Favole e fake news
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Claudio Zarcone)
Il giornalismo, la pubblicità, i social media, i segni di un orientamento sociale espressi in messaggi: tutti strumenti usati per piegare la realtà al volere dei grandi comunicatori. Ecco come il mondo reale diviene favola e la favola diviene fake news.
In un aforisma del “Crepuscolo degli idoli” il mai troppo compianto Friedrich Nietzsche ci raccontava come il mondo vero fosse diventato favola. Il tempo ci avrebbe in seguito dimostrato come la stessa favola sarebbe diventata paradosso, aberrazione, fino a esprimersi patologicamente come fake news. La colpa? Oserei azzardare che la radice di tale colpa risieda in una deflorazione. Nello stupro della comunicazione, che ha perduto l’innocenza delle origini, sverginata dai social, dal crollo dei valori, dalla barbarie del pensiero unico e del politicamente corretto, dal messianismo anglofono del quale si nutrono linguaggi e messaggi, dalla perdita delle nostre tracce identitarie, dal globalismo mercantile, da troppi elementi dissipativi dell’antico sapere condiviso (communico, metto in comune, con-divido). Il giornalismo, la pubblicità, i social media, i segni di un orientamento sociale espressi in messaggi, attraverso gli strumenti della comunicazione di massa (Jean Baudrillard parla si semiotizzazione della società), la propaganda, l’industria culturale, sono elementi di un sistema organizzato che esula dal “comunicare in comunità” per entrare, diversamente, nel territorio di un dominio esercitato attraverso messaggi latenti.
Già, comunicazione. Concetto magico che oggi parrebbe quasi sostituire “Dio, la storia, le antiche teologie” grazie ai suoi sacerdoti, portatori di una “nuova teologia”:
La comunicazione è un dogma, una rete di proposizioni che ci rimandano al principio d’autorità.
Così scrive Lucien Sfez, dell’Università di Parigi. Attraverso la comunicazione si condivide tutto, inconsapevoli o pallidamente consapevoli, che comunicando tutto si finisce col non comunicare alcunché, immersi nel fluire perenne di dati, notizie, immagini che vorrebbero raccontarci il mondo, purtroppo privato della sua fabulazione, della sua tradizione ad essere interrogato (perché interrogare il mondo se guru della comunicazione e sacerdoti dell’etere ce lo raccontano, lo interrogano per noi?). Così, mentre ci “mostrano” il mondo, ce lo nascondono.
L’odierna sociologia utilizza il termine “comunicazione” per designare la trasmissione di informazioni, segnali e messaggi da un emittente a un ricevente. Ma la stessa definizione ci conduce in ambiti semantici che crea non pochi equivoci, tant’è che lo psicoterapeuta Paul Watzlawick arriva a sostenere che è la comunicazione che crea quella che noi chiamiamo realtà. Il big-bang telematico e massmediatico e l’organizzazione sempre crescente degli strumenti che creano la struttura della comunicazione stessa, hanno fatto ritenere ad alcune branche della sociologia e della filosofia, che la manipolazione sia il sottofondo criptato della comunicazione. Oggi più di un dubbio anima le riflessioni di molti pensatori contemporanei nel settore della comunicazione di massa, i quali, condensando in un unico concetto le varie esperienze del comunicare, sostengono che i media attentino alla naturale razionalità comunicativadell’uomo, facendo venir meno la realtà a favore di un’immagine artificiale e costruita della stessa. Ripeto: comunicare tutto equivale a non comunicare niente; allo stesso modo, normare tutto equivale a non normare niente.
Infatti i media e la tecnica “ci chiudono nel loro recinto” per “governare i significati”. Per indirizzare i significati medesimi, le regole sociali sulle quali fondare ogni significato, ogni senso. Lo stesso dicasi per le norme (giuridiche, etiche, di comportamento ecc.): ogni cosa è regolata da normative, le stesse parole – in origine libere, interrogabili, capaci di rendere liberi o schiavi secondo Gorgia – sono state relegate ad un campionario di legittimità o viceversa. La ‘potenza’ della parola sulla quale è stato costituito il mondo che noi viviamo, conosciamo, è decaduta a misero segno comunicativo orbato della sua forza espressiva. Manlio Sgalambro, amico e mentore di Franco Battiato, in un docu-film dedicato a Gesualdo Bufalino per la regia dello stesso Battiato, diceva: gli insetti comunicano, esprimerci ci appartiene. E noi siamo diventati degli insetti (in qualche modo inetti: gioco di parole per avvalorare la tesi sul potere delle parole) che comunicano senza esprimere, raccontare, affabulare. Essi, gli insetti, seguono l’olfatto, le tracce chimiche, l’emissione di suoni e lamenti per comunicare, noi – insetti più evoluti – abbiamo scelto il dogma della comunicazione.
Un paradosso, quest’ultimo, affrontato anche dal regista David Cronenberg nel film “Videodrome”, laddove fa dire ad uno degli interpreti:
Che cos’è la realtà, se non la percezione che abbiamo della realtà?.
Paul Virilio aggiunge:
I media esprimono una tecnologia dell’illusione che induce il singolo a instaurare un rapporto deforme col mondo e con se stesso […] ad un dissolversi dell’esperienza del tempo e ad un annullamento del reale.
Ed ecco che la realtà diviene favola di favola, simulacro dell’illusione dei media, della comunicazione e noi ci trasformiamo in insetti intrappolati nella ragnatela di una comunicazione che impoverisce il linguaggio, dimentica stupore, meraviglia, investigazione di sensi e concetti del mondo.
Una scena tratta da Videodrome, capolavoro di David Cronenberg
Il mondo viene costruito artificialmente, etica, morale, politica e la stessa scienza vengono costruite sullo schema (manipolato alla base) messo in circolo per l’Homo communicans: questo è il migliore dei mondi possibili, il più giusto, il più equo, il più umano ci dicono i grandi comunicatori, gli alchimisti della trasparenza messa in rete. Non casualmente si è anche sviluppata una lettura semantica del termine comunicazione, facendolo risalire ai verbi greci koinòo (rendo comune, unisco, notifico, ma anche, prostituisco) e koinonèo (partecipo, sono implicato), da koinè, comunità. La tecnica, il motore informatico, la rete, i nuovi modelli simbolici, secondo alcuni interpreti dell’accelerazione mass-mediatica, creerebbero unmondo illusorio, camuffato, controllato, tale da minare quei riferimenti abituali dell’uomo. Le sue certezze storiche e temporali.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta Marshall Mc Luhan aveva elaborato una teoria che studiava l’effetto dei media sugli individui e sui gruppi sociali. Per lui i mutamenti avvenuti nella società moderna sono dovuti all’avvento dei vari strumenti di comunicazione: prima la cultura manoscritta, da Gutenberg in poi quella tipografica e oggi quella elettronica, hanno infatti influenzato la storia e le società, indirizzandole verso il villaggio globale. Non si tratta di essere démodé, conservatori, nostalgici passatist, ma le autostrade dell’informazione, i segni di un orientamento sociale espressi in messaggi attraverso gli strumenti della comunicazione di massa, la persuasione occulta, il mondo comunicato ad uso e consumo dei media, dei social, sono elementi di un sistema organizzato che minano il senso originario del “comunicare”( cioè “mettere in comune”), per entrare, diversamente, nel territorio di un dominio esercitato attraverso messaggi subliminali, ambigui. Segni e messaggi che fingono di dire una cosa e invece ne dicono un’altra, ponendo il soggetto ricevente nelle condizioni obbligate di assorbire attraverso il materiale che riceve, ordini e prescrizioni.
Questa visione delle cose è brillantemente descritta, tra gli altri, da Noam Chomsky, per il quale l’obiettività dei media è una favola raccontata e legittimata dai grandi mezzi di comunicazione e dai nuovi mandarini (i giornalisti), quando nei fatti ogni cosa è comunicata secondo una prospettiva di convenienza politica. In America, come in Europa e nel resto del mondo, i media sono “un riflesso di consolidate strutture di potere”. Osserva Lucien Sfez che con l’eclisse dei grandi modelli simbolici si è creato soltanto un vuoto,
Frutto della confusione dei valori e delle frammentazioni imposte dalla tecnologia.
Ai tempi delle grandi costruzioni filosofiche il sapere veniva legittimato dalle altrettanto grandi narrazioni, ma finita l’epoca delle meditazioni enciclopediche attorno al mondo e finite le grandi narrazioni (J.F. Lyotard ha trattato l’argomento ne “La condizione postmoderna”), mutati i linguaggi e le tradizionali credenze sulla realtà, oggi non c’è dubbio che la comunicazione rivesta un valore rilevante nelle società del Terzo Millennio, ampliando addirittura il suo stesso concetto nei vari campi di applicazione.
La comunicazione crea bisogni e stabilisce linguaggi, entra ed esce dai segni e ne produce di nuovi, attiva un universo complesso la cui trama si dipana in tutte le direzioni, ponendo a tutto un senso. Anzi, sensi diversi. Secondo quest’ottica, sulla quale si potrebbe anche discutere, la pluralità di linguaggi e di messaggi, nonché la dimensione internazionale dei mezzi di comunicazione di massa, indirizzano verso una coscienza collettiva penalizzando la coscienza individuale, che poi, tradotto semplicemente, significa verso la globalizzazione dello spirito. E anche qua: uno spirito globalizzato ci conduce inevitabilmente alla folla solitaria di Riesman, nei fatti all’anomia e all’incomunicabilità. Rilancio e rincaro la dose: comunicare tutto, paradossalmente, equivale a non comunicare niente, in quanto notizie e fatti si disperdono nel vortice entropico della rete. Ogni singolo soggetto non potrà mai gestire consapevolmente l’enorme quantità di fatti e notizie del circuito comunicativo, col risultato già previsto da Umberto Eco, tra gli altri, di dare diritto di cittadinanza a imbecilli, mestatori, operatori della disinformazione, alle fake news, le quali sono il prodotto naturale e discendente di quel vortice entropico. Idem per lo hate speech dei social network.
Insomma, viene facile pensare che nell’epoca attuale comunicare sia anche in qualche modo legittimare. Non si discute più attorno alla verità, bensì si “comunica” la verità e ai filosofi, agli scienziati, ai giuristi, ai sociologi si sostituiscono i grandi comunicatori. Si è informati su tutto ma non si ha nessuna conoscenza e laddove l’informazione prende il sopravvento sulla conoscenza, il mondo finisce di essere il mondo e diventa favola. Anzi: ombra di una favola. Resta il fatto che l’era postmoderna è caratterizzata da questa moltiplicazione vertiginosa della comunicazione e che la società dei mass media proprio per queste ragioni, è tutto il contrario di una società più illuminata. È chiaro che questa società in teoria “più illuminata”, nel concreto sia una società di legami virtuali, di rapporti virtuali fra persone senza corpo, senza volto, con identità spesso fittizie; una società tanto “trasparente” quanto anonima, confusa dalla stessa trasparenza sociale veicolata dai media. Una società che non si conosce e non conosce, informata su tutto, formata su poco. Ma senza ricorrere a memorie orwelliane, è chiaro che il dibattito rimanga aperto: può un eccesso di comunicazione plagiare le coscienze ed erodere il senso di realtà?
Certo che nella coscienza collettiva, quella stessa coscienza che ha penalizzato l’individuale nella nostra società, è forte la convinzione che la comunicazione con tutti i suoi paradossi e fraintendimenti, possa pilotare scelte e convinzioni, non devono pertanto sorprendere le bufale messe in rete e accettate per verità. Esse fanno parte integrante di un sistema che sovente palesa le proprie cancrene. Cercare una razionalità comunicativa non è la cosa più semplice di questa terra e una nuova, presunta etica della comunicazione è utile solo a imbellettare la superficie delle cose. Non è proponendo una sfilza di leggi e regolamenti, codici e norme (normare tutto = normare niente) che si sarà risolto il problema. Basterebbe leggere un giornale qualsiasi o vedere un programma giornalistico in tivù per assistere alle inosservanze continue dei Codici deontologici, dei Testi unici, delle Carte che fanno studiare, anche attraverso i moduli di formazione continua, a noi giornalisti. E non sarà facile, per quanto auspicabile, allineare i seguaci della rete ai Codici deontologici dei giornalisti di professione. Philippe Breton, infatti, dice che:
I media [sono] portatori di un’utopia della trasparenza, ma allo stesso tempo soggetti alla dialettica degli interessi politici ed economici…
Le fake news non vanno alimentate (mi pare chiaro, no?), ma se chi come noi lavora nel settore dell’informazione è in grado di individuarle, verificarle, per gli altri il problema rimane in tutta la sua virulenza. Non è in ogni caso portante verniciare con una patina di perbenismo le parole che si sarà entrati nelle viscere della comunicazione paradossale, fuorviante. Le parole sono ‘sacre’, oneste, mai volgari; i concetti invece seguono le sorti di chi li esprime e la volgarità ha la sola paternità di chi è volgare, non delle parole che vogliamo cospargere di melassa per affrontare ingenuamente le metastasi della comunicazione.
I linguaggi sono pericolosi, le parole possono diventarle solo se inserite in linguaggi inappropriati, ambigui, manipolati, infetti. La confusione fra informazione e conoscenza, ‘pancia’ ed etica è figlia di tante, troppe cose, a partire dal linguaggio dei media, che cerca l’immediatezza, il tempo reale, il commento ‘di pancia’, lo sbigottimento, invece di fornire elementi di conoscenza. È un effetto domino devastante che dobbiamo, dovremmo arginare nel tempo dei selfie e del disimpegno; ma l’utopia della trasparenza ha purtroppo partorito la negazione della conoscenza, infatti conoscere è solcare terre misteriose, spesso nascoste. La verità non è un pasto caldo da consumare, è piuttosto una ricerca ignota da perseguire. O diversamente, per dirla con un profetico Nietzsche,
continueremo a sognare sapendo di sognare.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/favole-e-fake-news/
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