Keynes “sovranista”: contro l’internazionalizzazione della finanza e per l’autosufficienza nazionale
DA LA FIONDA (Di Enrico Grazzini)
Pochi amano ricordare un fatto indiscutibile: John Maynard Keynes, il più grande economista del secolo scorso, era assolutamente contrario alla libera circolazione dei capitali e al dominio della finanza sull’economia, e era anche decisamente a favore del “nazionalismo economico”, ovvero dell’autosufficienza delle nazioni. Il suo pensiero oggi è tornato di grande attualità: infatti tutte le più grandi economie, quella statunitense, quella cinese, quella russa, e buona ultima anche quella europea, puntano all’autosufficienza o, in ultima analisi, alla “non dipendenza”. L’autosufficienza che Keynes invoca nei suoi scritti era però finalizzata alla pace e allo sviluppo; l’autosufficienza che oggi cercano le grandi potenze è invece per prepararsi alla guerra.
In un suo articolo scritto nel 1933 – quando Mussolini e Stalin erano già al potere e Hitler cominciava a diventare capo assoluto della Germania – intitolato “National Self-Sufficiency”, Keynes non ebbe timore di valutare in maniera molto positiva il nazionalismo economico[1]. Scrisse infatti: “Io simpatizzo di più con coloro che vorrebbero ridurre al minimo le relazioni economiche tra le nazioni che non con quelli che le vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano prodotte in patria ogni qualvolta è ragionevolmente e praticamente possibile, e soprattutto lasciate che la finanza sia prevalentemente nazionale”. Per Keynes moneta, credito e finanza dovevano essere gestite innanzitutto a livello nazionale. Certamente il “nazionalismo economico” di Keynes non ha nulla a che vedere con l’autarchia di marca fascista o sovietica, che Keynes critica nel suo articolo. L’autosufficienza economica invocata da Keynes era piuttosto mirata alla gestione democratica dell’economia, la quale doveva essere aperta agli scambi con l’estero ma non doveva essere dipendente da potenze e da capitali stranieri.
La legge uniforme dei mercati – cioè la legge del più forte – non può valere in modo omogeneo per tutti i paesi e in tutti i tempi allo stesso modo. Ogni paese deve potere scegliere in autonomia la strada del suo sviluppo. “Il capitalismo decadente, internazionale e individualistico in cui ci siamo trovati dopo la guerra, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso, e non mantiene quello che ha promesso. In breve, non ci piace e stiamo anzi cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa dobbiamo mettere al suo posto siamo estremamente perplessi…Noi però non vogliamo essere in balia di forze mondiali che producano, o cerchino di produrre, un qualche equilibrio uniforme in armonia con dei principi ideali, se così si possono chiamare, del capitalismo del laissez-faire. ….finché dura l’attuale fase di transizione e di sperimentazione, almeno in questa fase, noi vogliamo essere i padroni di noi stessi ed essere liberi quanto più è possibile dalle interferenze del mondo esterno. Così, da questo punto di vista, la politica di maggiore autosufficienza nazionale va considerata non come un ideale in sé stesso ma come diretta alla creazione di un ambiente nel quale altri ideali possano essere perseguiti in maniera sicura e conveniente”.
Nel suo tempo, proprio come anche nel nostro tempo, prevaleva la teoria ricardiana cosiddetta dei “vantaggi comparati” per cui ogni nazione deve specializzarsi in quello che sa fare meglio e acquistare dall’estero quello che farebbe fatica a produrre. Una teoria di stampo colonialista, che fissa a livello internazionale la divisione del lavoro delle periferie a favore dei centri imperialisti. Lui invece auspicava che per quanto possibile le economie nazionali – compresa la Gran Bretagna, ovvero lo Stato privilegiato al centro dell’impero – fossero tendenzialmente autosufficienti. Ovviamente la sua critica coraggiosa e controcorrente era rivolta innanzitutto al colonialismo del suo paese, del paese di cui era suddito. Oggi però anche molti intellettuali considerati progressisti e di sinistra, ipnotizzati dalla fascinazione europeista, condannerebbero Keynes e lo bollerebbero di “nazionalismo”. Oggi Keynes sarebbe accusato di “sovranismo” e di essere anti-europeista paradossalmente soprattutto dalle forze di sinistra che spesso si proclamano keynesiane. Resta il fatto che Keynes certamente, come si evince dal suo scritto sull’autosufficienza e da tutta la sua opera, non avrebbe mai accettato una moneta unica per 20 paesi diversi. Tutta la sua opera verte sull’importanza della moneta, delle politiche monetarie e fiscali, sull’importanza del tasso di interesse di banca centrale per gli investimenti e per lo sviluppo economico nazionale. Quindi è certo che una unione monetaria, una unica moneta che subordina venti paesi molto diversi tra loro, e per di più una unione fondata sulla completa libertà di movimento dei capitali internazionali e sulla condanna dell’intervento pubblico considerato come distorsivo della libertà di mercato, sarebbe stata per lui inconcepibile. Nel suo scritto sull’autosufficienza oggetto di questo articolo appare chiaro che non avrebbe mai accettato la logica del “vincolo esterno” ovvero dell’eterodirezione straniera dell’economia, seppure ammantata di internazionalismo e giustificata con l’argomento retorico della ricerca della pace. Keynes si dichiara invece a favore della varietà dei modelli nazionali di sviluppo economico e dell’autonomia produttiva, commerciale e finanziaria delle nazioni.
Dopo il macello della prima guerra mondiale, Keynes era consapevole che di per sé il commercio internazionale e le forze della finanza non spingono verso la pace ma che possono invece portare alla guerra, e che al contrario lo sviluppo economico autocentrato è una forza di pace. “tendo a credere che, dopo un periodo di transizione, un certo livello di autosufficienza e di isolamento economico tra le nazioni – in misura maggiore di quello che esisteva nel 1914 – possa aiutare più che danneggiare la causa della pace. E’ certo comunque che l’epoca dell’internazionalismo economico non è stata particolarmente efficace nell’evitare le guerre”.
Keynes smonta una per una le motivazioni con i quali l’ideologia dominante tenta di vendere presso l’opinione pubblica i falsi miti liberisti. Inizia a chiedersi se è vero che l’internalizzazione del capitale e l’integrazione dei mercati commerciali servano alla causa della pace, come tentano i fare credere i falsi profeti della globalizzazione. L’economista di Cambridge risponde che è vero il contrario: “oggi non pare davvero scontato che concentrare gli sforzi di una nazione nella conquista del commercio estero, che la penetrazione dell’economia di un paese da parte dei capitalisti stranieri, forti delle loro capacità economiche e della loro capacità di condizionamento, e che la stretta dipendenza della vita economica nazionale dalle mutevoli politiche economiche dei paesi stranieri, possano salvaguardare e garantire la pace internazionale. Alla luce dell’esperienza e delle conoscenze più approfondite è più facile giungere alla conclusione opposta…..Spesso però le migliori politiche economiche nazionali potrebbero essere adottate più facilmente se si potesse eliminare quel fenomeno conosciuto col nome di «fuga dei capitali».
Keynes chiama con il suo vero nome la liberalizzazione dei movimenti internazionale dei capitale: la liberalizzazione non è “libertà” ma fuga dei capitali. L’assoluta libertà di movimento dei capitali significa semplicemente che i risparmi e le risorse monetarie prodotte dal lavoro e dall’intelligenza di una nazione non servono alla nazione stessa per il suo sviluppo ma vengono esportati all’estero per scopi speculativi e per arricchire solo una elite di persone. A noi interessa ricordare che la libertà di movimento di capitali è la colonna portante dell’Unione Europea. La fuga dei capitali nazionali comporta l’impoverimento delle economie e porta all’uniformità tendenziale dei tassi di interesse nazionali (oggi questo fenomeno si chiama carry trade). Per Keynes, contrariamente a quanto sostiene l’ideologia europeista, l’uniformità dei tassi di interesse perseguita attualmente dalla Banca Centrale Europea contrasta l’interesse delle nazioni. Ogni Stato dovrebbe infatti fissare il tasso di interesse più adatto per la sua economia nella fase specifica.
Per Keynes non si può lasciare l’economia nelle mani dei mercati e degli operatori internazionali: la politica economica deve innanzitutto difendere gli interessi nazionali. Keynes condanna il divorzio tra proprietà e gestione dell’industria e la proprietà finanziaria delle industrie – cioè la proprietà da parte dei finanzieri che acquistano e rivendono per motivi puramente speculativi i titoli di proprietà (le azioni) delle imprese –. La separazione tra la proprietà del capitale e la reale direzione dell’impresa è un fattore di preoccupazione all’interno di un paese dove – come conseguenza della diffusione delle imprese con capitale azionario – la proprietà è spezzettata tra innumerevoli individui che comprano la loro partecipazione oggi e la rivendono domani, e che mancano totalmente così di conoscenze e di responsabilità verso l’azienda della quale sono momentaneamente proprietari. Ma quando il medesimo principio viene applicato su una scala internazionale, esso, soprattutto nelle fasi di maggiore difficoltà, diventa intollerabile: – io (l’azionista, ndr) non sono responsabile verso ciò che possiedo e i manager che gestiscono ciò che possiedo non sono responsabili verso di me”. Keynes sarebbe quindi favorevole alla nazionalizzazione delle risorse strategiche.
Keynes è contro la globalizzazione finanziaria che spinge per l’uniformità dei tassi di interesse nei diversi Paesi. Secondo lui i tassi di interesse dovrebbero scendere in modo che nel lungo periodo provochino la “fine dei rentier”, la fine dei monopoli privati sulla moneta e della rendita finanziaria. Nel frattempo ogni Paese dovrebbe decidere il suo tasso di interesse e il livello dei crediti in base ai suoi interessi e alla sua situazione specifica. “Per quel che riguarda l’operatività economica, non sono favorevole alla pianificazione centrale dell’economia, e anzi sono favorevole a lasciare quanto più è possibile al giudizio, all’iniziativa e alla intrapresa privata. Ma mi sono dovuto convincere che la conservazione del sistema dell’impresa privata è incompatibile con quel grado di benessere materiale a cui ci dà diritto il nostro progresso tecnico,….l’internazionalismo economico – che comprende tanto il libero movimento dei capitali e del credito quanto quello delle merci – può condannare il mio paese per una intera generazione a un grado di prosperità materiale molto inferiore a quello che potrebbe esser raggiunto con un altro sistema.
Al tempo di Keynes ovviamente, anche se a un grado minore dell’attuale, la globalizzazione esisteva già, ma Keynes era contrario. “Credo fermamente che nel futuro per le prossime generazioni non esisterà nessuna possibilità che il sistema economico mondiale possa diventare omogeneo, almeno allo stesso modo di quello che grosso modo esisteva durante il secolo XIX; e credo che tutti noi dobbiamo essere il più liberi possibile da interferenze legate a mutamenti economici che si verifichino altrove in modo da poter fare gli esperimenti che preferiamo in vista della repubblica che sogniamo e della società del futuro; e che un consapevole movimento per una maggiore autosufficienza nazionale ed un maggiore isolamento economico, almeno finché si potrà effettuare ad un costo economico non eccessivo, renderà il nostro compito più facile”.
Keynes si mostra apertamente contrario alla prevalenza dei capitali stranieri sull’economia nazionale e al dominio della logica del profitto sulle politiche pubbliche e sulla società.
Scrive: “In un mondo razionale un elevato grado di specializzazione internazionale è necessario in tutti quei casi in cui questo sia reso indispensabile da grandi differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini naturali, di livelli culturali e di densità di popolazione. Ma dubito che per un numero crescente di prodotti industriali, e forse perfino di prodotti agricoli, la perdita economica conseguente all’autosufficienza nazionale sia così grande da pesare più degli altri vantaggi derivanti dal fatto che i prodotti e i consumatori siano gradualmente situati nell’ambito di una medesima organizzazione nazionale, economica e finanziaria. L’esperienza sembra sempre di più in più provare che l’efficienza dei più moderni processi di produzione in massa sia quasi indipendente dal paese e dal clima. Si aggiunga che col crescere della ricchezza i prodotti, sia quelli del settore primario come quelli manifatturieri, giocano nell’economia nazionale una parte relativamente più piccola in confronto all’edilizia, alle prestazioni personali e ai servizi locali che non sono oggetto di scambio internazionale; con il risultato che un aumento moderato del costo reale dei prodotti primari e industriali dovuto a un maggior grado di autosufficienza economica può perdere di importanza in confronto ai possibili vantaggi alternativi. In breve, l’autosufficienza economica nazionale, sebbene possa generare dei costi all’inizio, sta forse diventando un lusso che, se lo vogliamo, ci possiamo permettere”.
Keynes, già negli anni ’30 scorgeva nella speculazione di Wall Street il nemico numero uno di una economia avanzata. Nel suo saggio principale sulla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” scrisse: «Se vogliamo applicare il termine “speculazione” all’attività di prevedere la psicologia del mercato, e il termine “intraprendenza” all’attività di prevedere il rendimento prospettivo dei beni capitali per tutta la durata della loro vita, è certo che non sempre si verifica che la speculazione predomini sull’intraprendenza. Tuttavia, quanto più perfezionata è l’organizzazione dei mercati di investimento, tanto maggiore sarà il rischio che la speculazione prenda il sopravvento sull’intraprendenza. In uno dei maggiori mercati di investimento del mondo, New York, l’influenza della speculazione (nel senso suddetto) è enorme. Tuttavia quanto più sarà perfezionata l’organizzazione dei mercati di investimento tanto maggiore sarà il rischio che la speculazione prenda il sopravvento sull’intraprendenza. In uno dei maggiori mercati di investimento del mondo, New York, l’influenza della speculazione nel senso suddetto è enorme. Anche al di fuori del mercato finanziario gli americani sono eccessivamente propensi ad interessarsi di scoprire come l’opinione media immagina che sarà l’opinione media stessa e questa debolezza nazionale trova la sua nemesi nel mercato dei titoli…. Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male”[2].
Dai tempi di Keynes in poi i mercati speculativi sono aumentati enormemente. La speculazione è per natura relativamente indipendente dalla sfera di produzione del valore ma, dal momento che punta ad accumulare moneta, e che la moneta comunque rappresenta del valore reale, allora la speculazione non può che nutrirsi delle attività e del lavoro delle classi produttrici.
Per Keynes, i risultati finanziari, la ricerca spasmodica del profitto e del “valore per gli azionisti” non possono prevalere sul benessere della società e sulla difesa dei beni comuni. I “ragionieri del capitale” – quelli che cercano solo il rendimento monetario – costringono la società alla povertà e al sottoutilizzo delle capacità tecniche e delle risorse umane e produttive a causa della strutturale “povertà monetaria” dei consumatori. Ma il bene comune dovrebbe prevalere al di là della limitata disponibilità di capacità monetaria della gente. Keynes invoca altri criteri che non quelli puramente contabili per misurare i benefici dell’azione economica
“Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza nell’adottare quel criterio che si può chiamare brevemente dei «risultati finanziari» quale motivo valido per qualsiasi azione sia privata che collettiva. Tutta la condotta della vita è stata ridotta a una specie di parodia dell’incubo di un contabile. Gli uomini dell’ottocento invece di usare le loro immense risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie costruirono dei quartieri fatti di catapecchie; ed erano d’opinione che fosse giusto ed opportuno costruire delle catapecchie perché queste, di fronte all’iniziativa privata, «rendevano» mentre la città delle meraviglie, pensavano, sarebbe stata una folle stravaganza che – per esprimerci nell’idioma imbecille della lingua finanziaria – avrebbe «ipotecato il futuro» (a causa del peso degli interessi che gravano sui mutui per la casa, ndr)”.
Il dominio dell’interesse e del calcolo finanziario e la ricerca spasmodica del profitto non devono limitare lo sviluppo produttivo e il benessere delle nazioni. Il culto del dio denaro non può prevalere e va combattuto strenuamente.Lo sviluppo economico, culturale e sociale non dovrebbe essere costretto dalle limitazioni monetarie della domanda. “La norma (quella del rendimento contabile, ndr) che segue un calcolo finanziario suicida regola ogni passo della vita…. Noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle solo perché non pagano un dividendo”.
Secondo l’economista di Cambridge lo Stato democratico deve diventare il motore del cambiamento. Lo stato non dovrebbe comportarsi come un’azienda privata e fare investimenti in previsione del profitto. Dovrebbe invece attuare la politica economica nazionale per il benessere sociale senza badare solamente al calcolo economico e dovrebbe decidere che cosa produrre nella nazione e che cosa invece importare dall’estero. Ma, una volta che ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell’utile contabile, noi abbiamo cominciato a cambiare la nostra civiltà. … È lo Stato, e non gli individui, che deve cambiare i suoi criteri. È la concezione del ministro delle Finanze – che spesso viene considerato come il presidente di una società per azioni – che deve essere respinta. Se le funzioni e gli scopi dello Stato devono essere molto ampliati, le decisioni riguardo a ciò che, in linea generale, dovrà essere prodotto nel paese e ciò che invece dovrà essere ottenuto dall’estero, dovranno essere tra le più importanti che la politica dovrà prendere”.
Per il liberale Keynes l’economia deve procedere sui binari della sovranità democratica nazionale. Anche in base a queste sue idee sono stati costruiti gli accordi di Bretton Woods (1945) sottoscritti alla fine della Seconda Guerra Mondiale da tutti i paesi occidentali: questi accordi imponevano severe restrizioni al movimento internazionale dei capitali e un regime di cambi fissi tra i paesi – ma eventualmente aggiustabili, nel caso che un paese registrasse crisi gravi della bilancia dei pagamenti -. Nel secondo dopoguerra, grazie alla regolamentazione del movimento dei capitali, e grazie al fatto che gli stati europei hanno potuto proteggersi dalle importazioni di merci americane, l’economia europea “protezionista” è riuscita a decollare nonostante le rovine della guerra. Bretton Woods ha assicurato alti livelli di benessere nei paesi sviluppati, almeno fino agli anni ’70. Poi è seguita l’ondata liberista portata dalle politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Dagli anni 80 in poi il movimento dei capitali ha distrutto il regime di cambi fissi e ha prodotto il Casinò Capitalism, il capitalismo speculativo e le crisi finanziarie. L’Europa è fondata sul capitalismo finanziario più deregolamentato che esista. L’Unione Europea regolamenta e restringe l’attività dello Stato e l’attività pubblica, considerata come ostacolo alla competizione e al libero gioco dei mercati. Disgraziatamente oggi gli europeisti sono complessivamente schierati a fianco di questa UE che è dominata dalla potente finanza parassitaria, la quale per sua natura è sovranazionale. Ma gli Stati, come insegna Keynes, possono essere le uniche barriere alla libertà assoluta del capitale finanziario. La necessità che gli Stati democratici tendano all’autosufficienza e siano per quanto possibile sovrani anche sulla moneta è generalmente sottovalutata o denigrata perfino dalla sinistra sedicente anticapitalista. Non è un caso che la sinistra sia stata quasi spazzata via dall’Europa. Per riprendere il cammino bisogna cominciare a prendere lezione da Keynes e gettare alle ortiche l’europeismo dogmatico.
[1] National Self-Sufficiency. John Maynard Keynes, The Yale Review, Vol. 22, no. 4 (June 1933); Enrico Grazzini “Ketnes e la sovranità finanziaria” Micromega n.5-2021;
[2] John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Terenzio Cozzi, Torino, UTET, 2006,
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