Amazon contro le città
di JACOBIN ITALIA (Nicola Melloni)
La battaglia sull’headquarters di Jeff Bezos a New York dimostra come le grandi aziende siano ormai soggetti politici a tutto tondo
Negli Stati uniti la crescita di una sinistra radicale fino a pochi anni fa impensabile sta portando a nuove forme di scontro politico, che vertono innanzitutto sul rapporto democrazia-mercato, un tema di cui avevo parlato qualche tempo fa. Non è ancora necessariamente lotta di classe, ma quantomeno è uno scontro tra visioni del mondo contrapposte, tra chi vede il mercato come unica chiave di lettura dello sviluppo economico cui la società si deve adeguare, e chi, invece, vede l’economia al servizio della collettività. Il dato è che la crisi ormai quasi organica del neoliberismo e l’erodersi sempre più rapido della sua egemonia culturale sta portando a una situazione in cui il capitale, non sentendosi garantito abbastanza dall’élite politica, comincia a entrare in campo in prima persona come soggetto politico. Così possiamo leggere la saga dell’apertura del nuovo headquarter di Amazon (HQ2): iniziata richiedendo una irrituale forma di sottomissione della politica al mercato, organizzando un’asta pubblica su chi offriva di più per il dubbio onore di ospitare la compagnia di Bezos; continuata con proteste popolari che hanno spaccato ulteriormente il partito democratico; e finita con la serrata di Amazon che ha chiarito, per chi ancora avesse dubbi, come il capitale veda la politica come semplice strumento di dominio. Ma andiamo con ordine.
L’asta
Circa un anno e mezzo fa Amazon aveva organizzato una competizione pubblica tra città del Nord America: si chiedeva di presentare progetti, o meglio sconti e incentivi, per avere la possibilità di ospitare il nuovo HQ2 che avrebbe dovuto portare in dote circa cinquantamila nuovi posti di lavoro. È stata la prima volta che l’asta di Amazon veniva bandita in maniera ufficiale, ma è pratica normale tra le multinazionali, quella di estorcere aiuti, sconti, cambiamenti legislativi agli stati in cui hanno intenzione di investire – minacciando altrimenti di andarsene altrove. Amazon, sfruttando la struttura federale e le risorse fiscali delle grandi metropoli del Nord America ha usato lo stesso giochino all’interno degli Stati uniti. Solo che l’asta era truccata: le realtà del Mid-West e della fatiscente rust-belt non sono mai state veramente in gara, ma sono tornate più che utili, per costringere anche le altre città a concedere benefici. Tra queste, New York e Washington, città cosmopolite che attraggono e possiedono i lavoratori specializzati di cui Amazon ha bisogno, e che sono alla base della decisione finale di investimento – un dato per altro involontariamente riconosciuto dallo stesso Bezos. Il risultato è stato talmente ovvio da indispettire anche il New York Times: Amazon ha fatto la scelta che le conviene di più, ma si è fatta pagare dai cittadini per farlo. In un panorama economico che continua a rimanere depresso, i sindaci che cercano la ri-elezione sono disposti a tutto pur di aumentare i posti di lavoro, e l’indotto che viene con essi: ma sono semplici pedine di una guerra tra poveri, in cui il grande capitale regge le fila.
Per le città, si tratta di una strategia economica drammaticamente sbagliata: l’evidenza empirica dimostra che gli incentivi fiscali per le grandi compagnie sono, in definitiva, soldi che sarebbero meglio spesi in educazione, infrastrutture, servizi pubblici – tutti fattori che rendono una città più attraente per gli investitori e soprattutto per la forza lavoro che portano. In una dialettica meno squilibrata, sarebbe la compagnia a dover investire risorse per ridurre il costo pubblico associato alla propria presenza, dalla necessaria riqualificazione urbana fino agli investimenti in scuole, che ricadono invece tutti sui contribuenti. Ma soprattutto, siamo davanti a un enorme problema politico, con trasferimento netto di denaro pubblico dalle tasche dei cittadini al portafoglio dell’uomo più ricco del mondo, cioè una tensione e lotta sulla distribuzione delle risorse dove una azienda privata troppo forte e troppo grossa piega al suo volere una politica troppo debole e divisa. Non a caso, Elizabeth Warren – una democratica con una storia di sfide aperte contro il big business, ma non certo una socialista – nel suo programma di candidata alle primarie prevede che le grandi compagnie siano sottoposte ad autorizzazione federale, allo scopo di evitare conflitti tra stati o tra città. L’obiettivo è riportare l’azione delle grandi corporation sotto un controllo democratico, uscendo dal mito del shareholder value, integrando aspetti di responsabilità sociale: una misura che di questi tempi sembra quasi estremista, ma in realtà è timidamente riformista.
Investimenti ad ogni costo?
Il problema però è ancora più ampio. Riguarda la concezione che si ha della crescita economica e più in generale del capitalismo. È chiaro che la fame di lavoro – e di rielezione – porta a vedere qualsiasi forma di investimento come una manna dal cielo: non solo non si può discutere, lo si deve anzi favorire ascoltando le richieste che somigliano a dei diktat delle compagnie. L’ideologia dominante fornisce la giustificazione teorica: la crescita è il fine ultimo dell’attività economica e poco importa studiarne l’impatto distributivo perché comunque grazie al cosiddetto effetto “trickle down”, la ricchezza generata al top – dai ricchi – discende inevitabilmente beneficiando anche gli strati più bassi. A New York, e non solo, l’establishment politico aveva sottoscritto tale entusiasmo: Amazon porta lavoro, redditi, indotto, tutte cose necessarie per la città. La faccenda è più complessa. Abdicando a qualsiasi ruolo di organizzazione della società, la politica lascia al mercato le scelte di sviluppo non solo economico, ma anche sociale ed urbanistico. La zona prescelta per la costruzione del HQ2 era Long Island City, nel Queens, una zona popolare dove prezzi delle case e affitti sono ancora sostenibili. L’arrivo di decine di migliaia di lavori high-tech (non certo provenienti dai lavoratori del Queens) mediamente più che ben pagati –lo stipendio medio sarebbe stato di 125 mila dollari annui – avrebbe avuto conseguenze devastanti sul tessuto urbano: una veloce gentrificazione della zona (nei tre mesi dopo l’annuncio del HQ2 la compravendita di case è triplicata): grandi profitti per i costruttori mentre i residenti tradizionali sarebbero stati a rischio di abbandonare le loro case; rette delle scuole che si sarebbero impennate. La città, forse, avrebbe ricevuto un guadagno economico. Che però non sarebbe stato equamente diviso: quando è il mercato a dettare la linea, l’allocazione delle risorse avrebbe favorito ricchi e potenti a scapito dei più deboli.
Il modello Seattle
Per rendersi conto di quali siano gli effetti sociali della crescita disordinata e basata solo sulla pseudo-efficienza del mercato, basta guardare a Seatte, città che ha dato i natali ad Amazon. L’ascesa di Amazon in città è stata vertiginosa e sconquassante, tanto da venir definita “prosperity bomb” (bomba di ricchezza): in otto anni Amazon ha aumentato del 900% i suoi impiegati, divenendo il più grande datore di lavoro in città; ben 40 miliardi di dollari sono piovuti sulla Seattle innalzando il reddito mediano di 10 mila dollari in un solo, più che altro grazie all’afflusso di lavoratori ben pagati e non grazie ad una crescita endogena della ricchezza cittadina. Bene? Non benissimo però se pensiamo che solo nel 2018 il prezzo delle case è aumentato dal 10 al 18% a seconda dei quartieri, mentre gli affitti sono cresciuti di oltre il 60% in sette anni, e il numero degli homeless è salito alle stelle. A fianco dei salari altissimi pagati dalle tech company, continuano a esistere lavori normali con salari stagnanti o che crescono a un ritmo ben inferiore a quello del costo della vita, pauperizzando così larghe fasce della popolazione. Centinaia di attività commerciali tradizionali sono state spazzate via per trasformare la città in una sorta di galleria commerciale, nelle mani di grandi catene. Le conseguenze sono prettamente di classe: i proprietari di casa si arricchiscono; gli affittuari si impoveriscono. Le grandi catene guadagnano, i piccoli negozi spariscono. I diritti sono mercificati: la possibilità di avere un tetto sopra la testa non è una scelta politica consapevole, ma viene lasciato alle fluttuazione dei prezzi (o nei casi migliori alla filantropia..). Si crea così un sistema economico diviso in due, i ricchi e quelli che lavorano per i ricchi dove, nel miglior stile darwinista-neolib, winner-take-all (i vincitori si prendono tutto).
Chiaramente il problema non è solo Amazon. San Francisco ha anticipato il futuro di Seattle, diventando una delle città più care degli Stati uniti dopo esser diventata l’hub della Sylicon Valley. Trend di diseguaglianza crescente sono presenti in tutte le grandi città, soprattutto in quelle dove la presenza delle tech company – con afflussi di alti stipendi a fronte di pochi lavori “normali” – stravolge il tessuto urbano. È un problema nazionale, se si pensa che l’esplosione delle nuove compagnie tecnologiche ha di fatto aumentato il divario tra le città costiere, sempre più ricche, sempre più grandi, sempre più diseguali, e gli stati dell’entroterra – dove era ovvio che Amazon non avrebbe investito – lasciati sempre più indietro a covare rabbia e rancore che si trasformano poi nel voto per Trump.
Amazon è un soggetto politico
Il nodo centrale è il rapporto tra mercato e democrazia. Una corporation come Amazon è un attore politico in tutto e per tutto, e come tale va trattato. Certo, già a livello sistemico, dopo la famigerata sentenza della Corte Costituzionale “Citizens United”, le corporation hanno preso un ruolo politico più diretto. E Bezos, come facevano i capitalisti italiani alla Agnelli, si è anche comprato l’influenza politica che ha chi possiede una delle testate giornalistiche più importanti del paese, il Washington Post. Ma Amazon è andata oltre, non temendo di entrare a piedi pari nel conflitto politico: già lo scorso anno era andata allo scontro con il consiglio comunale di Seattle, reo di aver istituito una head tax per le corporations con oltre 20 milioni di ricavi annui – le compagnie avrebbero dovuto pagare 500 dollari (poi ridotti a 275 dollari) per impiegato, con i proventi destinati a finanziare progetti per i senzatetto. Una misura inaccettabile, per Amazon, che rispose con una serrata in grande stile, sospendendo la costruzione di una nuova torre di uffici con la minaccia di mettere a rischio 7000 posti di lavoro; e finanziando lautamente una campagna politica contro la tassa. Il provvedimento fiscale fu immediatamente ritirato, e altrettanto ovviamente Amazon ha poi deciso lo stesso di non procedere con l’investimento.
A New York è successa una cosa a analoga. Nel momento in cui una parte della popolazione ha cominciato a manifestare i suoi dubbi sull’impatto del progetto del HQ2, Amazon ha cancellato l’investimento. Il sindaco De Blasio, che aveva supportato il progetto, aveva garantito alla compagnia che non ci sarebbero stati problemi ma che sarebbe stato opportuno scendere a patti: a cominciare dal permettere la sindacalizzazione della forza lavoro – per altro nel caso del HQ2 parliamo di pochissime unità, per i lavori “di contorno”.
Ma Bezos ha preferito accendere le luci sulla contesa a scopo semplicemente di impartire una lezione alla politica: le regole le faccio io, non accetto contestazioni, non accetto compromessi. Amazon non accetta nessuna responsabilità sociale sui costi dell’investimento e alza un netto rifiuto di fronte alle esigenze e ai problemi che si unisce alla capacità e alla pretesa di non pagare tasse e anzi di garantirsi incentivi pubblici, dettando le regole del gioco.
Qualche lezione
Il risultato, per la sinistra, è una moneta a due facce. Da una parte l’attivismo paga: la protesta dei cittadini è riuscita, seppur parzialmente, a scalfire la nomenklatura politica. La vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez alle primarie democratiche lo scorso anno ha messo sull’avviso molti democratici tradizionali che devono tener conto della capacità di mobilitazione della parte più antagonista. In effetti uno dei più strenui oppositori del HQ2 è stato Michael Gianaris, senatore dello stato di New York, il cui collegio di elezione è parzialmente sovrapposto a quello di Ocasio-Cortez. E Gianaris era stato nominato alla guida della commissione pubblica che avrebbe potuto bloccare l’opera. Per quanto la nomina sarebbe potuta essere bloccata dal governatore Frank Cuomo, il solo montare della protesta anche tra i democratici mainstream ha fatto infuriare Amazon. La capacità della sinistra di imporre i temi di dibattito – basti pensare che la maggioranza dei candidati alla Casa bianca tra i democratici sostengono (almeno a parole) la sanità pubblica, una cosa che solo quattro anni fa sembrava un’utopia di Sanders – è chiaramente parte di una guerra per l’egemonia culturale nel partito, sempre più diviso tra un establishment pro-business e una base che si è radicalizzata e che sta trovando una rappresentanza politica. Che questo attivismo crei una frattura tra il big business e i Democratici è certamente un altro passo importante nel tentativo di cambiare il sistema politico. Più in generale, che l’affarismo e gli accordi al meglio opachi tra politici e affaristi, magari bypassando il dibattito pubblico (come nel caso del HQ2) siano messi in crisi dall’attivismo sociale è un punto a favore di una società più trasparente e di una politica meno prona alle esigenze delle grandi corporation.
Dall’altro è importante capire che le lotte locali hanno bisogno di un cambiamento istituzionale più complessivo. La ritorsione di Amazon dimostra in maniera plastica il potere del capitale, che non teme sconfitte: nella lotta tra poveri è sempre facile trovare qualcuno più disperato – o magari più corrompibile. Amazon continua ad avere il coltello dalla parte del manico ed è quindi indispensabile che sia il sistema politico tutto a riacquistare una sua autonomia decisionale, una capacità di negoziazione e soprattutto un’idea concreta su come organizzare il futuro dello sviluppo economico e sociale non lasciando che sia il mercato a imporre le sue soluzioni.
*Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino.
Fonte: https://jacobinitalia.it/amazon-contro-le-citta/
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