Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Premessa
Le riflessioni che qui presento si pongono in ideale continuità con quanto scritto da Daniele Lo Vetere su questa stessa rubrica ai primi di dicembre sulla riforma dei professionali, alla luce di due eventi ulteriori intercorsi: l’approvazione al senato del Disegno di Legge 924 (gennaio 2024) e la pubblicazione del libro-manifesto di Giuseppe Valditara La scuola dei talenti (febbraio 2024). Senza voler aggiungere nulla all’impeccabile cornice interpretativa già offerta da Lo Vetere e dagli interventi successivi (soprattutto in merito alla collocazione della scuola in un’ottica neoliberale)[1], tenterò più semplicemente di riportare l’attenzione sul processo in corso, che procede a dispetto di tutto. Anche se, bisogna pur dirlo, in questi mesi il grado di consapevolezza in merito alla questione della riforma sta crescendo notevolmente, soprattutto tra docenti e studenti, e si stanno diffondendo multiformi iniziative di protesta, raccolte per lo meno da una certa parte del mondo sindacale.
L’annuncio della Grande Riforma
Il 31 gennaio 2024 una comunicazione ufficiale sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito dà notizia dell’approvazione da parte del Senato del «disegno di legge governativo che riforma l’istruzione tecnico-professionale con l’introduzione del nuovo modello 4+2» (voti favorevoli 101, contrari 41 e astenuti 5). Questo è il testo della comunicazione:
«Il via libera di oggi segna una tappa fondamentale di una riforma che serve ai nostri giovani e al Paese. Ringrazio il Presidente della Commissione Istruzione, Roberto Marti, la relatrice, Ella Bucalo, il Sottosegretario Paola Frassinetti e tutta la maggioranza parlamentare per aver sostenuto il disegno di legge, apportando integrazioni certamente migliorative. Ringrazio anche le Regioni per l’importante contributo dato», dichiara il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara.
«Si tratta di una riforma molto attesa dalle scuole e dal mondo produttivo e in cui questo governo crede fortemente», prosegue il Ministro. «Avremo una filiera della formazione tecnica e professionale di serie A, che potrà contare sul potenziamento delle discipline di base e sull’incremento di quelle laboratoriali e professionalizzanti; sul maggior raccordo fra scuola e impresa, ma anche sulla maggiore internazionalizzazione e ricerca. Non si tratta dunque di ridurre di un anno i programmi alle superiori ma di avere programmi rivisti e potenziati su 4 anni, mantenendo inalterato il numero dei docenti e dunque avendo più insegnanti per classe. Il nostro obiettivo è che i giovani abbiano la preparazione adeguata per trovare più rapidamente un impiego qualificato e che le imprese abbiano le professionalità necessarie per essere competitive».
Prima di entrare nel merito, vorrei partire da alcune considerazioni di metodo. Per quanto il comunicato alluda a una riforma tout court dell’istruzione tecnico-professionale (una riforma ‘fondamentale’ – si dichiara – molto attesa dalle scuole e dal mondo produttivo e fortemente voluta dal governo), in realtà il disegno di legge si riferisce esclusivamente ai percorsi sperimentali: la filiera formativa tecnologico-professionale istituita dal disegno di legge non riguarda tutte le scuole tecniche e professionali, ma – come recita il primo comma dell’articolo 1 – «è costituita dai percorsi sperimentali del secondo ciclo di istruzione». Solo in una nota all’interno della relazione tecnica si dice esplicitamente che «queste innovazioni si muoveranno di pari passo – ma su piani diversi – ai percorsi formativi che, invece continueranno ad essere quinquennali, senza che la contemporanea presenza degli stessi (che presuppongono, come detto, monte ore e attività differenti) possa comportare incompatibilità e inefficienze». Tali percorsi sperimentali, nonostante le pressioni esercitate spesso sui collegi docenti per promuovere l’adesione, per l’anno scolastico 2024-2025 riguardano 171 istituti tecnici professionali con 193 corsi, su un totale di 1448 istituti professionali, 2029 istituti tecnici del settore tecnologico e 1742 istituti tecnici del settore economico. Con un triplo salto carpiato che elude come nulla fosse l’evidenza empirica, Valditara l’ha definita una «risposta importante» che dimostra «la straordinaria capacità progettuale e voglia di innovazione della nostra scuola», palesemente ansiosa – numeri alla mano – di abbracciare la riforma proposta.
Analogamente fuorviante è la presentazione mediatica: tanto per fare un esempio, il «Sole24ore» parla di «via libera del senato alla filiera tecnica 4+2» (ulteriore mistificazione, perché la prosecuzione biennale è tutt’altro che scontata, come vedremo meglio a breve); «Qui Finanza» di «rivoluzione degli istituti tecnici professionali» che prevede «la riduzione del ciclo di studi da 5 a 4 anni». Sulla stessa linea anche le due testate di informazione più seguite nel mondo scolastico: «Orizzonte Scuola» parla genericamente di riforma, riprendendo di peso le parole di Valditara; «Tecnica della Scuola» dichiara che con l’anno scolastico 2024-2025 partirà la «riforma voluta dal Ministro Valditara», che «riduce da cinque a quattro anni il percorso di studi» negli Istituti Tecnici e Professionali.
Dal momento che il disegno di legge in realtà disciplina i percorsi sperimentali in procinto di essere attivati (che, come abbiamo già detto, rappresentano una esigua minoranza), senza alcuna ricaduta sull’organizzazione generale degli Istituti Tecnici e Professionali, che continueranno a seguire l’ordinamento vigente, diventa palese la non corrispondenza tra parole e cose. Dietro quella che potrebbe sembrare solo una superficialità mediatica un po’ cialtronesca (per quanto ci sia di mezzo anche un comunicato ministeriale ufficiale) si può leggere però qualcosa di più pericoloso. In primo luogo, il sottaciuto proposito far passare attraverso la sperimentazione le trasformazioni strutturali, tanto più che in ambito scolastico già in altri casi riforme anche significative sono state attuate stabilizzando e portando a sistema elementi introdotti in via sperimentale. Da questo punto di vista l’implicita sovrapposizione tra ‘sperimentazione’ e riforma sistemica anticipa scelte successive già messe in conto (si presuppone che la sperimentazione ovviamente diventerà norma) e contribuisce a creare un habitus di acquiescenza, come se ci si trovasse fin da ora di fronte a un dato di fatto irremovibile, o comunque già consolidato e ufficializzato – non una proposta cui si può o meno aderire, ma legge dello stato. Oppure, sul versante opposto, spinge a eludere o rimandare il problema, a non prenderne sufficientemente coscienza: se tanto è solo una sperimentazione, perché preoccuparsene? Un secondo aspetto, forse ancora più inquietante, riguarda una costante dell’attuale stile governativo, tanto autoritario nella sostanza, quanto elusivo nella forma, grazie al ricorso sistematico alla mistificazione comunicativa, che ignora o addirittura capovolge i dati di fatto, fino a proporre mediaticamente una realtà alternativa, in cui le responsabilità si invertono e le scelte si capovolgono (tanto che un corteo pacifico di studenti in gran parte minorenni diventa un covo di pericolosi elementi infiltrati in cerca di violenza, una sperimentazione diventa riforma e la palese refrattarietà del mondo scolastico reale si trasforma in entusiastica adesione). I conflitti sempre più dirompenti (sociali e politici) vengono così mascherati; le contraddizioni non esistono, sono solo punti di vista da presentare nella maniera giusta per eluderne la dirompenza.
Quello che il testo del disegno dice
Riepiloghiamo in breve cosa prevede il primo dei tre articoli di cui si compone il Disegno di Legge approvato al Senato, quello specificamente dedicato alla riforma:
- Istituisce, a decorrere dall’anno scolastico 2024-2025, la «filiera formativa tecnologico-professionale, costituita dai percorsi sperimentali del secondo ciclo di istruzione, […] dai percorsi formativi degli Istituti tecnologici superiori (ITS Academy), […] dai percorsi di istruzione e formazione professionale […] e dai percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS)». Queste istituzioni (con l’aggiunta eventuale di altri enti, quali le Regioni, le Università, le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica e «altri soggetti pubblici e privati») possono realizzare accordi di rete «denominate campus», per agevolare eventuali passaggi orizzontali tra i diversi percorsi e potenziare l’offerta formativa complessiva.
- Prevede l’attivazione di percorsi quadriennali, garantendo però agli studenti «il conseguimento delle competenze di cui al profilo educativo, culturale e professionale dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado, nonché delle conoscenze e delle abilità previste dall’indirizzo di studio di riferimento», grazie al ricorso alla «flessibilità didattica e organizzativa, alla didattica laboratoriale, all’adozione di metodologie innovative e al rafforzamento dell’utilizzo in rete di tutte le risorse professionali, logistiche e strumentali disponibili», anche con una rimodulazione dell’orario (in particolare, attraverso la possibilità di utilizzare il monte ore dell’ultimo anno – 1056 ore – nei quattro anni precedenti), per cui i nuovi percorsi «non incidono sulla dotazione organica dei docenti». Gli studenti dei percorsi quadriennali potranno direttamente accedere agli ITS Academy o essere ammessi a sostenere l’esame di maturità, previa valutazione e validazione da parte di INVALSI.
- Per rafforzare il legame con il tessuto produttivo territoriale il disegno di legge prevede «la stipula di contratti di prestazione d’opera con soggetti provenienti dal mondo del lavoro e delle professioni», la «promozione di accordi di partenariato» per gestire le ore di PCTO e eventuali contratti di apprendistato, la certificazione delle competenze trasversali e tecniche, «al fine di orientare gli studenti nei percorsi sperimentali e di favorire il loro inserimenti in contesti lavorativi».
- Infine, si sottolinea il proposito di potenziare «l’apprendimento integrato dei contenuti delle attività formative programmate in lingua straniera veicolare (CLIL)», purché «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», nonché «la valorizzazione delle opere dell’ingegno e dei prodotti oggetto di diritto d’autore e proprietà industriale».
… e quello che promette
Come enunciato all’inizio del primo comma del primo articolo, l’istituzione della nuova filiera ha il duplice scopo di rispondere «alle esigenze educative, culturali e professionali delle nuove generazioni e alle esigenze del settore produttivo nazionale». Insomma, da una parte la necessità di venire incontro alle nuove generazioni, che chiedono una scuola più adatta ai loro talenti e ai loro bisogni, dall’altra quella di rendere la formazione professionale più in linea con le richieste provenienti dal territorio, in maniera da facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, e di arricchire le imprese con l’innesto di nuove professionalità qualificati e qualificanti, riducendo il mismatch tra domanda e offerta di competenze professionali: «Il nostro obiettivo è che i giovani abbiano la preparazione adeguata per trovare più rapidamente un impiego qualificato e che le imprese abbiano le professionalità necessarie per essere competitive». La posizione ministeriale è subito ribadita mediaticamente. Il «Sole 24ore» già nel presentare l’apertura delle iscrizioni per l’anno scolastico 2024-2025 (articolo del 18 gennaio 2024) ricorda l’avvio della «nuova e innovativa» filiera, che permette di conseguire con un anno di anticipo il diploma (come già accade in altri paesi europei) senza che questo implichi alcun impoverimento del percorso, e cita a sostegno le parole di Valditara: «Ci saranno programmi nuovi, non una compressione di quelli pensati per il quinquennio. L’organico dei docenti dei 5 anni sarà impegnato sull’offerta formativa dei 4 anni senza nessuna riduzione, come abbiamo sempre assicurato, a garanzia della qualità della formazione. Ci sarà più spazio per l’alternanza scuola-lavoro, per essere rapidamente inseriti in settori altamente qualificati, e una forte internazionalizzazione. Si favorirà per la prima volta anche la ricerca. Il mondo cambia – ha chiosato il titolare del Mim – e le istituzioni hanno il dovere di offrire ai giovani gli strumenti per esserne i protagonisti». A ruota Gianni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria per il Capitale umano, conferma: «Grazie a scuole, imprese e territori finalmente si guarda alle esigenze dei ragazzi e del tessuto produttivo». Sulla stessa linea «Orizzonte Scuola», secondo la quale la riforma «punta a rafforzare le competenze di base di italiano, matematica e inglese, dando maggiore peso alle materie tecniche e laboratoriali», e «per colmare lacune di competenze tecniche» introduce la collaborazione con docenti esterni provenienti dal mondo delle imprese; e «Tecnica della Scuola», che sottolinea in aggiunta l’allineamento dei curricula degli istituti tecnici e professionali «verso l’innovazione del piano nazionale dell’Industria e della profonda innovazione digitale in atto in tutti i settori del mercato del lavoro» e ribadisce il valore innovativo della «possibilità di utilizzare dei docenti esterni al fine di dare una preparazione quanto più tecnica possibile e rispondente alle esigenze specifiche del mondo industriale». I giovani si sentono respinti da una scuola che continua a imporre una formazione astratta e uguale per tutti, per di più poco spendibile in campo professionale; frustati e demotivati, bollati come incapaci senza rimedio, rispondono con la violenza o semplicemente con l’abbandono, mentre avrebbero solo bisogno di una scuola rinnovata, che sappia rispondere ai loro interessi e sappia valorizzarne i talenti, in primo luogo assicurando loro un futuro professionale, garantendone un inserimento lavorativo rapido e qualificato.
Dietro la cortina, una duplice mistificazione
Eppure la presentazione trionfalistica del progetto di riforma, e dei meravigliosi effetti che ne conseguiranno, sfida ripetutamente il buon senso, prima ancora che la confutazione di principio: si contrabbanda come ‘internazionalizzazione’ il riferimento alla metodologia Clil (già presente – e spesso messa in discussione per l’inevitabile impoverimento disciplinare che comporta – oltretutto da potenziare senza oneri aggiuntivi); si parla di valorizzazione della ricerca e delle opere di ingegno in virtù di un accenno quanto mai fumoso e inconsistente. Ma, soprattutto, si afferma con assoluta convinzione che quattro anni sono meglio di cinque, che si possono fare le stesse cose (anzi, farle meglio, semplicemente adottando le corrette metodologie) in minor tempo, che si possono potenziare allo stesso tempo sia le materie di base sia quelle professionalizzanti. Se per queste ultime si lascia libero campo all’ingresso di figure ‘competenti’, estranee a qualsiasi formazione pedagogica – nessuno in questo caso si preoccupa di ‘insegnare a insegnare’ – e al di fuori di qualsiasi controllo istituzionale, per il resto basta intendersi su quali siano le materie di base: i ragazzi della nuova filiera non sono portati per le discipline astratte e si sentono inadeguati se costretti a confrontarsi con questo tipo di studi, quindi via storia, geografia, fisica, algebra, letteratura, filosofia, arte, chimica (delle quali rimane solo quel minimo necessario da infilare nelle UDA per realizzare altro – competenze di cittadinanza, di educazione civica e via dicendo), basta saper leggere, scrivere, far di conto e masticare un po’ di inglese, questo è quello che serve alla working class, da sempre.
Anzi no, peggio di sempre. Non si tratta di un’infarinatura di alfabetizzazione di base, bensì di un addestramento ai test, ai giochini logico-deduttivi che costituiscono l’impalcatura di INVALSI in tutte le discipline, e che hanno poco a che vedere, per esempio, con la capacità di leggere, scrivere, esporre oralmente. Perché l’ultimo capolavoro del disegno di legge è infatti la definitiva promozione e istituzionalizzazione di INVALSI, al quale viene demandato il compito di verificare e validare la possibilità di accedere alla specializzazione biennale o all’esame di stato. Alla valutazione da parte dei docenti (che presuppone sempre e comunque una relazione educativa tra individui) subentra d’ufficio una valutazione ‘cieca’, meccanizzata, eterodiretta, incontestabile, con l’effetto di esautorare ulteriormente la professionalità dei docenti, che non potranno far altro che diventare ‘addestratori ai test’, perché l’unica competenza necessaria, se mai ne rimarrà una, sarà quella di riuscire a superare un test INVALSI. Si procede così nella direzione di uno svuotamento di senso dell’esame di stato e del valore legale del titolo di studio[2], a tutto vantaggio della certificazione INVALSI, pronta a subentrare e soppiantare la desueta maturità, obbligando di fatto i docenti a una ben precisa curvatura della loro progettazione didattica, in barba alla libertà d’insegnamento che la Costituzione dovrebbe garantire.
Altrettanto dubbia è la reale consistenza del modello 4+2, dal momento che, date le precarie condizioni economiche e sociali in cui versa la maggior parte degli studenti interessati (ansiosi di chiudere quanto prima il percorso formativo), non solo il conseguimento del diploma, ma anche la prosecuzione biennale negli ITS Academy è mero battage pubblicitario, una possibilità aperta in teoria, ma di fatto pressoché impraticabile: a fronte di una esigua minoranza che realizzerà il percorso completo 4+2, per i più si tratterà solo di rimanere con un risicato 5-1 (venduto appunto come una straordinaria occasione di guadagnare un anno, non di barattarlo con due). Al netto delle millantate «magnifiche sorti e progressive», la riforma riduce (se non azzera) la possibilità di una reale formazione umana e culturale e reintroduce brutalmente una distinzione di classe tra istruzione liceale e avviamento professionale, condannando la maggioranza degli studenti a un impoverimento culturale crescente, che lungi dall’offrire loro concrete possibilità di riscatto, ne ribadisce e rafforza i limiti di partenza, obbligandoli a rimanere esattamente lì dove sono[3], violando nei fatti il dettato costituzionale.[4]
Ma una mistificazione analoga, se non peggiore, è proprio quella che riguarda la formazione professionale. La retorica dell’imprenditorialità (ciascuno come imprenditore di se stesso, non semplice forza lavoro salariata) non solo implica l’estensione onnicomprensiva della logica economica (per cui l’educazione deve essere spendibile, possibilmente in maniera quantificabile[5]), ma fa riferimento a un panorama fittizio, esistente solo nei comunicati trionfalistici del MIM: un tessuto produttivo ricco di aziende piccole e grandi ansiose di crescere, di arricchire il proprio capitale umano e di accogliere e promuovere nuove professionalità, quando la realtà è sempre più una giungla priva di regole, fatta di lavori subappaltati, sottopagati e precari, senza alcuna tutela sindacale (siano essi i magazzini di Amazon o di Mondo Convenienza, le cucine dei fast food, le grandi catene di distribuzione, le imprese di pulizie, le cooperative fittizie che gestiscono servizi d’ogni genere). Non esiste nessuna necessità di formazione per lavori per i quali basta una settimana di affiancamento: essere master di se stessi significa banalmente adattarsi a sopravvivere in questa giungla in cui qualsiasi rapporto di lavoro è precario e si sa che da un giorno all’altro si può essere costretti a riciclarsi, a ricominciare da capo. Come ricorda Baumann,[6] attualmente la maggioranza dei lavoratori è composta da «elementi facilmente smaltibili e sostituibili»: il loro lavoro non richiede alcuna specializzazione particolare né alcuna capacità di interazione sociale, sono lavoratori «usa e getta». La maggior parte dei giovani si aspetta di cambiare lavoro molte volte nella vita, ed è portata a credere che sia una cosa assolutamente positiva, non solo normale, perché adattabilità, resilienza, flessibilità, disponibilità al cambiamento sono le parole chiave introiettate da sempre.
Come una postilla. Il terzo articolo del disegno di legge, ovvero: la buona educazione
Senza soffermarci sul secondo articolo, il quale semplicemente regala l’istituzione di «una struttura di missione di livello dirigenziale per la promozione della filiera tecnologica-professionale», con un direttore generale per il quale è prevista una retribuzione lorda di 275.580 euro e rotti, passiamo al terzo articolo, che aggancia alla riforma alcuni interventi in ambito di valutazione della condotta, con l’obiettivo dichiarato di «ripristinare la cultura del rispetto nell’ambiente scolastico, riaffermando l’autorevolezza dei docenti, e riportando serenità nei rapporti tra docenti e studenti». Ai toni altisonanti della dichiarazione d’intenti corrisponde la vacuità irrisoria dei provvedimenti proposti: il voto di condotta espresso in decimi nella scuola primaria; la non ammissione alla classe successiva o all’esame finale in caso di voto di condotta inferiore a sei; l’obbligo di arrivare a un voto di condotta pari o superiore a nove decimi per ottenere il punteggio più alto nell’ambito della fascia di attribuzione del credito scolastico spettante nello scrutinio finale. Ma l’apice si raggiunge con l’obbligo, per chi arriva allo scrutinio finale con una votazione di condotta di sei decimi, di presentare «un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale» all’inizio dell’anno scolastico successivo o in sede di maturità (la cui valutazione è dirimente per l’esito dell’esame): un provvedimento in perfetto stile ottocentesco, che ricorda da vicino i ‘penso’ vecchia maniera (le tante pagine da riempire con la ripetizione ossessiva della stessa frase – «io sono stato cattivo»), e che sottintende tacitamente la stessa visione retorica e classista del bene e del male, del corretto/sbagliato comportamento civico. Non a caso il comma due del terzo articolo si premura di aggiungere nel precedente articolo di legge (20 agosto 2019, n.92) che disciplina l’introduzione dell’educazione civica l’aggettivo «solidale» alla precedente «cittadinanza attiva»: lo smantellamento dello stato sociale va di pari passo con l’enfatizzazione crescente dei doveri individuali di solidarietà e di cura, generici e soprattutto impolitici. Laddove non arriva lo stato, arrivano le dame di San Vincenzo.
Chi insegna sa bene che le situazioni più a rischio da gestire sono proprio quelle che travalicano completamente questi provvedimenti, quelle che sono ormai del tutto indifferenti a un voto in più o in meno, e persino alla bocciatura, in alcuni casi. Sa bene che l’esautoramento della classe docente, la mancanza di rispetto e di autorevolezza, il clima di vera e propria violenza che si respira in alcune scuole vanno ben al di là del voto di condotta (per non parlare del compitino in stile ottocentesco). Eppure, sarebbe troppo facile liquidare tutto solo all’insegna della vacuità retorica: nonostante tutto, la eco che rimane è quella di una ‘stretta autoritaria’, di un monito inespresso che travalica la lettera del testo, alludendo più a degli ipotetici scenari futuri che non a quelli delineati nel disegno di legge stesso. Da una parte la carota di una scuola accogliente e a misura di tutti, finalmente rispondente alle esigenze di una larga parte della popolazione studentesca; dall’altra il bastone per chi, nonostante tutto, si ostina a non rientrare nei ranghi assegnati.
Per concludere: la scuola dei talenti
La pubblicazione della Scuola dei talenti proprio a ridosso dell’approvazione in senato offre – se mai ce ne fosse ancora bisogno – la cornice teorica su cui si proietta, idealmente e concretamente, il progetto di riforma. Con una esemplare manipolazione retorica, Valditara, lungi dal riconoscere che la scuola da lui sognata è ben lontana da quella prevista dalla costituzione, sostiene al contrario che proprio la sua idea di scuola è quella che realizza al meglio il dettato costituzionale: mentre le ‘sinistre’ hanno sempre avuto paura delle differenze e hanno privilegiato la formazione astratta a scapito di quella professionalizzante, il nuovo progetto di scuola parte proprio dal doveroso riconoscimento della diversità dei singoli talenti e dalla centralità del lavoro:
La scuola costituzionale è dunque quella che mette al centro la persona dello studente, che è cioè al servizio di ogni giovane per realizzarne al meglio i talenti. […] la scuola costituzionale riconosce invece la pluralità delle diverse intelligenze, tutte di uguale valore sociale. Vi sono così intelligenze più orientate all’astrazione, più ‘teoriche’, e intelligenze maggiormente versate alla pratica, ovvero alla manualità, più ‘concrete’[7].
Alla diffidenza della sinistra bisogna rispondere riposizionando al centro il valore ‘spirituale’ del lavoro (iscritto nelle radici cristiane della civiltà europea), ribadendo che solo il lavoro rende liberi e permette di raggiungere una compiuta cittadinanza: «occorre riscoprire la bellezza e la nobiltà del lavoro, il suo significato profondo, morale e sociale contrastando la cultura dell’avere tutto e subito senza sacrificio e senza impegno»[8]. Ma per farlo bisogna dare a ciascuno studente ciò di cui ha veramente bisogno, cioè una scuola tagliata su misura sulle sue inclinazioni e sulle sue potenzialità, proprio come un abito sartoriale cucito ad hoc. Con altrettanta, impeccabile torsione retorica, il pensiero pedagogico da sempre considerato di marca progressista, Don Milani in testa, viene utilizzato per giustificare e sostenere la scuola dei talenti, cioè delle differenze: perché dare la stessa cosa a tutti è la peggiore delle ingiustizie. Peccato che l’adagio ormai proverbiale presupponga il contrario: dare a tutti in parti diverse per arrivare a essere tutti uguali, non per ribadire esattamente la differenza iniziale[9].
Ma se la diversità non è più disuguaglianza da colmare, bensì specificità individuale da valorizzare, talento appunto; se il lavoro diventa un concetto ipostatizzato e astratto (estrinsecazione delle somme virtù dell’uomo, svincolato da qualsiasi sospetto di marxistica alienazione), del tutto irrelato dalle condizioni reali, il gioco è fatto. La riproposizione di categorie vetero-ottocentesche adeguatamente modernizzate è perfettamente coerente con l’ottica neoliberale (si arriva persino alla prevedibile citazione dell’apologo di Menenio Agrippa): l’armonia sociale si costruisce sul riconoscimento e la valorizzazione delle differenze, in maniera che ognuno trovi quanto prima possibile la sua corretta collocazione nel mondo e possa accettarla e farla propria senza riserve, e soprattutto senza aspirare ad altro. Di contro al ‘pregiudizio’ della sinistra «che la scuola debba servire prevalentemente – se non quasi esclusivamente – alla formazione culturale dello studente, che l’educazione al lavoro sia degradante e funzionale agli interessi dell’impresa, che occorre dunque una formazione culturale tendenzialmente eguale per tutti fino ai più alti gradi del percorso scolastico» [10], secondo Valditara bisogna riaffermare con forza e senza timore il diritto alla differenza:
In una scuola democratica, fondata sulla intima eguaglianza di ogni essere umani, non bisogna avere timore della diversità, che vanno valorizzate nel rispetto di tutti. La scuola costituzionale non può essere dunque unitaria, tranne che nel suo percorso iniziale, fino alla media, proprio perché deve valorizzare le differenze e non comprimerle umiliando le diverse personalità[11].
Che piaccia o meno, con questa inequivocabile dichiarazione di principio, ma anche con questa retorica e con le sue possibilità di appeal bisognerà confrontarsi per dare consistenza a una battaglia che oggi è quanto mai una battaglia politica nel senso più largo e profondo del termine – e che passerà a breve anche dalla discussione alla Camera del Disegno di Legge: bisognerà scegliere sempre più chiaramente, e senza ambiguità, da che parte stare.
Note
[1] Daniele Lo Vetere, La riforma dei tecnici e dei professionali e la produzione del capitale umano nella scuola dell’età neoliberale, Le parole e le cose2; ma anche Marco Maurizi, Il laboratorio del capitale. Metafisica delle competenze e controriforma scolastica, e Emanuele Zinato, Contro la scuola e l’università neoliberali. Cinque punti per un dissenso leopardiano, sempre nella stessa rubrica.
[2] Cfr. Andrea Gavosto, Sì ai test Invalsi in pagella: che futuro per l’esame di maturità?, «Il riformista», 13 marzo 2024.
[3] «Valorizzare le doti di partenza di un alunno significa inchiodarlo a ciò che già è, magari non emancipandolo da abilità manuali che sembra privilegiare rispetto a quelle intellettuali, ed esaltare in lui solo ciò che è già presente e funzionale, senza preoccuparsi della possibilità di emanciparlo da quell’orizzonte di esistenza limitato rispetto al quale viene costretto a operare le proprie scelte» (Giovanni Carosotti).
[4] Cfr anche Emanuela Bandini, Chi vuole la scuola democratica alzi la mano, Le parole e le cose2.
[5] Sulla scuola come ‘fabbrica di capitale umano’ Massimo Baldacci, La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Franco Angeli, Milano 2019.
[6] Zygmunt Bauman, Lavoro, in Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma 2011, pp. 148-195.
[7] Giuseppe Valditara, La scuola dei talenti, Piemme, Milano 2024, pp. 22-23.
[8] Ivi, p. 31.
[9] «I neoliberali hanno soprattutto cercato di sfruttare tutto ciò che nelle “nuove pedagogie” andava in direzione dell’individualismo e dell’utilitarismo. Ad esempio, le categorie di “interesse”, “progetto” o “competenza” sono state integrate nella dottrina neoliberale di un’educazione incentrata sul “capitale umano” e sull’”occupabilità”» (Per un mutamento del paradigma educativo: dal neoliberalismo scolastico all’educazione democratica, Intervista a Christian Laval, «La letteratura e noi», 25 marzo 2024.
[10] Ivi, p. 25.
[11] Ivi, p. 40.
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