La moralità della Resistenza
di GLI ASINI (Mauro Boarelli, Claudio Pavone)
Nel 1991 l’editore Bollati Boringhieri diede alle stampe Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, un libro destinato a far discutere e a lasciare una traccia duratura nella storiografia e nel dibattito pubblico. E’ il frutto di una lunga ricerca di Claudio Pavone (Roma, 1920-2016). Pavone partecipò alla Resistenza e, dopo la guerra, è stato funzionario degli Archivi di Stato e poi docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa.
La scelta di mettere al centro dell’indagine storica la “moralità” ha permesso a Pavone di attraversare terreni poco esplorati, e in particolare di interrogarsi sui motivi che spinsero tanti italiani a partecipare – in forme diverse – alla Resistenza.
Per la prima volta veniva proposta una lettura analitica delle tre forme di guerra che – in parte sovrapponendosi – costituivano il riferimento culturale, etico, politico di coloro che avevano compiuto la scelta: la guerra patriottica, la guerra di classe, la guerra civile. Ed è proprio sulla chiave di lettura della guerra civile – sottratta all’uso strumentale dei reduci fascisti alla ricerca di legittimazione politica e restituita a una dimensione storiografica rigorosa – che si concentrarono le polemiche all’uscita del libro. A vent’anni dalla pubblicazione, abbiamo voluto trarre insieme all’autore un bilancio dell’influenza che il volume ha esercitato nel campo storiografico e in quello politico, un bilancio che lascia spazio anche a riflessioni sull’uso pubblico della storia, sull’abuso del concetto di buona fede, sul ruolo delle minoranze e del dissenso critico nelle società democratiche.
L’intervista è stata realizzata a Roma il 28 marzo 2011. La trascrizione è stata curata da Andrea Durante.
Sono trascorsi vent’anni dalla pubblicazione di “Una guerra civile”. Vorrei partire dalla genesi del libro, dalle sollecitazioni a cui rispondevi nel momento in cui hai iniziato a pensare di scriverlo.
Non posso dare una risposta puntuale perché il libro si è venuto trasformando man mano. Era uscito da poco in Francia il libro di Henri Michel, Les courants de pensée de la Résistance [Presses Universitaires de France, 1962], e Ferruccio Parri, presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, mi propose di fare qualcosa di simile per l’Italia, un lavoro che mettesse a confronto le idee dei partiti e dei movimenti che avevano partecipato alla Resistenza. Cominciai a raccogliere materiale, ma poco alla volta mi accorsi che era difficile dire delle cose nuove sui programmi politici dei partiti, sulle visioni che essi avevano della Resistenza, sui loro contrasti e sui loro compromessi, sui rapporti con il regno del Sud e con gli Alleati. Su questi temi essenziali erano state condotti studi importanti, ma io fui attratto da una ricerca, diversa da un discorso di vertice che non mi soddisfaceva, che si occupasse delle persone e mi facesse comprendere meglio le motivazioni che le avevano spinte a partecipare in vario modo alla Resistenza. Si intrecciavano le motivazioni immediatamente politiche con quelle etiche ed esistenziali, talvolta esprimibili solo in forma emotiva, che portavano il discorso su un piano più ampio. La parola “moralità” mi sembrò potesse esprimere la sostanza di questo livello di indagine in cui l’analisi di quelle motivazioni si univa all’esame delle riflessioni che quella situazione eccezionale sollecitava. Era un programma massimo che si è realizzato, come spesso accade, solo come programma minimo. Mi giovò anche il fatto che l’Istituto Nazionale e l’Istituto Gramsci avessero deciso di pubblicare un’ampia scelta dei documenti delle Brigate Garibaldi, affidandone la cura a Giampiero Carocci, Gaetano Grassi, Gabriella Nisticò e a me. Io curai il terzo volume insieme a Nisticò [Le brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, agosto 1943-maggio 1945, Feltrinelli, 1979]. Dall’esame di quei documenti nascevano riflessioni sulle molte sfaccettature della lotta partigiana e della Resistenza in generale: su questa strada incontrai anche le fonti memorialistiche e letterarie. Al cambiamento di impostazione della mia ricerca contribuì anche l’incoraggiamento che ricevetti da Norberto Bobbio quando, in un seminario da lui organizzato presso il Centro Gobetti, proposi il termine “moralità” anticipando alcune idee poi sviluppate nel libro.
Mi sembra interessante approfondire l’aspetto generazionale: in che modo si intreccia con il tuo libro e che influenza ha avuto la tua partecipazione alla Resistenza?
La mia partecipazione alla Resistenza fu abbastanza atipica. Io non ho fatto la guerra: quando scoppiò nel 1940 facevo il secondo anno di Giurisprudenza e con alcuni compagni cominciammo a porci il problema della guerra e questa fu una via per prendere completamente le distanze dal fascismo. In queste cose contavano molto anche i genitori. Mio padre era un liberale deluso che in casa ripeteva “Mussolini quel porco, quel delinquente ci porterà alla rovina”, “ci avviamo a una nuova barbarie, e perciò è logico che vinca il fascismo”, poi nella vita civile, come tanti italiani, si adeguava. Però l’idea che i liberali si erano fatti sconfiggere nel ’21-’22 e poi ora se la cavavano così cominciò a farmi pensare che forse bisognava fare qualcosa di più. Con gli amici pensavamo se andare in guerra fosse nostro dovere per partecipare in questa maniera alla tragedia generale, e alla fine decidemmo di no, perché andare a farsi ammazzare per qualcosa in cui non credi non ha senso, è un atto di masochismo e anche di una religiosità molto passiva, ed era meglio preservarsi per il dopo. Era una scelta anche comoda, ovviamente, in cui giocava probabilmente anche la paura. Potei metterla in pratica per il privilegio di avere degli appoggi familiari: avevo uno zio generale che, benché caduto in disgrazia con il fascismo, mi trovò una tranquilla sistemazione nella Guardia alla frontiera, un inutile corpo creato dal regime fascista di cui si è persa giustamente anche la memoria, che avrebbe dovuto essere la prima fila di resistenza in caso di invasione. L’8 settembre mi trovavo a Roma in licenza perché era morto mio padre. Con il mio caro amico Giuseppe Lopresti – che fu poi fucilato alle Fosse Ardeatine – decidemmo di fare qualcosa e prendemmo contatto con il partito socialista. A me dei comunisti non convinceva del tutto il modo massiccio di essere comunista, noi eravamo ancora dei giovani in cerca di qualcosa di più aperto, io poi ero allora un cattolico molto in crisi (abbandonerò il cattolicesimo durante la Resistenza), insomma ci sembrò che il partito socialista lasciasse più spazio. Abbiamo avuto la fortuna di essere assegnati come aiutanti di Eugenio Colorni, che poi sarà ammazzato alla vigilia della liberazione a Roma. Però per me durò poco questa esperienza. Lopresti fu arrestato dalle SS, io fui arrestato dalla polizia italiana e portato in Questura per una cosa molto stupida. Fatto sta che andai a Regina Coeli, dove rimasi un paio di mesi, poi alla fine del ’43 fui trasferito al carcere di Castelfranco Emilia, e lì sono stato tutto l’inverno fino alla fine di agosto del ’44, quindi la parte più lunga della Resistenza l’ho passata in galera. Dopo la liberazione di Roma, non sapevano nemmeno loro perché ci tenevano lì, e siccome ero di una classe richiamata alle armi dal governo repubblichino, decisero che dovevo andarmi ad arruolare nell’esercito di Graziani. Mi misero fuori, mi dettero un lasciapassare per Milano. Mi ci vollero ventiquattr’ore per arrivare da Modena a Milano, e qui – ovviamente – non mi presentai al distretto. Avevo uno zio, un piccolo imprenditore milanese, che aiutava gli antifascisti, faceva documenti falsi, aveva molti rapporti d’affari con la Svizzera e favoriva i passaggi clandestini verso quel paese. (Cito questo fatto anche come critica al semplicismo di coloro che, sulle tracce di Renzo De Felice, chiamano consenso o, nella migliore delle ipotesi, zona grigia, l’area di tutti quelli che non imbracciarono un fucile. Più tardi, il concetto di Resistenza civile mi ha aperto molto gli occhi. Quando scrissi il libro ancora non lo conoscevo bene e non l’ho utilizzato molto: i libri di Jacques Sémelin [Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza civile in Europa 1939-1943, Edizioni Sonda, 1993] e, sulla sua scia, di Anna Bravo [In guerra senza armi: storie di donne. 1940-1945, Laterza, 1995] mi avrebbero in seguito aiutato a svilupparlo meglio).
Mi procurai i documenti falsi, modificai la data di nascita per non essere nelle classi richiamate e cominciai a fare vita clandestina isolata a Milano, finché non trovai alcuni degli amici di Roma che si erano là trasferiti ed erano entrati a far parte di un gruppetto di estremisti, chiamiamoli così, organizzati nel Partito Italiano del Lavoro (PIL). Era un gruppo che aveva la sua base in Romagna e si era formato dalla fusione tra un gruppo dissidente dei repubblicani storici, l’Unione lavoratori italiani, e un gruppo di intellettuali e studenti che avevano fondato un gruppetto che si chiamava Popolo e libertà, formato in prevalenza da reduci dalla Russia, dove avevano potuto vedere di persona cosa significava la guerra. Questo gruppetto, radicale nella critica alla società borghese, aveva una posizione, su cui mi sono poi interrogato, di una sorta di estremismo non attivo. Il gruppo pensava che ormai la guerra la conducevano vittoriosamente gli Alleati, che i Comitati di liberazione erano votati al compromesso, non parliamo poi della svolta di Salerno. Bisognava quindi mantenersi in una situazione di riserva per poter poi denunciare il tradimento dello spirito genuino dell’antifascismo. Poi poco alla volta cominciai a capire che questa posizione estremista era sbagliata, ma indicava molti punti essenziali, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto libertario. Studiando e mescolando ricordi personali, compresi che le cose erano ben più complicate. Il mio libro è stato anche un modo di vedere le cose da un punto di vista più maturo, senza però perdere alcuni punti di riferimento di allora, in particolare la critica allo stalinismo in nome delle libertà opposte a quelle false della borghesia. Io non mi iscrissi mai al Partito comunista, rimasi un compagno di strada o un utile idiota, a seconda dei punti di vista e delle terminologie dell’epoca, e rimasi così fino al ’68. Nel ’68 mi sembrò che si riaprisse il campo del possibile, e più tardi trovai nel gruppo di Democrazia proletaria quelli che mi sembravano i meno avventuristi tra i gruppi sessantotteschi, anche perché si era avvicinato a DP quello che per me era diventato un padre spirituale, Vittorio Foa. Mi legai in particolare a Ester Fano, Luigi Ferrajoli, Pino Ferraris, Marina Graziosi, Raffaele Sbardella: tutte persone lontane dalla ortodossia marxista. Ma quando DP alla fine, per sfuggire alla crisi dei movimenti, volle trovare un capo carismatico e scelse Mario Capanna, noi ci allontanammo. Da queste esperienze ho maturato l’idea che in fondo in Italia i veri liberali, quelli che credono veramente nella libertà – che può sopravvivere solo se unita alla giustizia – come forma politica essenziale, sono gli eretici della sinistra, perché quelli appartenenti alle eresie tradizionali del marxismo, ad esempio i trotzkisti, recano in sé l’impronta della ortodossia cui si oppongono. Certo, non andava dimenticata l’importanza del Partito comunista, il suo radicamento sociale, però questi scrupoli di carattere liberale o libertario (parola questa malamente compromessa da Pannella) ci sembravano essenziali, e bisognava mantenere viva nella sinistra una fiammella di questo spirito (per questo nell’immediato dopoguerra il PIL aveva preso contatto con Danilo Dolci e con Aldo Capitini). Alla fine in DP rimanemmo degli isolati e io, dopo esserne uscito, tornai ad essere un indipendente di sinistra.
Prima della pubblicazione di “Una guerra civile”, ne avevi anticipato alcune linee interpretative in occasione di un paio di convegni, tra cui quello promosso dalla Fondazione Micheletti a Brescia del 1985, dove Giancarlo Pajetta, prestigioso dirigente del Pci, attaccò duramente la tua lettura e il concetto di guerra civile. Quando il libro verrà pubblicato nel 1991 si erano già consumate la dissoluzione del sistema comunista internazionale e del Partito comunista italiano. Come fu accolto negli ambienti politici di derivazione comunista?
Negli ambienti antifascisti più ortodossi e non solo comunisti fu accolto male, e credo che spesso avessero letto solo il titolo. Mi ricordo che una volta a Cuneo, in occasione di una commemorazione di Nuto Revelli, Giorgio Bocca si rivolse a me dicendo “non stringo la mano a un revisionista”. Questo perché il termine “guerra civile” era stato usato soprattutto dai fascisti, e perché c’era il timore che esso significasse l’equiparazione delle due parti. Il che storicamente non è affatto vero, perché mai come nelle guerre civili le parti sono diverse. Un soldato italiano e uno austriaco del ’15-’18 si assomigliavano di più – per quanto riguarda le motivazioni a combattere – di quanto si assomigliassero un brigatista nero e un partigiano. Io avevo visto, studiando i documenti delle Brigate Garibaldi e di Giustizia e Libertà, che i temi riconducibili alla guerra civile erano già presenti nella Resistenza, e poi nella letteratura resistenziale. E’ nota la frase di Italo Calvino: “bastava un nulla per ritrovarsi dall’altra parte”. E Franco Venturi aveva detto che le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute.
Da parte comunista il rifiuto di questo concetto è derivato per lungo tempo dall’ansia di legittimarsi come partito nazionale. Però mi viene in mente un’altra motivazione possibile, partendo da una chiave di lettura su cui insisti molto nel tuo libro, ovvero la guerra civile come momento in cui vengono esaltate al massimo la scelta e la responsabilità individuale. Questa scelta stabilisce con la politica dei rapporti di carattere multiforme, non riconducibili ad aspetti esclusivamente ideologici. Riconoscere queste molteplici strade della politicizzazione avrebbe significato, da parte della cultura comunista, ridimensionare il ruolo del partito come soggetto formatore di coscienze.
Questa è una delle contraddizioni del PCI, i cui eredi non hanno mai fatto una vera autocritica. I comunisti portavano in sé la convinzione che tutti gli altri fossero possibili traditori e che quindi bisognasse assorbirli o combatterli.
Nel libro tu accenni a modalità diverse della politicizzazione tra le varie formazioni partigiane. C’è il modello pedagogico del Pci – quello che conosciamo meglio e che è stato più studiato – e un metodo maieutico praticato nelle formazioni di Giustizia e libertà, che cercava di partire dalle motivazioni individuali. Secondo te come hanno agito queste diverse modalità di politicizzazione nella formazione della cultura politica dei partiti della sinistra dopo la guerra?
Nelle formazioni partigiane era sicuramente necessaria una guida politica, ma questa aveva una doppia faccia. Era indispensabile, anche per organizzare le bande, però poteva anche soffocare alcune delle spinte più innovatrici che c’erano state. Ricordo che in un convegno Giancarlo Pajetta raccontò che era andato a fare un’ispezione fra le brigate di Giustizia e Libertà delle Alpi piemontesi, e lo avevano accolto con il canto della Badoglieide. Lui aveva fatto una scenata, dicendo che in questo modo andavano contro la linea politica del governo di unità nazionale che aveva per capo Badoglio, che in quella maniera si sarebbe fatto del disfattismo. Non teneva conto del fatto – fu questo, ricordo, il commento di Foa – che se quelli non cantavano la Badoglieide forse sarebbero tornati a casa. L’idea di Pajetta era che la linea del partito fosse l’unica e che potesse costituire all’interno delle singole individualità una motivazione sufficiente per correre quei rischi.
Il Pci si oppose al concetto di guerra civile, ma – in modo apparentemente paradossale – fu proprio Luciano Violante nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera nel 1996 ad equiparare le due parti in lotta.
Io non fui d’accordo con Luciano Violante, anzi scrissi un articolo di critica, non ricordo se su “il manifesto” o su “la Repubblica”, e lui mi mandò una lunga lettera di spiegazioni. Nel mio libro avevo analizzato il clima storico da cui – all’epoca – potevano scaturire sia un scelta che l’altra, ma questo è ben diverso dall’affermare che le due posizioni fossero uguali, che le ragioni degli uni fossero giuste come quelle degli altri. Questo ragionamento ancora oggi lo considero una bestemmia storiografica. Gli uomini non si ammazzano per scherzo. Sia Violante che Fini, che fu il suo interlocutore [nell’incontro a Trieste sulle foibe del marzo 1998, ndr], erano uomini politici, e in quel momento le loro intenzioni politiche erano preminenti rispetto alle interpretazioni storiografiche.
Queste considerazioni ci portano al discorso sulla “memoria condivisa”, una definizione che è entrata nel linguaggio comune e che viene spesso utilizzata in modo indifferenziato sia a destra che a sinistra.
A questo sono assolutamente contrario. Ognuno ha la sua memoria, che senso ha dire che la condividiamo? Se si dice che la guerra ha coinvolto persone appartenenti alla stessa nazione e quindi è diversa rispetto a una guerra – ad esempio – tra italiani e francesi, questo vuol dire solamente che si ribadisce l’idea della guerra civile. In Spagna i franchisti e i repubblicani volevano due Spagne diverse, erano spagnoli tutti e due e perciò si odiavano tanto, perché sapevano che chi avesse vinto avrebbe imposto la sua visione a tutta la Spagna. La storia deve far vedere che il fascismo era una cosa molto seria e non una buffonata (come oggi è una cosa seria è il berlusconismo), e che ci sono state due parti in lotta che hanno inteso in maniera diversa il tipo di governo che doveva avere l’Italia. Una volta sono stato invitato a Latina: il sindaco, esponente del Movimento sociale, disse che lui poteva condividere molte parti del mio discorso e si chiedeva quali fossero le differenze tra di noi. La differenza – risposi – stava nel fatto che siccome avevamo vinto noi, lui era sindaco e stava sul palco del teatro a parlare, se avessero vinto loro io sarei stato in galera (avevo rubato la battuta a Foa, in un suo colloquio televisivo con Giorgio Pisanò).
Secondo te l’apparato retorico costruito intorno alla Resistenza può avere contribuito a preparare il terreno alla memoria condivisa? La sinistra non ha forse contribuito a “monumentalizzare” la Resistenza, sminuendo in tal modo le sue potenzialità di diventare un elemento di riconoscimento di tutta la nazione, un momento davvero fondativo della Repubblica?
Non credo, perché i monumenti e la retorica esaltano l’aspetto dell’opposizione netta: da un parte gli eroi e dall’altra parte i delinquenti. La esaltano in una maniera in cui l’elemento patriottico prevale su quello sociale e politico, però da questo non deriva l’idea del vogliamoci tutti bene. I monumenti ai caduti possono essere criticati per la loro retorica, ma non conducono a dire che i caduti e chi li ha ammazzati sono la stessa cosa.
Tra le recensioni al tuo libro ce ne fu una di Roberto Vivarelli, che estremizzava il tuo approccio alla scelta individuale per avvalorare la propria tesi. Vivarelli sosteneva infatti che, se il giudizio storico si misura con la scelta individuale, l’unico metro per misurare la qualità di questa scelta è la coscienza dei singoli. Di conseguenza, anche quelli che combattevano tra le file dei fascisti erano moralmente equiparabili ai partigiani.
Hai toccato un altro punto essenziale, che però non è solo un problema storico, ma rinvia ad un problema morale: può la buona fede giustificare la natura della scelta? Qui c’è un problema morale molto difficile. Lo scegliere e il non lasciarsi scegliere rappresentano un valore. La zona grigia merita questo nome – per quanto alterato dal senso in cui lo usò per primo Primo Levi e comunque da circoscrivere in confini più ristretti di quelli in cui molto spesso viene usato – proprio perché non sceglie ma si fa scegliere dalla storia, dai vincitori e dai potenti. Ma c’è una contraddizione forte: se la scelta è un valore, è perché le due cose tra cui si deve scegliere sono diverse. Allora il giudizio si deve trasferire anche sugli obiettivi della scelta. Io credo che per valutare il comportamento di una persona non possiamo limitarci a dire che ha scelto in buona fede, perché tanti, in tutti i campi, sono in buona fede. La natura di ciò per cui si sceglie deve rientrare sia nel giudizio morale che in quello storico. Tu puoi aver scelto benissimo in buona fede le brigate nere, però se il tuo obiettivo era rendere servi del fascismo tutti gli italiani, la buona fede non basta a salvare la bontà di questa scelta. Altrimenti non si potrebbe più decidere nulla moralmente né giudicare nulla storicamente. In questo senso viene fatto un uso dilatato e sbagliato della buona fede. Su un piano storiografico bisogna studiare le motivazioni di coloro che hanno scelto il fascismo. Ma c’è un problema morale troppo grande per cavarsela pensando che si possa dare un giudizio storico facendo appello alla buona fede. Hitler quando voleva sterminare gli ebrei era forse in mala fede?
In Italia, la ricerca storica sull’età contemporanea è stata dominata dalla centralità dell’organizzazione politico-sindacale. Secondo te, cosa rimane oggi di quella tradizione storiografica?
La storiografia italiana è rimasta arretrata sul piano internazionale perché l’organizzazione, lo Stato e la politica erano quasi l’unico obiettivo delle sue ricerche. Contava di più analizzarecosa c’eranella testa di Togliatti quando ha deciso di fare la “svolta di Salerno” che capire quelli che cantavano la Badoglieide anche dopo che Togliatti aveva fatto la svolta. Questa tradizione ormai stanca che nasceva sia dall’idealismo crociano, sia da un marxismo diventato di maniera, è stata rotta negli anni ottanta dall’introduzione della storia sociale, soprattutto su spinte inglesi, americane e francesi. Poi dalla storia culturale è venuta un’altra spinta: si è cercato di comprendere quale sia la cultura profonda che spinge gli uomini a fare certe cose: la formazione familiare e scolastica, la religione, gli antenati, le tradizioni locali. Anche la microstoria ha dato il suo contributo. A mio avviso però – non per fare il centrista moderato – queste tendenze poi hanno peccato un po’ di presunzione, volendo occupare tutto lo spazio storicamente conoscibile: non è che la politica, lo Stato, l’economia non esistono nella storia. E’ acquisita comunque la necessità che la storiografia debba fare i conti con l’arte, la letteratura, la poesia. Quando insegnavo a Pisa dicevo sempre agli studenti di leggere Guerra e pace prima di studiare la campagna di Russia di Napoleone. Lo stesso ragionamento si può fare per un romanzo meraviglioso come Vita e destino di Vasilij Grossman, che ricostruisce un quadro ampio e sfaccettato, fondendo la grande storia collettiva e quella degli uomini che la creano, che ha anche, come accade ai grandi scrittori, una specie di lampi di definizione, che forse gli storici, attenti a mettere in lucetutti i pro e i contro, non riescono ad avere. Quando i russi vincono la battaglia di Stalingrado, sulla quale il libro è imperniato, Grossman scrive: “avevano vinto il popolo russo e il regime sovietico, ma questo non migliorava i rapporti tra di loro”. Io la trovo una definizione storica meravigliosa.
Dopo il tuo libro, come si è evoluto il lavoro storiografico sulla Resistenza?
Un certo effetto di svecchiamento storiografico lo ha avuto, specie tra storici più giovani, nonostante le resistenze che ha incontrato in tutto l’arco della sinistra. Ma il fatto è che oggi la Resistenza, dopo il bel libro di Santo Peli, interessa meno. Quando insegnavo all’Università, fino agli inizi degli anni novanta, di tesi sulla Resistenza ce n’erano ancora parecchie, adesso invece c’è un interesse minore. La sensazione è che si cerchi la soluzione guardando più all’altissimo livello che ai piccoli fatti, ma la vita è fatta di grandissime cose e di piccoli fatti, e questi ultimi sono spesso rivelatori. Indirettamente la psicoanalisi ha influito sulla storia. Per la psicoanalisi tutto ha un senso, e questo corrisponde in parte alla prospettiva della scuola delle “Annales”, secondo cui qualsiasi cosa può rappresentare una fonte. Allora se tutto è fonte e tutto ha un senso, la storia avrebbe enormi campi davanti. E invece la storiografia italiana come tale è un po’ in decadenza. E’ una mia impressione, ma non sono più in contatto con la ricerca che si svolge nelle Università, e poi non vorrei sostenere che i tempi passati erano migliori, sarebbe un’idea del tutto sbagliata e stereotipata.
Il libro uscì quando erano ancora vive le polemiche sul “triangolo della morte”, gli eccidi perpetrati nel dopoguerra in alcune zone dell’Emilia. In quel periodo era stato Norberto Bobbio in un articolo sulla “Stampa” ad usare la distinzione fra le tre guerre per spiegare quegli avvenimenti uscendo dalla polemica politica contingente. Bobbio sosteneva che si era trattato anche di guerra civile, e la guerra civile non finisce con i trattati di pace.
La polemica suscitata dai libri di Giampaolo Pansa è venuta dopo, però serpeggiava qualcosa del genere. Il carattere della guerra civile è che non finisce con un un armistizio, come quello tra Austria-Ungheria e Italia alla fine della prima guerra mondiale quando oramai tutti erano sfiniti ed erano ben contenti di non sparare più un colpo di fucile. Questa mescolanza di guerra sociale, di odii inveterati, il vicino di casa che magari ti aveva denunciato al fascio, tutto questo esplode. Va riconosciuto, non va mascherato, ma non va nemmeno assunto a criterio di giudizio di tutta la Resistenza. Guido Crainz ha mostrato come si possa benissimo imboccare questa strada.
A proposito di Pansa e del suo successo mediatico: si tratta solo della ricostruzione rancorosa di uno dei tanti intellettuali passato sull’altra sponda, oppure coglie una domanda presente nella società?
La domanda c’era, ma la risposta non è corretta. Prendiamo per esempio la descrizione che Pansa fa di Milano nei primi giorni dopo la liberazione. Io c’ero, quindi posso dare una testimonianza diretta. Lui descrive cittadini terrorizzati che vivevano tutti nella paura di essere fucilati, fa una descrizione incredibile di un clima di terrore. Ma non è vero. La gente era contentissima, ballava per le strade, si organizzavano feste sulle piazze, era davvero un momento di tripudio popolare, uno dei pochi che mi è capitato di cogliere nella mia vita. Allora spostarsi in bici era fondamentale, e accadeva che uno prendeva la prima bicicletta che trovava, la usava, la lasciava sul marciapiede e se ne andava, una forma di comunismo elementare, spicciolo. Questa idea è durata poco, certamente. E indubbiamente lo spettacolo di Piazzale Loreto non era bello, io l’ho visto. Ma quanti sanno che il 10 agosto 1944 in quella stessa piazza erano stati fucilati per rappresaglia molti partigiani e lasciati lì esposti, impedendo anche ai parenti di avvicinarli? Di questo non si parla più. Bisogna ricordarlo, non per rivendicare, ma per far comprendere che la guerra civile consiste anche in questo. E’ deprecabile ovviamente, perché è meglio che non ci si uccida, e quindi ben venga il compromesso istituzionale. Togliatti non aveva torto quando ammoniva a non fare la fine della Grecia.
Quando il tuo libro uscì, era in atto ormai da una decina d’anni un intenso lavoro di ridefinizione dell’identità storica nazionale portata avanti attraverso i media. Nel corso degli anni ottanta l’uso pubblico della storia – come ha mostrato Nicola Gallerano – si è fatto molto aggressivo, e sicuramente ha provocato una degenerazione del “senso comune storiografico”. Qual è stato il ruolo degli storici all’interno di questo discorso pubblico? È stato un ruolo subalterno, oppure la loro risposta è stata adeguata?
La storiografia di sinistra, che ormai era in gran parte fatta da eredi del ’68, comincia proprio in quel periodo a perdere colpi per quanto riguarda la ripercussione mediatica. Nicola Gallerano è stato molto bravo, perché ha intuito che per contrastare la nuova corrente bisognava abbandonare alcune cose insostenibili e rinnovarsi. Nicola conosceva bene la storiografia straniera, il concetto di uso pubblico della storia l’ha introdotto lui in Italia, sulle tracce di Habermas. Ma è un discorso che non ha retto alla grande offensiva. Berlusconi si è impadronito dell’Italia, altro che della storiografia. Anche questa incapacità degli storici non è tutta colpa loro. Io credo senz’altro che si debba reagire meglio e di più. C’è tutta una generazione di storici che si è impegnata in questa direzione, però non ce la fa di fronte alla violenza e alla capillarità di un’offensiva mediatica rispetto alla qualeè difficilissimo fare un discorso che cerchi di far ragionare. E poi man mano che anche a sinistra si sono venute spegnendo le passioni, finisce che si lascia dire, si annaspa. Prendiamo gli attacchi alla Costituzione. Il punto è far capire che la Resistenza ha il suo sbocco nella Costituzione, e se oggi viene manomessa la Costituzione si perde quello che si era guadagnato allora, come frutto di un compromesso nel senso alto della parola. Nella Costituente i soggetti erano troppo diversi, un compromesso era necessario. Se si vanno a leggere alcune affermazioni di La Pira o Dossetti, si scopre che volevano uno Stato cattolico, uno Stato in cui la religione cattolica fosse riconosciuta come la base fondamentale della società. Poi Togliatti fece quello che io considero tuttora un errore, votare l’articolo 7, però poteva andare anche peggio. La Pira, Dossetti e Fanfani, ad esempio, volevano introdurre nella Costituzione l’indissolubilità del matrimonio, e furono bocciati per 3 o 4 voti perché alcuni democristiani non erano presenti.
Non pensi che la debolezza attuale della cultura di sinistra derivi anche dal fatto che non riesce più a veicolare un’idea di futuro?
Certamente. Tutti i movimenti innovatori hanno un’idea di futuro, ed effettivamente per reagire alla piattezza e alla sciatteria trasandata che prevalgono oggi in Italia – è questo forse l’aspetto più grave della crisi che attraversiamo – occorrerebbe una maggiore fiducia nel futuro. Un aspetto della ripresa della Chiesa è anche questo, bisogna riconoscerlo: per quanto riguarda le opere sociali, i preti riescono a fare di più. Sugli immigrati, ad esempio: al vertice il Papa e la Cei non vogliono inimicarsi il governo da cui ricevono tanti favori, però nell’attività quotidiana la Caritas e molti singoli sacerdoti, oltre ad alcuni cardinali e spesso lo stesso Papa, danno agli immigrati la solidarietà loro negata dal ministro Maroni. Il volontariato cattolico è una cosa seria, è un modo di ridare fiducia nel futuro. In questo vuoto anche la religione acquista un valore positivo, sebbene non vadano dimenticate le sue contraddizioni, a partire dal fatto chel’influenza della Chiesa cattolica ha infiacchito la coscienza degli italiani.
Secondo te, come si è sedimentata nella nascita dello stato repubblicano la cultura minoritaria che si è formata anche durante la Resistenza?
Ci sono state minoranze che hanno continuato a costituire un po’ il sale della democrazia, basta pensare all’eredità del Partito d’azione o dei gruppi dissidenti. Anche il ’68, sconfitto politicamente, ha lasciato delle tracce essenziali nella cultura e nel costume. Per questo prima ho detto che in Italia i veri liberali sono i dissidenti di sinistra. Naturalmente hanno vinto le maggioranze, però tutto il problema della democrazia moderna è proprio quello di costruire un sistema politico in cui, senza rinnegare il principio della volontà popolare, la volontà maggioritaria non sia padrona di fare tutto ciò che vuole. Il ruolo delle minoranze è sempre stato difficile, ma esse a volte gettano dei fermenti ideali e culturali che fruttificano nel futuro. Certo, a volte non fruttificano affatto, o degenerano prima di fruttificare. Però le minoranze devono essere protette dal sistema costituzionale, perché un popolo omogeneo è un popolo schiavo.
FONTE:https://gliasinirivista.org/la-moralita-della-resistenza/
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