Come tutti sanno in Turchia si sono appena svolte le elezioni amministrative in cui le cinque maggiori città del Paese (Istanbul, Ankara, Smirne, Bursa e Adana) sono andate ai candidati del CHP, il maggiore partito di opposizione rispetto all’AKP che guida il Governo ed è dominato dal presidente Recep Tayyep Erdogan. L’autocratico Rais non gode di molte simpatie in Europa, quindi i commenti hanno quasi ovunque parlato di una sua clamorosa sconfitta e di nuove prospettive per le elezioni presidenziali del 2028. C’è ovviamente molta verità in questa interpretazione. Erdogan e l’AKP avevano vinto le elezioni politiche del maggio scorso con il 52,18% dei voti, in una tornata con un’affluenza media, tra primo e secondo turno, dell’85%. In queste amministrative l’affluenza è stata del 76% e pare aver penalizzato soprattutto i candidati «governativi», il che denuncia un calo di fiducia che affonda nella pericolante situazione economica della Turchia, con l’inflazione al 67% e la Lira che perde ogni giorno di valore rispetto al dollaro.
Calo ancor più significativo perché non compensato dal dominio sui media e sulla propaganda di cui il regime ha potuto godere. L’esito di quest’ultimo voto, inoltre, renderà Erdogan assai più cauto rispetto al proposito, che molti gli attribuiscono, di far votare per referendum una modifica alla Costituzione che gli permetta un ulteriore mandato da Presidente.
Detto questo, però, bisogna chiedersi se Erdogan ha perso o, piuttosto, non ha vinto. Non è questione di sfumature. Delle cinque grandi città di cui sopra (la sola Istanbul, con 14 milioni di abitanti, vale circa il 20% della popolazione turca totale) solo Bursa aveva, prima dell’ultimo voto, un sindaco dell’AKP. Quel che si dovrebbe dire, quindi, è che Erdogan, la cui base elettorale in Anatolia resta inattaccabile, non è riuscito a riprendersi ciò che già prima era controllato dalle opposizioni. La progressiva inurbazione della popolazione turca, inoltre, comporta per le opposizioni sia vantaggi sia svantaggi. Il vantaggio sta nel progressivo adattamento ad abitudini e costumi più aperti e progressivi che, nel medio periodo, si traduce in scelte politiche più audaci e innovative. Lo svantaggio sta nel formarsi di enormi e affollate periferie di popolazione povera dove fa più facilmente presa il messaggio nazionalista e islamista in cui Erdogan è maestro. E secondo molte analisi, è stato proprio l’astensionismo di queste periferie a determinare l’attuale risultato, che resterebbe quindi legato a una fluttuazione elettorale non irreversibile.
C’è un’ulteriore considerazione. Le opposizioni a Erdogan, quando si va a elezioni politiche o presidenziali, hanno sempre lo stesso problema: formare coalizioni di scopo tra partiti molto distinti l’uno dall’altro e, nello stesso tempo, trovare un leader che li rappresenti tutti. Alle elezioni presidenziali dell’anno scorso, sei partiti scelsero
Kemal Ciligdaroglu come
candidato anti-Erdogan e non mancarono le polemiche. Tanto che, sconfitto dal Rais, Ciligdaroglu fu poi anche estromesso dalla guida del CHP. Erdogan non ha di questi problemi, perché domina l’AKP e i partiti minori della destra ipernazionalista. E se nel 2028 non potesse ricandidarsi alla presidenza, è già pronto il successore:
Selciuk Bayraktar, l’industriale degli armamenti diventato una specie di eroe nazionale per aver prodotto i famosi droni in uso agli Ucraini che portano il suo cognome, e che
casualmente è anche il genero di Erdogan.
Tutto questo non per sminuire il successo del CHP ma per ricordare che Erdogan ha solo 70 anni, è innamorato del potere e da più di due decenni è un osso molto duro da rodere.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 2 aprile 2024
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