La battaglia perduta
da LIBERO PENSARE (Piero Cammerinesi)
di Andrea Zhok
A partire dalla crisi dei subprime abbiamo assistito ad una vera e propria débacle delle classi dirigenti europee di fronte all’egemone statunitense. L’Europa non è riuscita ad imporre nessuna politica che presentasse caratteri di rilevante autonomia e di sviluppo di un modello indipendente; si sono mantenuti per alcuni anni i canali di contatto internazionale sviluppati in precedenza con Cina, Russia e mondo islamico, salvo procedere ad una loro rapida dismissione a partire dalla svolta pandemica.
Durante la pandemia si è assistito ad un coordinamento delle strategie “sanitarie” guidato dalle autorità americane (NSA, FDA) che ha coinvolto in un modello comune i paesi Nato, il Commonwealth e Israele, cioè tutte le principali diramazioni della potenza americana.
Con la guerra russo-ucraina l’Europa ha accettato condizioni di ingaggio che significavano una subordinazione totale dell’apparato produttivo europeo alle esigenze americane. La distruzione del North Stream 2 ne è stata il sigillo simbolico. La deindustrializzazione, che finora era stata avviata solo nell’Europa meridionale a favore dell’Europa settentrionale – con la giustificazione delle “esigenze di austerità” – ora ha iniziato a coinvolgere anche l’ex locomotiva tedesca.
Che l’Europa non fosse da tempo capace di immaginarsi come un modello alternativo a quello americano era chiaro dagli anni ’90, ma per quasi due decenni la scommessa del neoliberalismo di matrice europea consisteva nel credere di potere essere un vero competitore per gli USA, di poter superare gli USA nel loro gioco preferito, il mercatismo capitalista.
Salvo scoprire ad un certo punto che le aborrite sovranità, abbattute nel nome della globalizzazione mercatista, erano l’unica fonte di autonomia e indirizzo anche in un contesto capitalista: gli USA, che mai hanno dato credito alla fiaba del superamento delle sovranità, hanno imposto la propria ad un’Europa trasformatasi in un agglomerato di lobby private innestate su istituzioni senza carattere né spina dorsale.
Si può avere la tentazione di leggere la debacle delle classi dirigenti europee in termini di corruzione o di ricatto. Uno guarda lo scempio di rappresentanti apicali delle nazioni europee che ne sacrificano gli interessi e svendono i propri popoli, e si immagina che il personaggio X abbia ricevuto un cospicuo bonifico o il personaggio Y sia sotto ricatto. Ma questi casi, che certo esistono, non spiegano affatto la radicalità della catastrofe.
Il cardine intorno a cui ruota l’attuale catastrofe europea è strettamente culturale.
È sul piano culturale che l’Europa, in blocco, è diventata una succursale sfigata dei college americani. A partire dagli anni ’90 ogni pretesa di autonomia culturale europea è sostanzialmente svanita.
Sul piano della teoria economica sono scomparse tutte le teorizzazioni autonome rispetto alla sintesi neoclassica, teorizzazioni che permangono come note a piede di pagina o desueti capitoli di storia.
Sul piano linguistico la cura della lingua madre e della ricchezza delle altre lingue europee è stata sostituita da un inglese da concierge, che rappresenta ormai l’ambita vetta della “internazionalizzazione” (questo lo si vede benissimo nell’offerta formativa liceale non meno che universitaria).
Sul piano cinematografico il modello dell’intrattenimento usa e getta di marca hollywoodiana è il solo gioco rimasto in campo e siamo tutti più consapevoli di quello che succede sulle strade di S. Francisco che di quello che succede sotto casa propria.
L’intero settore delle “Geisteswissenschaften”, delle scienze dello spirito o umanistiche, ha subito un’involuzione nel senso di uno specialismo museale che le trasforma da palestre di cittadinanza in parchi di divertimenti di nicchia, rigorosamente innocui per il potere.
Problemi di costume che avevano già avuto il tempo di imperversare e stufare in America quarant’anni fa (basta guardare un Clint Eastwood d’annata), dal razzismo al politicamente corretto, sono state importati di peso in Europa occupando il centro della scena.
L’immaginario “ribelle” delle nuove generazioni è colonizzato da un ribellismo individuale, il ribellismo degli schiavi che lamentano di non essere mercanti di schiavi (vedi rap e trap).
Ecc. Ecc.
Se il problema fossero solo la corruzione e il ricatto, basterebbe un indebolimento della voce del padrone (cosa che potrebbe essere dietro l’angolo) e l’Europa potrebbe iniziare un processo di emancipazione.
Purtroppo il vero problema è l’avvenuta totale introiezione dei paradigmi culturali del padrone, quei paradigmi che rendono impossibile ai più anche solo immaginare un’alternativa al mondo corrente.
Una volta perduta la battaglia dell’identità culturale, tutte le altre battaglie sono perdute prima di schierare le truppe.
Andrea Zhok, nato a Trieste nel 1967, ha studiato presso le Università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. È dottore di ricerca dell’Università di Milano e Master of Philosophy dell’Università di Essex. Oltre a saggi ed articoli apparsi in Italia e all’estero, ha curato scritti di Simmel (Il segreto e la società segreta, 1992) e Scheler (Amore ed odio, 1993). È autore di Intersoggettività e fondamento in Max Scheler (La Nuova Italia, Firenze 1997), Fenomenologia e genealogia della verità (Jaca Book, Milano 1998), Introduzione alla “Filosofia della psicologia di L. Wittgenstein (1946-1951) (Unicopli, Milano 2000) e L’etica del metodo. Saggio su Ludwig Wittgenstein. (Mimesis, Milano 2001). Attualmente collabora all’attività didattica e di ricerca presso le cattedre di Filosofia della Storia e Filosofia Teoretica II dell’Università degli Studi di Milano.
FONTE: https://www.liberopensare.com/la-battaglia-perduta/
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