La ‘Storia’ di Francesco De Sanctis (prima parte)
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Può essere respinta la distinzione, tutto sommato sterile, fra poesia, arte e scienza; si possono non condividere qua e là singoli giudizi critici sorpassati o romanticamente pregni di enfasi e ingenuità (quelli sulla scuola siciliana e su Iacopone, per esempio, oppure la stroncatura dell’allegorismo medievale e della scolastica), ma l’essenziale ispirazione nazional-popolare della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis giunge a noi quanto mai tempestiva in questa fase rovente dell’Era Globale.
Il punto di partenza della riflessione di De Sanctis è che l’arte, come pure la religione, la filosofia e le istituzioni politiche, non costituisce il prodotto di un “capriccio individuale” ma “un fatto sociale, un risultato della coltura e della vita nazionale”: un contenuto artistico nasce morto se non “penetra nelle intime latebre della società (…) trasformato e lavorato dal genio nazionale”. Ciò spiega la ragione per la quale le opere destinate a durare nei secoli sono quelle che vivono della “vita comune”, che interpretano il sentire del popolo, questo “giudice inappellabile di poesia”. Di qui il giudizio negativo sulla letteratura italiana delle origini, sui poeti della corte federiciana, considerata una manifestazione elitaria minata da intellettualismo e allegorismo e perciò sostanzialmente slegata dall’anima popolare, al contrario delle prime espressioni letterarie di altre nazioni europee.
“Vita” è la parola-mana della Storia, sulla quale De Sanctis ritorna continuamente, in modo quasi ossessivo: “poesia, cioè vita e realtà”; “l’arte è realtà vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa” ; “è arte tutto ciò che vive”; “il valore poetico dell’uomo non è nella sua moralità e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza”; “quello solo c’interessa che vive”. Come spiegare questa insistenza? Di nuovo De Sanctis si rivela tempestivamente inattuale quando, riferendosi a Faust, cioè all’uomo moderno ammalato di astrazione, denuncia “la sazietà e vacuità della scienza” a cui l’eroe di Goethe cerca di rimediare con il “ribattezzarsi nelle fresche onde della vita”. Sono i concetti che verranno ripresi dal critico, poco dopo l’uscita della Storia, nella prolusione La scienza e la vita letta all’Università di Napoli nel novembre 1872. L’uomo moderno è aggredito da “un malore incognito, la cui manifestazione è l’apatia, la noia, il vuoto” (la Sorge goethiana, insomma), da un’ipertrofia dell’intelligenza che colpisce le “due forze onde vengono le grandi iniziative e i grandi entusiasmi”, cioè “il sentimento” nelle sue molteplici facce (fede religiosa, patriottismo, amore per la famiglia, la natura e la libertà) e “l’immaginazione”.
Ecco perché, e torniamo così alla Storia, grandi poeti sono quelli che sanno essere semplici e spontanei nello stupore, nell’indignazione, nella sofferenza; quelli che si avvicinano “al sentimento popolare e alla natura”, animati come sono dalla “sincerità dell’ispirazione”, dall’”energia” e dalla purezza della passione morale. Se la scuola siciliana cerca di importare artificiosamente una cultura, quella cavalleresca, che “mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella vita nazionale”, Iacopone al contrario “riflette la vita italiana (…) con assai più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore”; il suo fervore religioso ha una matrice popolare, ignora le sottigliezze teologiche della scolastica e si spinge “sino al misticismo ed all’estasi”.
La stessa Commedia di Dante attinge alle tradizioni popolari; la base e la sostanza del poema non sono invenzioni dell’autore, “il suo pregio è di essere il concetto di tutti”. Grazie a Dante “la leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a’ più alti concepimenti della scienza” e nello stesso momento “la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda”: il poeta non parla per se stesso, è il portavoce di un’intera età “virile e credente e appassionata”, degna di considerazione e rispetto come “tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri”; e il fatto che la Commedia rappresenti per gli Italiani una “bibbia nazionale” non deve mettere in ombra l’universalità del problema da essa trattato, cioè “il mistero dell’anima”, tema della philosophia perennis et universalis, che “si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie”.
Petrarca e Boccaccio segnano il tramonto del Medioevo, che trascina con sé “il sentimento della famiglia e della natura e della patria, la fede in un mondo superiore, il raccoglimento e l’estasi e l’intimità, la caste gioie dell’amicizia e dell’amore, l’ideale e la serietà della vita”, e aprono le porte all’età moderna, quando “le classi colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della sua credulità”. La civiltà teocratica è crollata, e questo è un bene: in Italia fioriscono splendidamente le arti e la cultura umanistica ma sotto quel progresso cova “il germe di una incurabile decadenza, l’infiacchimento della coscienza”. Se “la privazione della realtà, e un desiderio di essa scemo di forza” è l’aspetto che contraddistingue il “mondo personale e solitario del Petrarca”, con Boccaccio svanisce ormai “il cristiano e anche il cittadino”, mentre “comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio e lo lasci attendere alla sua industria e non lo tiri per forza fuori di casa o di bottega”.
Questa deriva prosegue nei secoli successivi: nel Quattrocento parla attraverso Poliziano il prototipo del letterato italiano, “vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere”, l’artista che “non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita”; si afferma intanto il genere letterario dell’idillio, che per De Sanctis rappresenta una sorta di compensazione consolatoria alla “grande dissoluzione sociale” di quell’epoca.
[continua]
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