Luca Casarotti, L’anfascismo e il suo contrario
di DOPPIOZERO (Enrico Manera)
Non si può non notare una certa difficoltà nel pronunciare serenamente la parola ‘fascismo’ nella più recente stagione della politica contemporanea: una difficoltà aumentata in questo presente, di volta in volta come rifiuto, cautela o ritrosia per motivi anche opposti. Nell’intervallo che separa l’uso tecnico del termine dall’abuso pubblico, il tutto è complicato dalla consistenza delle destre contemporanee che pur non essendo ‘fasciste’ nel senso storico novecentesco, a quell’esperienza – e soprattutto all’eredità – si rifanno più o meno integralmente, con riferimenti a pratiche o elementi culturali o anche solo per referenze mitiche, allusioni provocatorie, evocazioni nostalgiche. Un’analoga difficoltà sembra riscontrarsi nell’intendere e accettare l’antifascismo, a maggior ragione un termine-ombrello in cui – sembra ovvio dirlo – si trovano, storicamente diffuse e diversificate, differenti culture politiche accomunate dall’opposizione al fascismo. Basterà ricordare quanto di diverso abbiano socialismo, comunismo e liberalismo nella loro pars costruens, senza peraltro dimenticare i terreni di sovrapposizione e gli attraversamenti di campo che hanno interessato persone e idee nel tempo, in relazione ai diversi contesti, in termini ideali e strategici, dell’agire politico.
In Italia, nella misura in cui si è voluto affermare che il fascismo era finito con il 1945 e si è voluto dare per scontato che una cosa così non ci sarebbe più stata, a partire dagli anni Novanta anche il lemma ‘antifascismo’ si direbbe aver perso la sua immediata leggibilità e, ancor più, legittimità. Il ragionamento retrostante implica però due questioni, che riguardano la storia e la politica della memoria pubblica. La prima – più macroscopica – è che la Repubblica democratica nata dalla Resistenza sia logicamente e naturaliter antifascista o non possa essere democratica: dunque se la Repubblica può non essere più antifascista, sorge il dubbio che non sia mai stata intesa come tale fino in fondo da molti. La seconda e correlata questione è che, nella misura in cui le forze liberal-democratiche abbandonavano l’antifascismo come elemento decisivo della propria cultura, questo diventava tutto “comunista” e coestensivo di una sinistra estrema fuoritempo e dunque, in una stagione di diffusa critica antitotalitaria e anticomunista (legata strettamente alla fine della guerra fredda) anche l’antifascismo poteva essere messo finalmente in cantina con tutto l’armamentario ideologico-politico novecentesco.
Questo è, in estrema sintesi, il nocciolo storico-politico del ragionamento attorno a cui si dipana la fitta rete intertestuale intessuta da Luca Casarotti, giurista e critico militante, nel recente L’antifascismo e il suo contrario (Alegre 2023).
Ma c’è molto di più. Con grande finezza e una scrittura di rara eleganza, venata di sottile ironia, Casarotti intende difendere le ragioni di un antifascismo per il presente: lo fa al compimento del percorso storico di un’opposizione all’antifascismo fattasi senso comune grazie all’ipertrofia del web e alla vittoria che le destre neo-post-pop-alt-fasciste hanno avuto nella battaglia per l’egemonia culturale nel sistema mediatico dell’Italia post-bersusconiana (ora strettasi a coorte); e nel fare questo regala a lettori e lettrici uno spaccato psico-politico-culturale dell’anti-antifascismo, mostrandone su un periodo medio-lungo genealogia ed effetti. Il libro affronta con grande vis interpretativa le radici e le fioriture del tenace “revisionismo” – un tempo si chiamava così – che si è fatto senso comune, soprattutto nella pubblicistica di largo consumo e attraverso mass e social media, sempre più in aperto contrasto rispetto alla produzione storiografica scientifica. Dieci anni fa, proprio su queste stesse pagine scrivevo del «periodo caratterizzato da uno spregiudicato uso pubblico della storia, in cui il lavoro degli storici viene messo ai margini da quello di volta in volta sporco o grossolano svolto da divulgatori e da giornalisti al servizio degli interessi del presente». Il piano era già fortemente inclinato e gli sviluppi dell’oggi erano prevedibili.
Casarotti mostra dunque le due principali direttive di questa vittoriosa offensiva politica e culturale, «l’una orientata alla storia, cioè all’interpretazione della guerra partigiana, l’altra al presente, cioè alla memoria di quella guerra e al modo di essere attuale dell’antifascismo» e ne mostra le funzioni: «l’una di legittimazione politica, cioè di vocazione istituzionale, l’altra di delegittimazione della protesta, cioè di critica della contestazione allo stato delle cose, quando succede che essa rivada al repertorio dell’antifascismo e si proponga di ravvivarlo». Come già un tempo, screditare la Resistenza e colpire il Cln significa rivalutare il fascismo e le sue eredità e in termini generali destituire di legittimità e credibilità l’intero assetto della (prima) Repubblica per promuovere qualcosa di nuovo ma al tempo stesso già vissuto, quella “retromarcia verso il futuro” che è la formula delle sintesi modernistiche e reazionarie capaci di farsi regime. Denigrare, demonizzare, rendere incomprensibile la Resistenza fa parte di questo dispositivo culturale e prepara dunque quel duplice movimento di rimozioni e accomodamento che fanno della nostalgia, simpatia e grande comprensione per il fascismo (o tratti falsificati o stereotipati di esso) un tratto dell’autobiografia della nazione.
L’antifascismo e il suo contrario compie un’operazione molto interessante nel decostruire non tanto le retoriche apertamente filofasciste o neonazi (cercatele voi, sono ovunque) o sguaiatamente anti-resistenziali (da Pansa a Vespa) ma le diverse e sfumate posture democratiche, liberali, di centro-sinistra o nazional-patriottiche che sembrano più interessate a lavorare contro le idee e le forze antifasciste, esasperandone debolezze e contraddizioni, che non a difendere il sacro spazio della democrazia dalle mani dell’autoritarismo. Il lavoro del giurista pavese si muove tra storiografia, educazione/didattica e critica letteraria e, forte di una visione complessa in cui rientrano saggi, articoli, podcast e sfera digitale, aggiunge elementi di importante chiarificazione in un dibattito pubblico spesso sbagliato – almeno nei termini delle scienze storiche – e certamente polarizzato (certamente più di quanto sia fisiologico e dialetticamente sano), rispetto al quale emerge l’idea che al gioco sporco o ambiguo della culture war si può rispondere con l’aperta dichiarazione di posizionalità valoriale, con la lettura lenta e con l’epistemologia delle storia.
Nei diversi capitoli del libro si parla di idee, prese sul serio, discusse e analizzate nel contesto, nelle intenzioni e negli effetti con una sincera postura dialogica e una onestà intellettuale che ha dell’inattuale: in questo modo, l’autore può offrire una decifrazione dell’«interazione» che viviamo nel presente circa l’«antifascismo e il suo contrario» e di come questa contribuisca «a strutturare una storia e una realtà politica». Trova così spazio la storicizzazione di diversi testi, paradigmatici per la loro uscita e per il loro essere dispositivi, concettuali e politici: beninteso, non c’è nella prosa di Casarotti gusto per la polemica ad personam né livore della gogna, come spesso accade sui social network in cui un frammento viene isolato, incorporato e commentato con esercizio di feroce e capziosa minuziosità.
In questo caso un testo è il sintomo emergente di un campo di forze ideale e come tale viene interpretato, diventando punto di partenza per un ragionamento su come una tesi abbia reagito chimicamente con i mondi culturali dell’eco-sistema informativo con cui si è intersecata. Il discorso inizia con La morte della patria di Ernesto Galli della Loggia (Laterza, 1996), che in storiografia ha indagato l’idea di nazione in Italia (come recita il sottotitolo tra Resistenza, antifascismo e Repubblica): l’argomentazione di quel saggio viene mostrata nei presupposti impliciti ed espliciti, arrivando a mettere in discussione la contraddizione [spoiler alert] di una patria mitica (e in fin dei conti metafisica), mai esistita in quanto Nazione perché nata tardi e male come Stato, che però verrebbe uccisa proprio tra il 1943 e il 1948, tra l’8 settembre e l’entrata in vigore della Costituzione. Nell’analisi di Casarotti si evidenzia inoltre come la “colpa” della Resistenza sarebbe da imputare alla estrema criticità delle condizioni in cui questa si svolge, cioè quella di essere anche una guerra civile e di dipendere dalle circostanze storiche di una guerra mondiale totale e delle alleanze che vi combattono. In altri termini, pare che per molti quello che per la storiografia più avvertita è il risultato di un miracolo di equilibrio in condizioni storiche precarie, diventi la ragione di una diminutio incapacitante, al pari di un’onta.
Comincia qui a emergere il dispositivo concettuale che lega i vari punti della critica del libro di Casarotti, nel quale si insiste sulle aporie a cui può condurre il praticare simultaneamente una filosofia politica e una interpretazione/comprensione di un fenomeno in termini storici. Spesso accade che i pensatori liberali accusino quelli social-comunisti di essere ideologici senza voler o sapere riconoscere che ogni postura – in primis la propria – è inevitabilmente, sempre e comunque, soggetta a un certo tasso di ideologia. La differenza sta nel riconoscerlo.
Sul piano della saggistica, all’incrocio tra grande erudizione e cultura pop, si incontra Ma se io volessi diventare una fascista intelligente? di Claudio Giunta (Rizzoli, 2021), un pamphlet contro il conformismo di un certo modo di intendere l’educazione civica, la scuola, l’Italia, che in estrema sintesi vuole essere [spoiler alert] una critica per la “retorica dell’antifascismo”, centrato dunque più sulla prima che non sul secondo termine. Qui a essere messo sotto la lente di ingrandimento è in particolare il fastidio di un mondo intellettuale, non di destra ma neanche di sinistra, per la superficialità delle dinamiche culturali giovanili e di massa e i suoi conformismi e cliché; tale sorta di sorta di analisi del presente – lontana dalla sociologia documentata – sembra dipendere da esperienze autobiografiche e, anche contro le proprie intenzioni, finisce per incorporare una serie di giudizi a cascata sulle nuove generazioni, sul modo in cui queste attraversano i conflitti del presente ereditando quelli del passato, e si annoda sul modo in cui i temi della cultura americana precipitano in quella italiana, dando corpo ai dibattiti nei quali il tema fascismo/antifascismo si ricompone attorno alle critiche della political corretness e della cancel culture (o per lo meno i loro fantasmi locali e d’importazione).
Da qui si passa al tema del sospetto per l’“impegno degli intellettuali”, il cui primo limite sembra essere proprio il credere che sia possibile svolgere un’attività intellettuale disimpegnata e disinteressata: in questo senso, trova ampio spazio la discussione generata da Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura di Walter Siti (Rizzoli, 2021). Una polemica innanzitutto estetica, scrive Casarotti, sui «risultati letterari dell’esplicito impegno politico» e «civile» verso scrittori contemporanei che hanno cercato «un senso politico al mondo post-Muro di Berlino, e poi post 11 settembre» e una «critica all’ottimismo della volontà pedagogica». Impossibile restituire in poche righe una sintesi del discorso di Casarotti, di Siti e il dibattito che ne consegue: si entra nel dettaglio di una vera e propria bibliografia di letteratura, critica e metacritica di molti autori/trici di titoli chiamati in causa che potrebbe reggere autonomamente, come sintesi molto ben informata, di estrema utilità per chiunque si occupi di cultura contemporanea in Italia.
Il libro si chiude spiccando il volo, con un florilegio di libri dedicati alla storia pubblica, nel raccontare il nostro presente – la favola che narra anche di noi – fatto di uso pubblico e politico del passato in un tempo come il nostro, drammaticamente “senza storia” per la qualità della sue conoscenze medie e diffuse, e simultaneamente ossessionato dalla fame di racconto storico e sempre più preoccupato da problemi strutturali: da cui dipende cioè molto della qualità del vivere comune in una democrazia. Su tutti conoscere il vero storico e soprattutto riconoscere il falso storico. Ne deriva una perorazione della storia come bene comune da preservare e una apologia del sapere storico, nelle sue declinazioni diverse ma inseparabili di ricerca, insegnamento e divulgazione, in cui tra i molti nomi spiccano quelli delle figure magistrali Le Goff, Bloch, Pavone, Ginzburg e trovano posto libri e lavori recenti e diffusi a più livelli di pubblico.
Praticare la ricerca e l’insegnamento della storia è qualcosa come l’esercizio di un funambolo in bilico su una corda tesa tra la soggettività e l’oggettività scientifica. Problematizzare la Resistenza e restituirla alla sua materialità storica, conoscerne e saperne discernere storia e mito contro la propaganda e gli usi pubblici, è allora il modo migliore per farne rivivere le passioni, gli insegnamenti e le eredità, proprio perché, scrive Casarotti, «nella sanità del conflitto d’idee si misura la compiutezza della democrazia».
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