War fog in Palestina
di GIUBBE ROSSE NEWS (Enrico Tomaselli)
Nel gergo militare, l’espressione nebbia di guerra allude all’assenza – o all’opacità – delle informazioni, che non consente ai belligeranti di avere una chiara cognizione di quanto sta accadendo. Attualmente, qualcosa di sostanzialmente simile sta accadendo in Palestina, ma la nebbia invece di nascondere la realtà del campo di battaglia alle forze che si stanno affrontando, la nasconde a chi la osserva dall’esterno; e non è costituita da una mancanza o scarsità di informazioni, quanto piuttosto dal prevalere di altre informazioni, che – appunto – distolgono l’attenzione e offuscano quel che accade sul terreno. Ma poiché la guerra è, non certo secondariamente, anche qualcosa di estremamente materiale, si potrebbe quasi dire misurabile, è importante ricondurre la visione su questa sua dimensione.
È ovviamente del tutto normale che eventi di grande tragicità, quale il massacro quotidiano messo in atto dall’esercito più immorale del mondo, siano costantemente alla ribalta, così come è naturale e giusto che siano le notizie ad esso collegate a guadagnare le prime pagine. Che si tratti dell’ultimo bombardamento su un campo profughi o di una decisione della Corte Penale Internazionale, della scoperta di una fossa comune o di una presa di posizione da parte di qualche paese in riconoscimento dello Stato di Palestina, sono certamente tutte cose rilevanti, e che meritano la massima attenzione. Oltretutto, sono spesso eventi che si verificano sul medesimo terreno su cui si combatte, e sono intrecciati all’attività bellica vera e propria.
Ma indubbiamente essi contribuiscono anche a creare una cortina fumogena sugli aspetti propriamente bellici del conflitto.
Il paradosso è che, mentre questi eventi costituiscono causa di un crescente isolamento internazionale dello stato di Israele, e di un altrettanto crescente imbarazzo dei suoi alleati, al tempo stesso essi distolgono dalla guerra in sé, in ciò facendo un gran favore alla leadership politica e militare israeliana.
Data la particolarissima natura di Israele – che rappresenta non solo un caso di scuola di colonialismo d’insediamento, ma anche di estesa e radicata adesione ad una ideologia politico-religiosa, con venature messianiche – è pressoché impossibile ignorare l’esistenza, e l’importanza, di un ulteriore livello presente nel conflitto, che precede e si sovrappone a quelli canonici: politico, militare, strategico, tattico. Ed è appunto il livello dell’aspettativa messianica – nello specifico, concretizzabile nell’idea di Eretz Israel, la Grande Israele. Ineludibile elemento costitutivo del sionismo, infatti, è l’aspirazione a costruire uno stato ebraico (cioè degli ebrei e per gli ebrei) che si estenda sui territori che, in base a testi biblici, sarebbero appartenuti alle tribù ebraiche migliaia di anni fa. Questo ideale è stato perseguito dagli israeliani costantemente, sin dalla fondazione dello stato, e comporta due direttrici parallele: l’espansione territoriale, e l’espulsione degli arabi da questi territori.
Questo obiettivo, per quanto realisticamente impraticabile (e per più di una ragione), almeno nei suoi termini massimalistici, non ha mai cessato di essere presente nella visione delle leadership israeliane, che a loro volta hanno visto nell’azione palestinese del 7 ottobre l’occasione per fare un grosso passo avanti in questa direzione. È indubbio infatti che – al di là della rabbia e della frustrazione per essersi fatti cogliere impreparati – l’idea di approfittarne per espellere dalla Striscia di Gaza la maggior quantità possibile di palestinesi, si è immediatamente affacciata nella mente di ministri e generali israeliani. Sotto questo profilo, quindi, si può affermare che questo fosse l’obiettivo storico, meta-strategico, che ha mosso la leadership di Tel Aviv. L’obiettivo – rivelato anche dalla strategia militare sul campo, come vedremo – era esattamente quello di arrivare a cacciare gran parte dei palestinesi verso il Sinai egiziano, ottenendo così molteplici risultati: ridurre la popolazione araba sul territorio della Grande Israele, espandere gli insediamenti coloniali, annichilire lo spirito indomito dei palestinesi e togliere l’acqua alla Resistenza.
Sotto questo punto di vista, benché la guerra non sia ancora terminata, si può tranquillamente affermare che l’obiettivo è stato completamente mancato. Sia ovviamente per il rifiuto egiziano di accogliere una tale massa di profughi (nonostante ricche profferte economiche), e sia soprattutto per la resilienza e la resistenza del popolo palestinese.
L’approccio genocidario, che ha preso sempre più piede man mano che i leader israeliani si rendevano conto della impraticabilità dell’espulsione di massa, e che ritenevano di poter portare a termine contando sulla storica acquiescenza occidentale, si è rivelato a sua volta inefficace (impossibile ucciderli tutti) e soprattutto tale da incrinare l’appoggio incondizionato su cui hanno sempre fatto affidamento. Sul piano politico, che ci sia o meno un riconoscimento formale dell’accusa di genocidio, che Netanyahu e Gallant debbano o meno fare i conti con un mandato di cattura, è evidente che Israele ne esce se non con le ossa rotte certamente assai ammaccato. E, su questo piano, ad essere rilevante non è tanto il succitato imbarazzo dei governi occidentali nel sostenere la sua folle politica, quanto l’effetto di lunga durata nel quadro globale, che vede non solo una drastica diminuzione del potere egemonico degli Stati Uniti (e quindi del massimo garante di Israele), ma anche una crescente autonomia dei paesi del sud del mondo, agli occhi dei quali oggi lo stato ebraico appare come un paria pericoloso.
Ma, come si diceva, tutto ciò che è avvenuto ed avviene su questi livelli, agisce come war fog rispetto alla guerra guerreggiata. Quali erano, infatti, gli obiettivi strategici dell’operazione Iron Sword lanciata dall’IDF, all’indomani del 7 ottobre? Sul piano strettamente militare, si trattava di distruggere la struttura di combattimento della Resistenza e, come si è detto, di spingere una parte significativa della popolazione a rifugiarsi fuori dall’area dei combattimenti, ovvero nel Sinai egiziano. E, ovviamente, recuperare i prigionieri israeliani.
Per fare una valutazione dei risultati raggiunti, soprattutto per quanto riguarda il primo di questi obiettivi, è ovviamente necessario procedere preliminarmente ad una stima della forza combattente della Resistenza, prima dell’avvio dell’operazione israeliana.
Secondo le valutazioni di varie intelligence occidentali, compresa quella israeliana, la forza combattente della Resistenza era abbastanza consistente. Si riteneva che Hamas potesse contare su un numero di militanti armati oscillante tra i 30.000 ed i 50.000. Assumeremo quindi come valore di riferimento la cifra mediana di 40.000 combattenti. Ma, anche se nel linguaggio politico-mediatico si è spesso operata una sineddoche, riferendosi alla Resistenza utilizzando il nome di Hamas, la realtà è differente; le forze politico-militari presenti attivamente nella Striscia di Gaza (e più in generale nei territori palestinesi) sono infatti anche altre, di cui almeno tre con una struttura significativa.
Oltre ad Hamas, è possibile annoverare la Jihad Islamica Palestinese, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ed il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. La forza combattente di queste formazioni assommava presumibilmente a circa 15.000 / 20.000 uomini.
Possiamo quindi concludere che, al 7 ottobre 2023, la Resistenza contasse su almeno 55.000 uomini in armi, all’interno della Striscia. E poi c’è ovviamente tutta la struttura, pressoché totalmente sotterranea: fabbriche di armi, depositi di armi e munizioni, centri comando, infermerie, dormitori, linee di comunicazione, etc.
In merito a quest’ultima, sappiamo che nella fase iniziale era stata data molta enfasi, e si era parlato di soluzioni mirabolanti per metterla fuori gioco, dai gas all’uso dell’acqua di mare per allagare i tunnel. Ma poi si è visto come questo argomento è via via scomparso dalle cronache belliche; per un po’ l’ufficio stampa dell’IDF ha provato a spacciare sotterranei di edifici per importanti centrali del terrore, ma dopo una serie di figuracce hanno semplicemente smesso di parlarne.
La realtà è che, dopo qualche timido tentativo di penetrare nei tunnel scoperti, pagato a caro prezzo, la tattica israeliana ha ripiegato su una soluzione più prudente: farne saltare gli imbocchi quando vengono identificati.
Questo genere di approccio tattico però, come è ovvio, ha finito con lasciare pressoché intatta la rete sotterranea. Secondo stime dell’intelligence statunitense, ad oggi almeno il 65% di questa rete sarebbe integro. E considerato che in quel 35% rimanente rientrano probabilmente molti tunnel di cui è stata distrutta soltanto la parte terminale, verso la superficie, è realistico pensare che in effetti i danni sostanziali siano persino minori. Vale giusto la pena, al riguardo, sottolineare come non sia stato scoperto alcun significativo deposito di armi, né tanto meno alcun centro comando. Per non parlare dei prigionieri. Hanno trovato solo quelli morti sotto le loro stesse bombe. L’obiettivo strategico di mettere fuori uso la struttura logistica della Resistenza, pertanto, è da considerarsi sostanzialmente mancato. Di fatto, le retrovie di Hamas e delle altre organizzazioni combattenti sono nel sottosuolo, e sono ancora largamente sicure.
Anzi, la tattica terroristica adottata dall’IDF, fatta di bombardamenti a tappeto su aree al altissima densità di urbanizzazione, non solo ha reso assai più complicato l’agire delle unità militari israeliane sul terreno, ma ha reso ancor più facilmente mimetizzabili gli accessi ai tunnel.
Questa scelta tattica, infatti, ha mostrato rapidamente le sue controindicazioni. Se, in termini di progressione strategica, l’avanzata delle forze israeliane nella Striscia ha seguito sostanzialmente un asse nord-sud (prima Gaza City, poi Khan Younis, quindi Rafah), sul piano tattico si è sviluppata in modo inevitabilmente inefficace. Per avere ragione di formazioni guerrigliere così numerose e determinate infatti, l’IDF avrebbe dovuto operare diversamente. Innanzitutto, impiegando molto più personale; secondo gli standard militari, la forza attaccante deve necessariamente essere superiore a quella che si difende, in un ordine di almeno 3/4 a 1. Il che significa che l’esercito israeliano avrebbe dovuto schierare, di volta in volta, almeno il triplo dei combattenti della Resistenza presenti nell’area investita dai combattimenti. E per fare ciò, avrebbe dovuto procedere in modo più preciso, suddividendo le aree in quadranti più piccoli, ripulendoli dalla presenza di combattenti nemici, e distruggendo quanto più possibile i passaggi sotterranei, per impedire il ritorno di miliziani una volta che l’esercito passava ad un quadrante successivo.
Ma questa combinazione tattica avrebbe richiesto molti militari per molto tempo, e ovviamente – come infatti è avvenuto ed avviene – li avrebbe esposti a pesanti perdite. E per Israele c’erano e ci sono grosse difficoltà, ad operare in tal senso. Tanto per cominciare, per le forze armate israeliane le perdite di personale sono assai più significative che per un altro esercito, per via della scarsità di popolazione ebraica nel paese [1]. Inoltre, Israele si è trovato a dover fronteggiare contemporaneamente una crescente resistenza quasi insurrezionale in Cisgiordania, e soprattutto la minaccia costituita da Hezbollah lungo il confine libanese. La mobilitazione dei riservisti, inoltre, era insostenibile sul lungo periodo, poiché incideva pesantemente sulla sostenibilità economica [2]. In conseguenza di ciò, l’IDF ha finito col preferire una manovra più veloce, attraversando a pettine le aree urbane, nella convinzione che spingendo la popolazione verso sud avrebbe reso più difficile l’operatività della resistenza.
Questa tattica ha sì ridotto il numero di perdite tra i soldati israeliani, comunque elevato, ma si è rivelata inevitabilmente effimera nei risultati. Come infatti era prevedibile, e come confermato persino dall’intelligence americana, non appena l’IDF si ritira da un settore, la Resistenza ne riprende pienamente il controllo, militare ed amministrativo. Il risultato è che la popolazione palestinese, stremata da bombardamenti e da continui sfollamenti, è costretta a muoversi quasi di continuo da una parte all’altra della Striscia (cosa che, ovviamente, favorisce anche lo spostamento dei combattenti…), mentre l’esercito israeliano è a sua volta costretto a tornare laddove si era precedentemente ritirato, in un continuo rimpiattino del gatto col topo – ma nello stile del cartoon Tom e Jerry, dove è il topo che si prende gioco del gatto…
Mentre quindi Gallant ed i generali dell’IDF raccontano di aver distrutto “20 brigate” di Hamas, e che ormai ne rimangono solo 4 a Rafah per “finire il lavoro”, la realtà sul terreno dice tutt’altro; così i militari israeliani sono costretti ad inseguire Hamas laddove riemerge, senza mai riuscire ad averne ragione.
Attualmente, l’IDF vede la sua presenza nella Striscia essenzialmente concentrata in tre aree. A sud, ha preso possesso del valico di Rafah e del cosiddetto corridoio Filadelfia, un asse viario che costeggia il confine meridionale con l’Egitto. Si tratta di un settore in cui, in base agli Accordi di Camp David, l’esercito israeliano non dovrebbe mettere piede; ma da parte egiziana non si è andati oltre flebili proteste formali. Al Sisi si è ben guardato dal denunciare gli Accordi. Sempre al sud, l’IDF è presente in forze nell’area orientale di Rafah, verso la frontiera con Israele, e preme verso ovest (il centro della città, e la sua periferia occidentale, verso il mare), scontrandosi con le forze della Resistenza. Qui, alle forze già impegnate in operazioni di combattimento – 162a Divisione Corazzata Ha-Plada, 84a Brigata di Fanteria Givati, 401a Brigata Corazzata Ikvot ha-Barzel e 89a Brigata delle Forze Speciali Oz – si sono recentemente aggiunte anche la 12a Brigata di Fanteria Negev e la 933a Brigata Nahal. Lo schieramento israeliano quindi conta su circa 17.000 uomini. Per fronteggiare i quali, come abbiamo visto, ne sono sufficienti circa 6.000 – più o meno tre brigate. Il resto, si può starne certi, è altrove.
Un’altra area segnata dalla presenza israeliana è quella del corridoio Netzarim, un asse stradale che taglia orizzontalmente la Striscia, dal confine israeliano al mare, e che si trova un po’ più in basso della metà dell’enclave. Teoricamente il controllo di questo asse dovrebbe impedire il passaggio dei combattenti della Resistenza da nord a sud (e viceversa). Ma ovviamente ciò avviene comunque, sia attraverso la rete di tunnel, sia mescolandosi alle masse di profughi che si spostano da una parte all’altra. Il controllo di questo corridoio serve anche in funzione del pontone costruito dagli americani, formalmente per lo sbarco di aiuti umanitari [3], e che peraltro si è già perso un pezzo, trascinato via dalle onde e finito ad Ashdod. In quest’area, peraltro, almeno sinora non si segnalano scontri significativi, anche perché è prevalentemente extra-urbana, e quindi territorio scoperto, su cui la guerriglia ha maggiori difficoltà ad agire.
La terza area con forte presenza dell’IDF è a nord, vicino a Gaza City, e precisamente nel campo profughi di Jabalya. Qui sono presenti almeno tre brigate israeliane, che sono dovute tornare nel campo dopo che la Resistenza ne aveva ripreso il pieno controllo. La situazione è qui assai complicata per l’esercito israeliano, che deve registrare continui combattimenti ed imboscate. Nelle parole del portavoce dell’IDF, si tratta degli scontri “forse più feroci” dall’inizio dell’invasione israeliana [4].
Il quadro complessivo è comunque, come si vede, caratterizzato dalla inafferrabilità delle formazioni armate della Resistenza, che ovviamente non ingaggiano battaglia nel senso classico, si muovono su un territorio che padroneggiano perfettamente, e colpiscono il nemico laddove non se lo aspetta. La tattica palestinese, infatti, è esattamente quella di opporre resistenza quando l’IDF avanza, così da imporre un prezzo elevato ad ogni manovra tattica dell’IDF, e di concentrare le forze laddove l’IDF è più debole, attaccandolo di sorpresa.
Se, dunque, è possibile affermare che dopo sette mesi la struttura logistica e la capacità operativa della Resistenza, a Gaza, è ancora sostanzialmente alta, e che nessun prigioniero è stato liberato grazie all’offensiva militare – anche se, invece, svariati ne sono rimasti uccisi – resta solo da effettuare una valutazione sull’impatto delle perdite inflitte dall’IDF alle formazioni combattenti palestinesi. Siamo ovviamente nel campo delle stime approssimative, ma comunque sufficientemente indicative.
Possiamo partire da un dato, quello delle vittime palestinesi ufficiali (cioè verificate), che è arrivato poco sotto le 36.000. A queste possiamo aggiungere qualche altro migliaio, tra corpi ancora non dissepolti sotto le macerie e/o in fosse comuni predisposte dall’IDF. Diciamo quindi che probabilmente i morti sono 45.000. Sappiamo che il 40% di questi sono bambini, ed un altro 20% circa sono donne. Quindi, ne consegue che i morti maschi (giovani, adulti ed anziani) sono più o meno 9.000; ma, ancora una volta, arrotondiamo per eccesso a 10.000.
La popolazione palestinese della Striscia, prima del 7 ottobre, contava all’incirca 2.300.000 persone, dei quali grosso modo il 20% maschi di età superiore all’adolescenza. Ciò significherebbe 460.000 uomini, che arrotonderemo ancora una volta per eccesso a 500.000.
Su cinquecentomila maschi, i combattenti della Resistenza erano grosso modo 55.000, ovvero poco più del 10%; se proiettassimo questa percentuale sul numero dei morti, ne ricaveremmo che i militanti caduti sono un migliaio, ma ovviamente faremo credito all’IDF di una maggior precisione – nonostante operi prevalentemente attraverso bombardamenti indiscriminati – e quindi diremo che la metà dei maschi morti (5.000) erano della Resistenza armata.
Pertanto una stima assai generosa porta a concludere che le perdite inflitte alle varie formazioni militari assommano a meno del 10% della forza combattente. Ma se anche tutti i diecimila uomini morti fossero stati membri della Resistenza, resterebbe il fatto che in sette mesi, potendo contare su un volume di fuoco spaventoso, e senza avere alcuna remora di alcun genere, l’80% della forza combattente della Resistenza palestinese è ancora viva.
Se a ciò aggiungiamo il fatto, dall’inizio di questa fase del conflitto, nella Cisgiordania si è passati dai riot con i ragazzi armati di pietre agli scontri a fuoco con gruppi armati della Resistenza, ormai in grado di organizzare anche lì imboscate ed ingaggiare vere e proprie battaglie (vedi Jenin nei giorni scorsi), e che l’IDF non è stata in grado di mettere in sicurezza la fascia confinaria con il Libano, si può tranquillamente affermare che non solo Israele non è stato in grado di raggiungere uno solo dei suoi obiettivi strategici, ma che la sua situazione complessiva è persino peggiorata. E, come si diceva all’inizio, è solo l’orrore del genocidio messo in atto contro la popolazione civile palestinese che riesce ad offuscare questo semplice fatto.
Ma, appunto, ciò può essere nascosto all’opinione pubblica internazionale e – un po’ meno – a quella israeliana, ma non così a lungo come spera Netanyahu.
Come ogni guerriglia che si rispetti, Hamas e le altre formazioni palestinesi stanno logorando il nemico, impedendogli di conseguire gli obiettivi che si era prefissato. Di più: come avevo scritto già all’indomani dell’operazione Al Aqsa Flood, hanno minato le fondamenta politiche del progetto sionista, ed ora non gli resta che resistere sinché il potere politico israeliano non collasserà su sé stesso. Certo il prezzo pagato è altissimo, ed il bilancio non è ancora concluso; e la liberazione della Palestina non è dietro l’angolo. Ma indubbiamente, con il 7 ottobre prima, e questi sette lunghi mesi di resistenza poi, il popolo palestinese ha dimostrato di non poter essere sconfitto. Quel che Gallant ha dimenticato, è che quando un esercito regolare si scontra con una guerriglia, vale una legge molto semplice: se l’esercito non riesce a vincere, ha perso; se la guerriglia riesce a non perdere, ha vinto.
1 – Sotto questo profilo, va tenuto presente un fattore di cui si parla pochissimo. Anche se, ovviamente, le cifre ufficiali fornite dall’IDF sul numero dei caduti sono quelle che la censura militare decide di potere/dovere far filtrare, i numeri sono sicuramente molto più elevati. Come del resto è emerso, proprio sulla stampa israeliana, mettendo ad esempio a confronto le cifre ufficiali sui feriti e quelle comunicate dai vari ospedali. In particolare, l’IDF ha la possibilità di occultare le perdite anche per via di un fattore particolare: nelle fila dell’esercito israeliano, infatti, prestano servizio moltissimi giovani ebrei con doppio passaporto, che abitualmente non vivono in Israele ma che se richiamati vanno a servire nell’esercito. Si stima – ad esempio – che ce ne siano circa 20.000 provenienti dagli USA, circa 2.000 dalla Francia, ed un migliaio dall’Italia. Quando i caduti si contano tra questi militari, risulta assai più facile nasconderne la morte, poiché le famiglie non vivono in Israele.
2 – A parte il costo diretto della guerra (la paga dei militari, i mezzi distrutti e/o danneggiati, le munizioni consumate, i danni alle infrastrutture…), c’è un costo indiretto ben più pesante. Bisogna infatti considerare che i riservisti rappresentano forza lavoro sottratta all’economia del paese, che cessano di essere produttivi. A ciò va in ogni caso aggiunto l’impatto economico della paralisi che ha investito sia l’area a nord del paese, lungo il confine con il Libano (dove 60.000 civili sono stati sfollati) che quella lungo il confine con la Striscia di Gaza; la grave crisi del porto di Eilat, colpito frequentemente dalle forze irachene dell’Asse della Resistenza, e penalizzato dal sostanziale blocco del Mar Rosso operato da Ansarullah; e infine la subitanea mancanza di tutta la manodopera palestinese (di Gaza e della Cisgiordania) che prima del 7 ottobre si recava quotidianamente a lavorare in Israele, e che è stata bloccata.
3 – Lo scopo reale di questa operazione statunitense è tuttora poco chiara, visto che la cosa più logica sarebbe semplicemente aprire i valichi terrestri, dove sono ferme file chilometriche di camion carichi, e che spesso i coloni israeliani – appoggiati dall’esercito – saccheggiano e distruggono. Così come i lanci dall’aria di aiuti umanitari si sono rivelati essere addirittura controproducenti, ed infatti sono stati sospesi, l’idea di sbarcarli sulla costa utilizzando questo pontone (soggetto alle condizioni del mare, e comunque capace di sopportare un traffico troppo limitato) appare al momento più che altro una operazione di make-up, priva di alcuna efficacia.
Quantomeno formalmente, gli USA affermano di non voler mettere propri uomini a terra. Ma sia l’ipotesi che possa domani essere utilizzato per sbarcare marines, o al contrario per evacuare palestinesi, sembra francamente poco praticabile, non fosse altro perché facilmente attaccabile dalla Resistenza.
4 – Nella giornata di sabato 25 maggio, le Brigate Al-Qassam hanno attirato una unità IDF in una imboscata all’interno di un tunnel nel campo di Jabalya, uccidendo e ferendo tutti i militari, catturandone uno, ed impossessandosi di tutte le armi.
FONTE:https://giubberossenews.it/2024/05/26/war-fog-sulla-palestina/
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