La forza creativa della Costituzione (1a parte)
di SINISTRA IN RETE (di Paolo Ciofi)*
Il programma economico della Costituzione: un confronto con Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro. I problemi che nascono dallo svuotamento dello Stato nazionale e dalla possibilità reale di incidere dei lavoratori nella vita pubblica. La questione centrale della proprietà. Dall’impianto costituzionale emerge una visione culturale e politica che va al di là delle ricette di Keynes
Cosa vuol dire, nelle condizioni del mondo di oggi, lottare per l’applicazione della Costituzione del 1948, che fonda sul lavoro la nostra Repubblica democratica? Il tema, ignorato per anni e colpevolmente messo in sonno dai partiti subito dopo il clamoroso risultato del referendum del 4 dicembre 2016, che ha respinto la controriforma renziana orientata a deformare l’assetto costituzionale secondo gli interessi del capitale finanziario e di un’oligarchia di comando, è stato con efficacia riproposto all’attenzione del dibattito pubblico dall’Assemblea per la democrazia e l’uguaglianza, organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al teatro Brancaccio di Roma il 18 giugno scorso.
In questo nuovo contesto indubbiamente suscita interesse il saggio di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro dal titolo La Costituzione come programma economico, pubblicato sul numero 4/2017 di Micromega in un almanacco di economia che esplicitamente propone di «tornare a Keynes». Una visione che, sebbene gli autori non lo dichiarino in modo esplicito, sul terreno politico inevitabilmente ci riconduce al compromesso socialdemocratico, e dunque alla pratica politica del riformismo. Anche perché, come essi stessi sottolineano, l’economia è una disciplina in cui «l’elemento politico ha un peso importante e perfino determinante». Andiamo a vedere.
Articolo 3
Muovendo dalla premessa che «il lavoro costituisce il valore e l’interesse fondamentale sottostante all’ordinamento», l’economista e il giurista sostengono che tale principio è «la chiave di volta dell’intero ordinamento economico». Quindi — argomentano — la Costituzione italiana respinge l’idea, tipicamente borghese, che dalla visione del lavoro come «forza creatrice soprannaturale» pretende di derivare il principio «secondo cui l’uomo che non ha altra proprietà, all’infuori della sua forza lavoro, dev’essere asservito agli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro».
In altri termini, essendo stato cancellato il principio della proprietà sacra e inviolabile ancora vigente nello Statuto albertino, su cui si è retta la dittatura fascista che aveva schiavizzato i lavoratori, ciò significa che la Repubblica democratica fondata sul lavoro, nel conflitto che caratterizza la natura stessa del capitale in quanto rapporto sociale, riconosce la supremazia del principio lavoristico sul principio capitalistico. Possiamo dire, senza cadere nella retorica inconcludente di cui oggi si abusa, che si tratta effettivamente di una conquista di portata storica, poiché il pilastro che sostiene il patto tra gli italiani non è più il cittadino proprietario, bensì il cittadino lavoratore. Colui il quale per vivere —uomo o donna, finalmente anch’essa titolare del diritto di voto — deve vendere la propria forza lavoro materiale e immateriale ai detentori dei mezzi di produzione che la usano per ottenere un profitto.
Decisivo è il secondo comma dell’articolo 3, che va oltre l’uguaglianza di fronte alla legge, pure essenziale, e si misura con il tema cruciale, oggi di fatto ignorato, dell’uguaglianza sostanziale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Dove risulta che non è sufficiente agire nella sfera in cui si distribuisce il reddito, ma occorre intervenire nel rapporto di produzione capitalistico, vale a dire nel rapporto di proprietà, come con chiarezza prescrivono gli articoli 42, 43, 44.
Lunghini e Cavallaro sottolineano che in una società capitalistica divisa in classi come la nostra, il conflitto distributivo tra lavoratori, capitalisti e rentiers dipende da molteplici fattori, interni ed esterni alla produzione e, tra questi, dai concreti rapporti di forza tra le classi. «Sicché l’unica cosa che, semplicemente, si può dire è che i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari siano bassi o alti». Di cosa parliamo, se non della contraddizione tipica del modo di produzione capitalistico, che il capitale, in quanto rapporto sociale, costantemente ha tentato e tenta in vario modo di superare?
«Proprio perciò — chiariscono i due autori — l’art. 3, secondo comma, della Costituzione si può considerare, da un lato, come presa d’atto che, in una società capitalistica, il “non intervento” dello Stato equivale a intervento a favore della classe dominante, cioè al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è più debole, e dall’altro lato come manifestazione del convincimento che la struttura socio-economica propria della società capitalistica debba essere superata in favore di un diverso modello di società, in cui i principi regolatori del modo di produzione capitalistico vengano temperati e affiancati da altri».
È la questione cruciale posta dalla Costituzione, che delinea un progetto di nuova società da conquistare. Ed è esattamente per questo motivo che la Costituzione antifascista, subito dopo la sua approvazione, è diventata terreno di lotta tra forze del rinnovamento e forze della conservazione. Un progetto che oggi, travolti come siamo da una crisi di fondo del modo di produzione capitalistico — non solo economica e sociale, ma anche politica e culturale — diventa particolarmente attuale per la sua forza innovativa e per la sua capacità di aggregazione, peraltro confermate dal referendum del 4 dicembre 2016.
Economia mista
Quali sono, dunque, dentro questa cornice in sintesi delineata, gli indirizzi programmatici in materia economica che i due autori ci propongono? L’obiettivo fondamentale che la Costituzione persegue, sostengono Lunghini e Cavallaro, è quello della piena occupazione, come è chiaro dalla disposizione dell’articolo 4. Dove si afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Da cui deriva la necessità —precisano —di orientare l’attività dei pubblici poteri verso il perseguimento di questo fine: sia mobilitando con adeguati progetti di investimento la spesa pubblica e privata, sia promuovendo l’acquisizione da parte dei lavoratori delle conoscenze necessarie per il loro impiego.
Il lavoro, quindi, come diritto, ma anche come «dovere», da cui emerge, secondo gli autori, l’incostituzionalità del reddito di cittadinanza, che non può essere sostitutivo di una politica rivolta all’obiettivo della piena occupazione. Altra cosa — viene da osservare — sarebbero misure temporanee di sostegno del reddito all’interno di un piano pluriennale per il pieno impiego. Resta comunque il fatto, e questo è un indirizzo fondamentale per perseguire l’obiettivo della piena occupazione, che nell’impianto costituzionale l’interesse pubblico generale è destinato a prevalere sull’interesse privato. Di conseguenza, «l’esigenza di un governo pubblico dello sviluppo economico comporta l’abbandono del primato dell’iniziativa economica privata nelle scelte concernenti l’allocazione delle risorse». Secondo gli autori, si tratta di un’acquisizione costituzionale da cui non si può prescindere.
Stanno dentro questa logica le disposizioni dell’articolo 41, secondo cui l’iniziativa privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». In pari tempo risulta evidente che l’ultimo comma dello stesso articolo, nell’affidare alla legge il compito di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», non comporta l’instaurazione di uno statalismo burocratico e primitivo. Giacché, come Lunghini e Cavallaro fanno notare, non viene cancellato il mercato in quanto misuratore di efficienza né si propone una pianificazione integrale della vita economica. Si fissano invece le coordinate di un’economia mista e, negli articoli successivi, le disposizioni indispensabili alla scelta di «funzionalizzare la proprietà privata dei mezzi di produzione al conseguimento dell’utilità sociale», per dirla con le parole dei nostri autori.
Seguendo questi indirizzi, nella loro visione assume particolare rilievo il tema del credito e del risparmio, in connessione con le politiche fiscali. Le norme dell’articolo 47, con le quali si stabilisce di tutelare il risparmio in tutte le sue forme e di disciplinare e controllare l’esercizio del credito, stanno a si gnificare, né più né meno, che occorre «assoggettare al controllo pubblico la liquidità monetaria, nella sua duplice forma di risparmio e di credito». Ciò allo scopo di orientare il risparmio medesimo verso quelle forme di investimento che appaiono più consone alle finalità sociali cui deve essere ispirata l’attività economica. Infatti, «nel disegno della Costituzione — sostengono Lunghini e Cavallaro — il sistema bancario nel suo complesso non è altro che uno strumento per la gestione monetaria della programmazione pubblica».
Anche in materia di fiscalità il punto di vista dell’economista e del giurista è molto netto. Stabilito che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», come prescrive il comma 1 dell’articolo 53, secondo loro «l’obiettivo principale dell’imposizione fiscale non è più quello di concorrere al finanziamento delle spese pubbliche per sanità, previdenza, infrastrutture eccetera, ma diventa quello di regolare la domanda del settore privato dell’economia, così che il settore pubblico possa variare la propria spesa (in avanzo o in disavanzo) in modo da conseguire non solo la piena occupazione, ma anche una struttura della produzione orientata secondo le priorità decise politicamente e condivise socialmente». Del resto, nello stesso articolo 53, il principio della progressività dell’imposta, in base al quale l’aliquota aumenta con l’aumentare dell’imponibile operando una redistribuzione del reddito dai ricchi ai po veri, favorisce l’espansione della domanda effettiva. Con ricadute positive sui livelli di reddito e di occupazione, giacché la propensione marginale al consumo dei più ricchi è inferiore a quella dei meno ricchi.
Economia e democrazia
Non c’è dubbio che la lettura degli indirizzi economici proposta da Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro meriti grande attenzione, in particolare alla luce della crisi senza precedenti nella quale stiamo vivendo. Certamente un contributo di rilievo nella ricerca di una politica economica e sociale diversa, da praticare in Italia e in Europa, che rende necessaria la chiarificazione di alcuni aspetti di merito. Come pure delle condizioni politiche in assenza delle quali il disegno costituzionale, soprattutto per quel che riguarda gli aspetti economici, rischia di restare un’irraggiungibile utopia.
Quanto ai contenuti, non appare sufficientemente nitida a mio parere, negli indirizzi programmatici dei due autori, la relazione che intercorre tra economia e società, secondo cui in Costituzione gli interventi economici debbono essere finalizzati a obiettivi chiari e distinti, non al profitto per il profitto. Innanzitutto, alla piena occupazione, non c’è dubbio. Ma anche alla fitta rete dei diritti sociali, dei quali lo stesso diritto al lavoro fa parte, che invece restano piuttosto in ombra nella loro portata innovativa generale. Esattamente da questi nuovi traguardi sociali, anima e corpo di una civiltà più avanzata, i padri costituenti hanno fatto discendere le scelte in materia economica attinenti alle caratteristiche e alla qualità dell’impresa e della proprietà, come del resto risulta dalla stessa sequenza del Titolo III. Non il contrario. Se la priorità, invece, viene data all’economia e all’equilibrio dei fattori, si corre rischio di infilarsi in un tunnel senza via d’uscita, e di mettere in discussione le premesse stesse da cui gli autori hanno preso le mosse.
I padri costituenti non si proponevano di applicare, o di perfezionare, la dottrina economica di John Maynard Keynes, alla quale si richiamano con costanza i nostri autori, bensì di delineare un progetto di nuova società per dare soluzione a impellenti bisogni umani intervenendo nei rapporti di produzione capitalistici: con l’obiettivo di porre l’economia al servizio degli uomini e delle donne, non viceversa. Ben sapendo, avendo vissuto la tragedia della dittatura fascista, che se non condizioni, non limiti e non orienti il loro potere, e non fai crescere e progredire la democrazia anche nei rapporti di produzione, il dominio delle grandi concentrazioni economiche e finanziarie produrrà effetti devastanti sull’intera società. La democrazia sarà attaccata e limitata, svuotata e disgregata. Al limite, soppressa. Come è avvenuto con il fascismo, un regime dittatoriale di massa.
In merito agli aspetti politici, Lunghini e Cavallaro si appellano in modo pressante all’intervento dello Stato, ossia all’intervento pubblico, perché il mercato, abbando nato a se stesso, non precipiti nell’anarchia e il sistema acquisti un equilibrio. Ma cos’è oggi lo Stato nazionale, peraltro largamente svuotato dalle istituzioni sovranazionali, se non un organismo burocratico privo di rappresentanza e di partecipazione popolare, trasformato in agenzia a disposizione dei poteri economico-finanziari dominanti? E come è possibile, in tale condizione, contrastare questi poteri e limitarne il dominio politico, se sono essi stessi a dettare le scelte politiche e le regole istituzionali, direttamente o per interposta persona, in Italia, in Europa e nel mondo? È evidente che non si può porre correttamente il tema dell’attuazione del progetto costituzionale se nello stesso tempo non si combatte tenacemente, anche sul piano culturale, per mettere in campo una forza politica in grado di organizzare e rappresentare le lavoratrici e i lavoratori del nostro tempo.
Alla concentrazione del potere economico corrisponde lo svuotamento della democrazia. Questa è una “legge” ferrea del capitale, che oggi osserviamo a occhio nudo soprattutto nel Paese guida della democrazia occidentale, dove tutto il potere è concentrato nelle mani di monopoli privati della produzione e della comunicazione, i quali hanno instaurato una dittatura delle minoranze e si combattono ferocemente tra loro sul terreno politico. Il sistema democratico progettato dalla nostra Costituzione è tutt’altra cosa. Economia e democrazia, società capitalistica e nuova società, capitalismo e socialismo. Questa è la diade che la Costituzione del 1948 oggi ci propone, e per questo si manifesta in tutta la sua straordinaria attualità e nel valore universale dei suoi principi.
Una costruzione organica e coerente, sia nell’impianto logico che nella visione storico-politica. Nella quale, dal fondamento del lavoro che concretamente ridefinisce i principi di libertà e uguaglianza, fa emergere la fitta trama dei diritti sociali. In assenza dei quali il pieno sviluppo della persona umana non si realizza, e i principi di libertà e uguaglianza restano una declamazione vuota. Ma la Costituzione non si limita a indicare l’insieme dei diritti indispensabili all’affermazione della libertà dei lavoratori e allo sviluppo di ogni persona umana nel patto che unisce gli italiani. Prescrive anche i doveri e le condizioni economiche e politiche perché il patto costituzionale si possa inverare nella vita reale delle donne e degli uomini del nostro Paese, e nei conflitti tra capitale e lavoro che connotano la società in cui viviamo. Fino a prevedere l’ascesa delle lavoratrici e dei lavoratori politicamente organizzati alla direzione del Paese.
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