri sono davvero razionali; o se si vuole lo sono entrambi, perché implementano delle modalità che, se pur invalide sul piano cognitivo, rappresentano un ausilio per la sopravvivenza quotidiana, almeno fino a quando determinate dinamiche macro non diventano talmente cogenti e violente da impattare drammaticamente sulla sfera vitale dei soggetti in questione, senza che abbiano potuto fare nulla per opporvisi in tempo, non avendole inquadrate con sufficiente esattezza.
Al netto della loro relativa efficacia in tempi e situazioni standard, complottisti e anticomplottisti agiscono come dei veri menomati rispetto ad un ideale normativo di soggetto umano capace di azione razionale rispetto allo scopo, che come tipo puro è in effetti un concetto limite, ma cui è opportuno comunque tendere. Accade però che a sembrare più inadeguati siano i complottisti, apparentemente meno razionali degli anticomplottisti. Prima di focalizzare i rispettivi asset psicologici di fondo, si può dire – riassumendo e generalizzando – che i primi e i secondi corrispondono spesso a differenti profili sociologici. I complottisti sono sovente persone di estrazione sociale bassa o medio-bassa, con percorsi di istruzione modesti oppure frammentari e molto compositi, lavoratori autonomi con ridotti margini di azione oppure dipendenti molto precari o sottoccupati/sottopagati; con ridotte o comunque imprevedibili possibilità di carriera quando non addirittura discreti rischi di messa a repentaglio del loro livello sociale (declassamento); inclini a spiegazioni monocausali dei problemi, quando non anche ad auspicare risoluzioni ‘magiche’ affidandosi a spigionamenti improvvisi di autorità e di potenza (che sia dell’uomo forte oppure del popolo arrabbiato non cambia molto). I secondi sono di solito di estrazione sociale media; sono più istruiti o quantomeno hanno un percorso formativo più lineare e standardizzato, non di rado anche più conformistico; spesso sono impiegati, insegnanti, pensionati con discrete tutele di welfare, operai da lungo tempo sindacalizzati e fidelizzati ad appartenenze politiche tradizionali, oppure svolgono professioni intellettuali o creative in cui è importante l’immagine che il pubblico si crea di loro; hanno spesso ruoli professionali meno soggetti ad oscillazioni repentine (minori rischi di declassamento) e moderate o discrete possibilità di carriera, che richiedono di mostrarsi affidabili e allineati rispetto agli apparati di cui fanno parte; sono più inclini a spiegazioni non monocausali e confidano, spesso più del dovuto, nel fatto che i problemi innescati all’interno delle relazioni sociali estese si possano risolvere già solo attraverso un’adeguata tematizzazione da parte dell’utenza o dell’opinione pubblica e attraverso il regolare funzionamento delle istituzioni (siano esse l’azienda, la scuola, la redazione di un grande giornale, gli apparati dello stato, ecc.).
Orbene, a prima vista i secondi sembrerebbero più attrezzati dei primi. In realtà lo sono solo in parte e al prezzo di aver implementato una serie di risposte cognitive socialmente accettate e rassicuranti che rendono poco disponibili ad effettuare dei cambi di paradigma e – a volte necessari – riorientamenti gestaltici. Sono interpreti di una coscienza ‘normale’, depurata dagli aspetti più inquietanti e confortata dalla replicazione di protocolli forniti da altri attraverso canali ufficiali. A dispetto del loro sbandierato acume, si affidano in realtà in modo piuttosto acritico alle versioni ufficiali fornite dalle autorità politiche o mediatiche oppure dal sistema dell’istruzione o della divulgazione scientifica, senza mettere seriamente in questione l’affidabilità degli stessi, senza problematizzare il fatto che le conoscenze e le informazioni che vengono loro somministrate provengono sempre da apparati sociali che si strutturano e funzionano secondo logiche non necessariamente improntate all’obiettività, ma anche – molto spesso – a interessi, privilegi, strategie non dichiarate e anche mistificazioni. Dunque entrambi i tipi si rivelano soggetti cognitivamente deboli, anche se gli anticomplottisti godono di maggiore credibilità per il solo fatto di collocarsi all’interno dei codici mainstream della cultura dominante, le cui agenzie si peritano, peraltro, di screditare a priori le tesi dietrologiche, sia quando sono infondate, sia quando non lo sono poi così tanto.
Ma ci sono anche motivi più ‘intimi’, oltre a quelli sociologici, per cui i complottisti e anticomplottisti sono diversi e i primi godono, se pure immeritatamente, di minore credibilità dei secondi? Sì. Dal punto di vista psicanalitico i primi hanno personalità che si sono strutturate attorno a meccanismi di difesa più primitivi. In particolare, al fine di stornare le angosce che non derivano solo dalla percezione degli effettivi rischi del mondo esterno, ma anche delle pulsioni aggressive/distruttive inconsce, tendono a indugiare in una posizione schizo-paranoide, individuando in un oggetto esterno – scisso nelle sue componenti solo malvage – la fonte della loro angoscia di persecuzione. L’oggetto esterno, in questa formulazione psichica primitiva, in realtà un fantasma psichico, è bersaglio di identificazioni proiettive con i propri aspetti Ombra della personalità; perciò il complottista è orientato a creare anche in modo immaginario, se pure a volte prendendo spunto da soggetti e dinamiche ben reali, la foggia del Nemico, dell’entità malvagia e potente che esercita una malìa negativa su di lui o su noi tutti, o comunque un controllo perverso. L’esito paradossale è che, pur presupponendo questo nemico esterno come occulto, temibile e poderoso, attraverso il gioco del presunto disvelamento di esso, il paranoico acquisisce un fittizio senso di potenza e padroneggiamento: “il nemico è potente e nascosto, ma io l’ho scovato e gli contrappongo un eguale volontà di potenza e controllo, al punto di sventare i suoi piani; anche se sempre si presenterà in nuove forme, io sarò sempre pronto e vigile per combatterlo”.
Fine prima parte
Fonte: http://www.ilvelodimaya.org/2017/08/26/complottisti-e-anticomplottisti/
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