La nostra lotta per la Palestina: gli studenti della Normale si raccontano a L’Indipendente
di L’INDIPENDENTE ONLINE (Collettivo della Scuola Normale di Pisa)
Da mesi gli studenti di tutta Italia si stanno mobilitando con una richiesta molto chiara: pretendere che le Università prendano posizione in solidarietà del popolo palestinese, schierandosi contro il massacro di civili in corso a Gaza in modo attivo, ossia rompendo ogni complicità e cooperazione con Israele. Nei giorni scorsi ha fatto scalpore la battaglia vinta dagli studenti in uno degli atenei di eccellenza e maggior prestigio internazionale d’Italia, la Scuola Normale di Pisa, dove il Senato accademico ha approvato una mozione che chiede lo stop alla cooperazione accademica con Tel Aviv. Il collettivo degli studenti della Normale ha contattato L’Indipendente, chiedendoci di concedere loro spazio sul nostro giornale per raccontare la loro battaglia, dura e determinata, per ottenere dall’Università una presa di posizione. E di come questa presa di coscienza li abbia spinti a puntare più in alto, opponendo all’idea sempre più diffusa di un’università individualista e luogo solo di avviamento al lavoro, il progetto di un’università che sia luogo fatto di soggetti capaci di utilizzare i saperi per «mettere la propria libertà e il proprio privilegio al servizio della libertà altrui». Riportiamo di seguito l’intero testo inviatoci dagli studenti pisani, convinti sia un documento interessante per i lettori, anche per capire il clima di cambiamento che si respira in molte università italiane.
“Fuori, in piazza dei Cavalieri, tutto scorre: passano le stagioni, gli anni, le persone. Ma il palazzo della Scuola Normale, che la domina, sembra estraneo a questa vita, sempre uguale a se stesso. La Scuola Normale, così come l’università tutta, sembra potersi permettere di rimanere cristallizzata nella sua stasi istituzionale, protetta da un’aura di eccellenza.
Eppure qualcosa si è mosso anche dove tutto sembra ovattato, dove il cambiamento sembra impossibile. Uno squarcio si è aperto nel cielo di carta dell’accademia, alla Scuola Normale Superiore; vorremmo raccontarlo, per capire insieme come continuare ad allargarlo.
Da Bari a Roma, da Pisa a Torino, il corpo studentesco non sono più disposto a essere trascinato nel silenzio colpevole di chi governa i luoghi della formazione. Di fronte al genocidio che si sta compiendo in Palestina, lo scarto tra i nostri privilegi e la realtà che ci circonda esplode in tutta la sua contraddittorietà, dimostrandosi frustrante, violento, inaccettabile.
Questo ci ha obbligati a compiere una scelta: rompere la normalità e il colpevole silenzio o tornare a rifugiarci nella migliore delle illusioni, cioè quella di un sapere dotto, erudito, disinteressato – insomma, la panacea di tutti i mali?
Come allieve e allievi della Normale, abbiamo deciso di riunirci in un’assemblea plenaria e di sottoporre alla Scuola alcune richieste puntuali, tra cui la presa di distanza pubblica dal bando del MAECI e la messa in discussione di collaborazioni con istituzioni israeliane. L’assemblea ha inoltre indetto uno sciopero studentesco e appoggiato la creazione di un presidio in Piazza dei Cavalieri, organizzato per il 20 marzo. Quel giorno la Scuola ha risposto con un ostinato silenzio, rotto solo da brevi dichiarazioni alla stampa, ma la mobilitazione non si è fermata. Il presidio si è protratto per ben dieci ore, durante le quali siamo rimasti insieme, manifestando il sostegno alla popolazione palestinese e pretendendo risposte da parte della nostra istituzione.
Rompere la quotidianità, insieme
Quel giorno ci siamo ripresi il nostro tempo, che di solito scorre a un ritmo serrato, scandito da consegne, seminari ed esami che ci costringono a vivere di corsa tra lo studio e il resto che ci concediamo. Durante il presidio abbiamo sentito che ci stavamo riappropriando dei nostri tempi e dei nostri spazi; abbiamo deciso di farlo insieme, perché la vera rottura della quotidianità non può essere che collettiva. L’università ci ha sempre insegnato a essere individui singoli, a diventare singolarmente sempre più bravi, a vedere in chi ci siede di fianco un rivale con cui competere. Quel giorno, invece, abbiamo dimostrato, in primis a noi, che non siamo fatte e fatti per un’educazione individualista: abbiamo visto tante persone unirsi in un processo collettivo, accordandosi reciprocamente fiducia e responsabilità.
C’è chi ha sentito, per la prima volta alla Normale, di essere parte di una vera comunità, basata su volontà e pensieri condivisi, e non solo sull’adesione a un preciso progetto formativo o sul superamento di uno stesso concorso di ammissione. Una comunità che è ben più grande delle quattro mura della nostra torre d’avorio, che vive anche nelle piazze e nelle lotte. Ci siamo pensati finalmente coinvolti, responsabili, perché è colpevole chi non mette la propria libertà e il proprio privilegio al servizio della libertà altrui, chi non usa la sua voce per raccontare l’oppressione di chi è piegato al silenzio.
Insieme abbiamo scoperto una nuova gioia: fervente, collettiva, piena di rabbia ma fatta di collaborazione e partecipazione. Ci manca, e forse non a caso, una parola per descriverla: non è una gioia spensierata. Non è una parola che ci hanno insegnato in classe, non l’abbiamo trovata nei nostri libri. Sicuramente non è serena felicità: è passione di vita e libertà, profondamente consapevole della morte e dell’ingiustizia che dalla loro oppressione derivano e che la rendono densa di preoccupazione e contrarietà. Con questa nuova gioia abbiamo alzato insieme la bandiera palestinese e l’abbiamo portata all’interno dei luoghi della nostra formazione. Perché quella bandiera ci insegna la resistenza, ci interroga su quello che facciamo ogni giorno, su quello che studiamo e sul perché delle nostre ricerche.
Per un sapere schierato
I nostri studi non sono separati dal mondo; riteniamo manchevole una formazione che non contempla prese di posizione, pericolosa una didattica slegata dalla realtà.
Il silenzio dell’accademia sul genocidio in atto in Palestina si alimenta dell’illusione – e della scusa – che il sapere possa non interfacciarsi mai con quello che succede fuori dalle mura dell’università. Ma per sua stessa natura il sapere è posizionato, schierato; l’accademia ha un ruolo nel mondo e nella società, che lo voglia o meno. Il silenzio che chiamano neutrale nasconde una complicità inaccettabile, e non solo: a chi parla di università non schierate vorremmo ricordare che avere accordi con aziende coinvolte nella filiera bellica le schiera da una parte ben precisa. Ma noi da quella parte non ci vogliamo stare: crediamo in un’università che non si sottrae alle responsabilità che inevitabilmente ha, anche quando affrontarle significa sospendere bandi scientifici o contestare direttive ministeriali.
Abbiamo deciso di scioperare dalle lezioni, perché a lezione non vogliamo illuderci che non stia succedendo nulla, perché in classe si deve parlare di Gaza, di occupazione, di scolasticidio. In quelle aule ci insegnano ad avere a che fare con la complessità: sappiamo che essa non è mai una scusa per tirarsi indietro. Tra vent’anni ci chiederanno, ci chiederemo, cosa abbiamo fatto per non rimanere indifferenti, se abbiamo avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e di prendere posizione. Abbiamo fatto uso degli strumenti e dell’analisi critica che i nostri studi ci insegnano e per questo abbiamo deciso di parteggiare, insieme.
Come (non) tornare alla normalità
La mobilitazione del corpo studentesco ha sicuramente avuto dei risultati nel breve termine, come ci dimostra l’esito dell’ultimo Senato Accademico, in cui è stata approvata la mozione che chiede al MAECI e al MUR di «assicurare alla comunità scientifica che tutti i bandi e i progetti da essi promossi per favorire la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con altri stati rispettino rigorosamente i principi costituzionali, con particolare riferimento all’art. 11». In aggiunta, la Scuola Normale chiede anche al MAECI di «riconsiderare il “Bando Scientifico 2024” emesso il 21 novembre 2023 in attuazione dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica Italia-Israele».
La parziale approvazione di alcune delle rivendicazioni del comunicato studentesco costituisce indubbiamente un importante passo nel percorso di lotta per la Palestina, ma non è abbastanza: andremo avanti, fuori e dentro le università. Abbiamo visto cosa significa prendere posizione insieme: senza dircelo, ci siamo promessi che non lo avremmo dimenticato e che il giorno dopo non saremmo tornati alla solita normalità, come se niente fosse successo, come se niente stesse succedendo. Capire come costruire una nuova normalità e come inserire nella prassi quotidiana questi esperimenti di libertà nella lotta per la Palestina non è affatto semplice. Sicuramente, un buon punto di partenza è iniziare a riconoscere che la lotta non si anima solo di rabbia, ma ci restituisce anche la vita. Ed è proprio quest’ultima che, in mezzo alla devastazione della guerra, riemerge dalla poesia di Rafeef Ziadah, poeta performativa e attivista palestino-canadese.
“Today, my body was a TV’d massacre that had to fit into sound-bites and word limits filled enough with statistics to counter measured response.
And I perfected my English and I learned my UN resolutions. But still, he asked me, Ms. Ziadah, don’t you think that everything would be resolved if you would just stop teaching so much hatred to your children? Pause. I look inside of me for strength to be patient but patience is not at the tip of my tongue as the bombs drop over Gaza. Patience has just escaped me. Pause. Smile. We teach life, sir.” Rafeef Ziadah – We teach life, Sir. |
Oggi, il mio corpo era un massacro trasmesso in TV, che doveva rientrare in frasi incisive e un numero limitato di parole, abbastanza pieno di statistiche per una risposta controbilanciata.
E io ho perfezionato il mio inglese e ho imparato le mie risoluzioni ONU. Eppure, lui mi ha chiesto, Signorina Ziadah, non crede che tutto si risolverebbe se solo smetteste di insegnare tanto odio ai vostri bambini? Pausa. Cerco dentro di me la forza per essere paziente ma la pazienza non è esattamente quello che ho sulla punta della lingua mentre le bombe cadono su Gaza. La pazienza mi è appena sfuggita. Pausa. Sorriso. Noi insegniamo la vita, Signore. |
Schierarsi non implica soltanto la generazione di dinamiche oppositive, come è solito dire chi ci descrive con malizia. Schierarsi significa abbracciare l’umanità, stringersi in un solo grido, trovarsi l’uno nell’altro e vivere nell’intersezionalità di ogni lotta.
Le palestinesi e i palestinesi, e con loro, tutti i popoli oppressi che resistono, ci insegnano la vita, Sir. E noi siamo qui per continuare a impararla, insieme.
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