La scelta della leadership costituisce un momento saliente nella vita delle forze politiche. Lo è sempre stato, al di là della denuncia – talvolta sacrosanta, talvolta astorica – sulle involuzioni personalistiche dei partiti nel corso della cosiddetta seconda repubblica. Lo è sempre stato, anche (soprattutto?) nell’epoca di auge dei grandi partiti di massa. Lo è sempre stato nei periodi di crisi, quando – ci ricordava Gramsci – il venir meno delle vecchie fedeltà politiche favorisce la disgregazione di movimenti strutturati e l’emergere di “uomini forti” capaci di canalizzare e catalizzare i consensi e le riaggregazioni di masse disorientate politicamente e socialmente. E lo è sempre stato, infine, da quando un mezzo che di per sé favorisce esigenze comunicative dirette e semplificate come la televisione ha fatto irruzione, sostituendo in buona parte piazze e congressi. Il mezzo è diventato messaggio, la forma contenuto.
Non c’è perciò da stracciarsi le vesti se anche quel che resta della sinistra partitica italiana ha confezionato il proprio (ennesimo) appuntamento rifondativo attorno alla proclamazione della leadership di Pietro Grasso. Ma cosa ci racconta della sinistra italiana attuale la scelta di Pietro Grasso quale proprio portabandiera in vista delle imminenti elezioni politiche? La sinistra che sceglie Pietro Grasso – un borghese palermitano, persona garbata, uomo delle Istituzioni, prima come giudice del maxi-processo, poi come Presidente del Senato della Repubblica, mai sopra le righe, già editorialista del giornale che fu per eccellenza “del padrone” -; la sinistra che sceglie questo profilo per rappresentarsi, si diceva, cosa si propone di incarnare? La risposta è che attraverso questa scelta, anche fisicamente, la sinistra identifica se stessa con “il sistema”.
Sono quarant’anni che la sinistra presenta al popolo italiano questa identificazione tra la propria avanzata elettorale e sociale e la “salvezza del sistema”. Ed ogni cittadino di questo Paese minimamente dotato di coscienza civica dovrebbe esser grato a quei partiti del movimento operaio che prima hanno contribuito a far nascere, poi a dare fondamento, e infine anche a salvare il nostro sistema democratico. Ma il “sistema” non è un’entità astratta, esso cambia con il passare degli anni, con il mutare delle egemonie, con le trasformazioni sociali. Farsi paladini della salvezza di un “sistema” che garantisce prosperità sociale, pace con i vicini, aumento delle garanzie democratiche, non è la medesima cosa che legare le proprie fortune a quelle di un “sistema” che per i più è ormai identificato con la perpetuazione e istituzionalizzazione della crisi.
Se un sistema entra in crisi, e se le forze storicamente chiamate ad elaborare progetti di trasformazione sociale (sistemici, appunto) si consumano nel puntellare quel sistema entrato in crisi, rimane fluttuante un desiderio di radicalità destinato a premiare più la forza con cui il “sistema” entrato in crisi è contestato che l’effettiva direzione a cui conduce una tale contestazione. Dagli operai della rust bealt americana che voltano le spalle ai democratici e rendono possibile l’elezione di Donald Trump, al proletariato francese del midi e dell’Île-de-France attratto dalle sirene lepeniste, al dilagare dell’estrema destra dall’est Europa al cuore tedesco delle nuove gerarchie continentali, negli ultimi anni si sono di continuo accumulate prove empiriche di quel presupposto teorico. A fronte di questa impetuosa e minacciosa ondata, una parte delle forze democratiche ha saputo reinventarsi nelle parole d’ordine, nei programmi e nella composizione dei gruppi dirigenti. Ed ha rotto il tabù “istituzionalista” all’ombra del quale aveva potuto prosperare nel corso di una belle époque ormai tramontata. Al di là della critica da parte delle nuove forze “populiste” nei confronti dell’europeismo reale e delle sue istituzioni, in Spagna il “regime della transizione” è da più parti sotto attacco, in Francia la France Insoumise parla apertamente di superamento della V Repubblica, e perfino nell’epicentro del Washington Consensus il regime bipartito tradizionale è sottoposto a tensioni inimmaginabili da destra e da sinistra.
A fronte di questo epocale cambiamento, in Italia il personale politico della seconda repubblica appare saldo nella volontà della propria perpetuazione e in quella delle ideologie che per un quarto di secolo ne hanno garantito la vigenza. Ma il vento di cambiamento che spira è troppo forte perché possa fargli argine un cartello composto da residui partitici all’ombra di un autorevole uomo delle istituzioni. Per intercettarlo ed indirizzarlo in senso democratico urge mettere in campo qualcosa di nuovo.
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