La lunga coda della pandemia ha portato con sé, oltre alle tragiche conseguenze sanitarie, anche una situazione di prolungata crisi economica, che parte dalle centinaia di migliaia di contratti precari non rinnovati e arriva ai licenziamenti di massa messi in atto dai padroni un secondo dopo la rimozione del blocco dei licenziamenti. A fronte delle preoccupazioni quotidiane che attanagliano la stragrande maggioranza della popolazione del nostro Paese, una narrazione entusiastica e ottimista rimbalza dai principali mezzi di comunicazione agli esponenti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, tutte, con qualche sfumatura, strette a coorte intorno al Governo Draghi. Niente paura, è il messaggio che ci bombarda ogni giorno, l’Europa solidale è al nostro fianco e il cosiddetto Recovery Fund – ufficialmente noto come Next Generation EU – è il veicolo che ci condurrà in un futuro più giusto, più inclusivo, più verde.
Non è particolarmente difficile demistificare la natura meramente propagandistica di questa narrazione. A fronte del fiume di denaro che ogni giorno ci viene promesso, la realtà dei fatti parla di un ammontare di risorse risibile. Al netto dei contributi che l’Italia apporterà, infatti, negli anni a venire al bilancio europeo, secondo le stime più ottimistiche riceveremo circa 50 miliardi di euro da spalmare, cioè da dividere, su sei anni. Una semplice comparazione con le risorse aggiuntive messe in campo dal Governo italiano nel 2020 e quindi in un solo anno, pari a circa 108 miliardi e del tutto insufficienti a tamponare le conseguenze della crisi economica che iniziava a mordere, vale più di tante chiacchiere.
A ben vedere, neanche queste pochissime risorse saranno gratis. La parola chiave, qui, è condizionalità. Ogni euro che riceveremo, ogni euro concesso dalle istituzioni europee, sarà subordinato all’adempimento di una serie di obblighi, all’attuazione di riforme stabilite dalle istituzioni europee e all’adesione al progetto politico dell’austerità, in maniera tale che a fronte dell’euro ricevuto oggi si paghi un prezzo, politico ed economico, ben più caro nei prossimi anni in termini di ulteriore austerità, privatizzazioni, controriforme del mercato del lavoro e fondi generosamente elargiti solo a padroni e padroncini.
Questo è il quadro, in sintesi estrema, di quello che ci aspetta nei prossimi anni. Su questo panorama a tinte fosche, però, entrano in gioco i tanti diversivi, le varie cortine fumogene dietro alle quali il Governo cerca di mascherare l’attacco alle residue tracce di stato sociale e di tutela di lavoratori, studenti e pensionati. Uno dei diversivi consiste nel provare a dare una passata di vernice verde sull’austerità che viene. Tra le direttrici principali del PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il documento che rappresenta l’elenco dettagliato di come ogni Paese beneficiario del Next Generation EU spenderà le risorse ricevute) presentato dall’Italia e approvato dal Consiglio e della Commissione Europea vi è, infatti, un corposo capitolo dedicato all’ambiente. Ci riferiamo alla seconda delle sei “missioni” nelle quali è suddiviso il Piano, denominata “Rivoluzione verde e transizione ecologica”.
Per quest’ultima, il Piano del Governo stanzia 69,94 miliardi. Ciascuna missione, poi, è a sua volta suddivisa in componenti. La missione che ci interessa da vicino è divisa in quattro componenti: agricoltura sostenibile ed economia circolare; transizione energetica e mobilità sostenibile; efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; tutela del territorio e della risorsa idrica. Etichette rassicuranti, a prima vista lodevoli e improntate alle migliori intenzioni.
Dove sta allora l’inghippo? Per rispondere, più che alla generica enunciazione di buoni intenti del PNNR, è utile spostare lo sguardo leggermente di lato. Il cosiddetto Decreto Semplificazioni, approvato dal Governo Draghi a fine maggio, è la cartina al tornasole perfetta per capire quanto l’esecutivo italiano e le istituzioni europee abbiano davvero a cuore la sostenibilità ambientale e un futuro ecologicamente sostenibile. Parliamo infatti di una feroce deregolamentazione, che nella neolingua in voga nel Governo viene presentata eufemisticamente come una semplificazione, tra le altre cose, delle procedure di conferimento e assegnazione degli appalti per lavori pubblici. L’impronta ideologica è esplicita nella sua sfacciataggine. Vengono prorogate fino al 30 giugno 2023 una serie di deroghe al Codice degli Appalti che erano state approvate nei mesi della pandemia con lo scopo, almeno quello dichiarato, di poter intervenire con rapidità e urgenza nel pieno dell’emergenza: in particolare viene alzato l’importo massimo sotto al quale si possono assegnare lavori pubblici senza fare nessuna gara, ma procedendo con un’assegnazione diretta o con una snella ‘procedura negoziata’, condotta in privato tra la centrale pubblica appaltante e una cerchia ristretta di ditte; oltre a questo, si prolunga anche la validità delle deroghe che mettono al riparo il padrone vincitore di un appalto da accuse di danno erariale ed abuso d’ufficio. Nonostante la tanto sbandierata rivoluzione verde e sostenibile, i tempi concessi alle autorità preposte per effettuare una Valutazione di Impatto Ambientale, prerequisito necessario per valutare se una determinata opera pubblica devasta la natura circostante o meno, vengono dimezzati con l’accetta; inoltre, si predispone un binario blindatissimo e di fatto al di sopra di ogni controllo per otto grandi opere, tra cui linee di alta velocità e interventi sulle infrastrutture portuali. Ciliegina sulla torta, si liberalizza, di fatto incentivandolo, il ricorso al sub-appalto. Con tale nome si intende la procedura per la quale l’azienda X, che risulta vincitrice di un appalto per un lavoro pubblico, affida una parte delle proprie incombenze e dei lavori da svolgere all’azienda Y, scelta dall’azienda X in sostanziale libertà. Il sub-appalto – una pratica che storicamente ha permesso ad aziende dalla trasparenza discutibile e spesso con connessioni con il mondo criminale di mettere le mani su porzioni sostanziose di finanziamenti pubblici – è anche uno strumento grazie al quale le imprese risparmiano sui costi, attraverso peggiori condizioni per i lavoratori coinvolti, un rapporto di mero sfruttamento della natura circostante e una minore qualità nei lavori realizzati. La percentuale massima di lavoro che può essere sub-appaltata aumenterà gradualmente fino al 1° novembre, quando cesserà di esistere del tutto. Ciò implica che non esisterà più alcun vincolo per le imprese a ricorrere all’opaca pratica del sub-appalto. Al mercato, cioè alle imprese, va data mano libera e vanno rimossi tutti gli intralci, che siano di tutela dei diritti dei lavoratori o dell’ambiente, che si frappongono alla possibilità di tornare a macinare profitti al più presto.
L’impronta che caratterizza l’operato del Governo in materia “verde”, d’altronde, traspare anche chiaramente dalle parole del ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani.
Il ministro, all’inizio di luglio, ha rilasciato un’intervista che gli ha attirato molte critiche. Nell’intervista, infatti, diceva che una transizione ecologica non sufficientemente graduale potrebbe diventare “un bagno di sangue”. Pochi giorni fa, nel tentativo di rispondere alle critiche che erano arrivate anche dal Movimento 5 Stelle, che sostiene l’esecutivo di cui Cingolani fa parte, il ministro ha spiegato: «Per me è fondamentale che ci sia la protezione delle categorie più deboli, che non vengano danneggiate cioè decine di migliaia di persone che possono perdere il lavoro perché certe transizioni nell’industria si fanno in fretta».
Sebbene le parole di Cingolani siano sgradevoli e sebbene siamo certi che la protezione delle categorie più deboli sia l’ultima delle preoccupazioni del Governo, il suo ragionamento coglie un punto fondamentale. Il conflitto tra le ragioni dell’occupazione e quelle dell’ambiente, mediate dal movente del profitto.
Volendo spiegare la questione in termini molto semplici, possiamo iniziare dalla considerazione che nella scelta tra diversi metodi di produzione, le imprese, se non limitate da vincoli imposti dal regolatore pubblico, decidono, per loro natura, di utilizzare sempre il metodo o i metodi di produzione che garantiscono un profitto più elevato. Spesso e volentieri, però, il metodo di produzione che garantisce il profitto più elevato è anche quello che comporta un maggior impatto ambientale.
Dover limitare le emissioni inquinanti, installare filtri, monitorare i processi produttivi, fornire ai lavoratori i dispositivi di protezione individuale necessari a mitigare l’esposizione agli inquinanti, sono tutti adempimenti che comportano costi. Costi che riducono i margini di profitto e, quindi, rendono meno appetibili gli investimenti. Le imprese troveranno più conveniente spostare la produzione dove le regole sono meno stringenti, in modo da poter lucrare un profitto più elevato. Nulla di nuovo, è quello che accade anche con i diritti e le remunerazioni dei lavoratori.
Nel momento in cui i governi devono regolamentare questi aspetti, quindi, sono messi di fronte a una scelta. Se vogliono proteggere l’ambiente, ad esempio imponendo o perlomeno incentivando metodi di produzione a basso impatto ambientale, vietando alcune produzioni particolarmente inquinanti, devono essere consapevoli che la reazione del capitale sarà quella di cercare impieghi più remunerativi. La classica arma di ricatto con cui i padroni fanno valere le loro ragioni, cioè la difesa dei loro profitti, sulle spalle di lavoro e ambiente. Un governo, a questo punto, ha di fronte quattro strade. La prima è l’unica che ha la facoltà di rompere il giogo che vede contrapposti lavoro e salute, difesa dell’occupazione e difesa dell’ambiente, e richiede di impedire materialmente al padrone di attuare il suo ricatto. Una strada che, nel contesto istituzionale dell’Unione Europea che considera la libera circolazione dei capitali un dogma e una libertà fondamentale, è semplicemente non percorribile, e che quindi passa per la messa in discussione di questo contesto e per la rottura della compatibilità con il dispositivo di controllo che soffoca con l’austerità il benessere delle popolazioni. Un’opzione politica difficile e impervia, la nostra, ma l’unica praticabile se la transizione ecologica e sociale la si vuole realizzare e non solamente usare come diversivo. Una seconda strada passa per far pagare il costo della transizione ecologica alle persone comuni, a chi ha bisogno di lavorare per sopravvivere, come tentato da Macron più di due anni fa con una serie di misure antipopolari che diedero vita alla ribellione dei gilet gialli. La terza strada, spesso complementare alla seconda, prevede che lo Stato si faccia carico dei costi della transizione, con generose sovvenzioni e sussidi al privato, che si ridipinge l’anima di verde a spese del tanto odiato settore pubblico. La quarta prevede interventi meramente cosmetici e propagandistici, rimandando un po’ più in là nel tempo la resa dei conti con la tragedia ecologica che incombe.
Attorno a questi temi, Cambiare Rotta e Unione sindacale di base (USB) organizzano il convegno ‘Il capitalismo uccide il nostro futuro. Crisi ecologica e lotte ambientaliste’. Sarà un’occasione di confronto tra i movimenti e le lotte ambientaliste del nostro Paese e sarà, soprattutto, un momento di organizzazione delle lotte che attraverseranno il nostro territorio nei prossimi mesi. L’appuntamento è a Napoli, il 24 luglio alle ore 10, presso Zero81, laboratorio di mutuo soccorso.
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