L’inconscio politico di Star Wars
di JACOPO D’ALESSIO – FSI Siena
Tale teoria potrebbe essere sostenuta prendendo a modello un rovesciamento del grande detto di Walter Benjamin, il quale afferma che ‘non c’è mai stato un documento di cultura che non fosse stato anche, simultaneamente, un documento di barbarie’. Così che, allo stesso modo, ciò che è effettivamente ideologico diventa anche necessariamente utopistico”.
Frederic Jameson
Fin dal suo esordio Guerre stellari è riuscito ad ottenere un successo clamoroso. E per la critica che indaga la fruizione dell’opera d’arte nell’ambito dell’industria culturale, così come per un produttore cinematografico, che deve indovinare ogni volta le tendenze del mercato, è interessante chiedersi il motivo per cui si è creato un fenomeno popolare di tale portata. Pertanto, si cercherà di circoscrivere l’oggetto dell’analisi all’estetica suggestiva dell’Impero.
1. Nostalgia del padre
Difatti, non si può nascondere che la ragione autentica che spinge milioni di persone ad acquistare il biglietto del cinema per assistere ad un nuovo episodio di una delle saghe più seguite di tutti i tempi consista nel riesumare ogni volta il personaggio di Darth Veder. Quest’ultimo ritorna, sia pure come fantasma, in The force awaken (Il risveglio della forza – 2015), e anche nel recentissimo Rougue One (2016), dove ricopre un ruolo marginale in un paio di frammenti della durata di pochi minuti ciascuno. Trascorsa l’infanzia, nessuno della vecchia guardia si è mai più preoccupato della sorte toccata alla Resistenza e i registi l’hanno capito talmente bene che i capitoli successivi, usciti nell’arco di un ventennio, sono stati concepiti tutti sulla base del cavaliere nero.
In breve, l’impianto narrativo sul quale viene costruito questo moderno romanzo familiare scaturisce da un desiderio irrisolto, da parte dei suoi uditori, di resuscitare la figura paterna di cui viene rimpianta la scomparsa. Si tratta di un bisogno legato all’attualissimo tema proposto da Massimo Recalcati, il quale osserva come l’evaporazione del Padre corrisponda al tramonto delle grandi ideologie novecentesche, sostituite tuttavia da un relativismo assoluto ancora più oppressivo delle forme autoritarie precedenti (1). Veder si presenta perciò come il vero e indiscusso protagonista, oltre a costituire, da un punto di vista formale, l’unità del racconto in quanto, nello stesso tempo, narratore cui sono legati i destini degli altri personaggi.
2. Desiderio e consumo
Dunque, dicevamo, verso la fine degli anni ’90 il punto di vista si inverte: l’Alleanza serve ai registi di Star Wars come pretesto per esibire l’Impero e non viceversa, passaggio che sta a significare la mancata identificazione dello spettatore con il ribelle, topos comune del racconto d’avventura.
Chi è diventato il regista di un’opera colossale, ed è chiamato a sbancare ogni tre 3-4 anni al botteghino, si è dovuto fare contemporaneamnete psicologo delle masse, quelle stesse che, essendo state escluse dai diritti del lavoro e dalle tutele sociali più basilari, sono ormai inorridite di fronte al caos. Per fare un esempio recente, la figura di Donald Trump rappresenta perfettamente una figura guida che testimonia la mancanza di una politica determinata a risolvere problemi di ambito popolare, in grado quindi di incarnare l’immaginario frustrato dei ceti meno abbienti americani (2).
Non ci importa sapere se George Lucas conosca la geneaologia storico-filosofica del ‘900. Mentre è importante notare che gli autori del film siano stati in grado di intuire come il gusto abbia spostato il suo interesse, da una rivolta compulsiva contro la Legge, alla richiesta simmetrica e opposta che pretende di riaffermare un principio di realtà.
In altre parole, l’inconscio politico del film ci sta avvisando che il popolo, la cui qualità di vita è stata deteriorata e stravolta, sembra aver perso progressivamente l’entusiasmo per un tipo di società atea per mettersi in cerca invece di un’ideologia da contrapporre, tanto alla schizofrenia liberista, quanto al maoismo della rivoluzione permanente. D’altronde, la classe dirigente degli ultimi trent’anni ha risposto a tali timori con un ampio spettro di feticci vuoti, ma apparentemente più sicuri, quali ad esempio quello della ‘governabilità’ (3).
3. Perché ci piace l’Impero
Sembra che sull’Impero si proiettino, quindi, almeno due istanze contrapposte e coesistenti: una immediatamente visibile, che è quella fuori tempo massimo della deriva autoritaria. Quest’ultima è ancora apprezzabile nel 1977, data più vicina alla conclusione del secondo conflitto mondiale, quando il primo episodio, The new hope (La nuova speranza), ricicla in un pasticcio post-moderno l’epopea bretone di King Arthur insieme all’immagine decodificata degli anni ’30 di uno Stato fortemente militarizzato con la sua peculiare simbologia nazi-fascista. Il film riscosse subito un grande consenso del pubblico nel quale era ancora vivissimo il trauma del totalitarismo.
Eppure, anche la ribellione aveva già preso a far parte in quell’epoca di un’innocua operazione estetica, che però divenne utile alla produzione cinematografica nella misura in cui tale immagine mitica riusciva ancora ad essere consumata dai suoi fans nonostante i problemi profilatesi in quegli anni apparivano ormai di tutt’altra natura. Alla fine dei ’70 si colloca infatti il capolinea di un ciclo di lotte sindacali dopo il quale il modello conflittuale tra capitale e lavoro, svoltosi finora nell’ambito delle normative nazionali, comincia ad essere esautorato da particolari soggetti economici apolidi, cui viene concesso di interferire in assenza dei normali vincoli istituzionali propri della social-democrazia.
4. Il ritorno del rimosso
Nel pieno sviluppo di questo processo l’Impero cambia verso, e viene offerto ora in pasto al suo pubblico come un organismo stabile, nemico del relativismo. Subentra dunque l’invocazione della Legge innanzi alla quale folle scalpitanti compiono periodicamente un rito catartico quando si danno appuntamento al cinema col fine di placare il proprio stato d’angoscia.
Tuttavia, siamo di fronte a una censura. La figura di Darth Vader infatti suscita attrazione non soltanto a causa di una tipica esibizione fallica che lo pone al di sopra di una massa mediocre. Quanto piuttosto perché, essendo il fautore di una grande narrazione, promette di recuperare l’ideologia in un mondo che ne è privo. Di conseguenza, potremmo fare nostra l’analisi di Walter Benjamin sull’opera d’arte come testimonianza simultanea di barbarie e civiltà, per cui l’istanza conservatrice dell’Impero si rovescia anche nell’unica direzione utopica sostenibile nel presente: la prospettiva di organizzare una società capace di imbrigliare nelle sue regole il punto di vista del mercato insieme alla sua violenza (4).
5. L’estetica dell’anti-fascismo
Il fatto è che, nello stesso mondo in cui avviene nel film, anche nel mondo reale l’utopia si presenta alla coscienza in modo perverso, ad esempio attraverso l’idolo del ‘maggioritario’, che sembra sollevare gli ostacoli che impediscono alla politica di governare. Mentre, come sappiamo, contrariamente al ‘proporzionale’, si pone agli antipodi rispetto ad una democrazia realmente rappresentativa; oppure ritorna in una fantasia reazionaria, celata appunto da un fascismo anti-storico, necessario a preservare il tabù su un’auspicabile regolamentazione del capitale.
In fin dei conti, Il film mette in scena quella stessa pantomima con la quale molti falsi progressisti contemporanei accusano la questione nazionale di rappresentare un passo indietro rispetto alla rivendicazione dei diritti sociali che vengono rimossi attraverso l’estetica dell’anti-fascismo.
Nell’attuale propaganda la nostalgia per un orizzonte di senso perduto, come ad esempio quello socialista, viene oggi semplicemente liquidata per mezzo dell’espressione denigratoria di populismo, che serve a sabotare il discorso critico privandolo di un qualsiasi contenuto realistico. Così che, nella stessa maniera dei sogni, una narrazione autentica, che cerca di sfuggire l’onta dei suoi aggressori, riesce a tornare di nuovo all’attenzione vigile e razionale soltanto in maniera censurata, sotto mentite spoglie (5).
Note
(1) Massimo Recalcati, Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina Raffaelo, Milano, 2011.
(2) La science fiction è, più di molti altri, un genere che si sposa con il mercato nella misura in cui soddisfa la pulsione edonistica per l’evasione. Ma rimane pur sempre anche allegorico, in quanto, l’immaginario della favola è depositario di atteggiamenti propri dei ceti medi e popolari con i loro sogni e il loro disincanto, in Frederic Jameson, The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, Verso Books, New York City, 2005.
(3) Olimpia Malatesta, L’ideologia della governance, Università di Bologna, in Appello al Popolo, https://appelloalpopolo.it/?p=33592 , 22.08.2017.
(4) La trama di The clones war (La guerra dei Cloni – 2002) racconta di una crociata dell’Impero contro il mercantilismo. Ed è esemplare l’immagine dell’arena dove, alla stregua del tipico rodeo, Obi-Wan Kenobi (Ewan McGregor) si mette a cavalcare un mostro esattamente nella stessa maniera in cui lo farebbe un cow boy in sella al suo bestiame. Questa scena, come diverse altre, tradisce l’origine di George Lucas, il quale, allo stesso modo dei suoi protagonisti, cresce in un ranch nella città di Modesto (California), figlio di contadini produttori di noci. Nella provincia meridionale americana è diffusa infatti una forte ideologia mormona conservatrice, che si auspica da sempre il ritorno degli USA a curare le questioni nazionali piuttosto che immischiarsi nelle vicende d’oltre oceano come invece accadde a partire dal primo conflitto mondiale.
(5) Ho assunto come punto di riferimento generale Frederic Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico, Garzanti Libri, Milano, 1990.
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