Gaza è il Vietnam di Israele
di GIUBBE ROSSE NEWS (Enrico Tomaselli)
Se si prova a guardare il conflitto che da otto mesi divampa in Palestina, con uno sguardo che non sia né troppo ravvicinato alle dinamiche quotidiane, né troppo distaccato da queste, se insomma si prova ad osservarlo tenendo insieme il quadro generale e la sua articolazione concreta sul campo, risultano evidenti le similitudini con le guerre coloniali combattute nel secolo scorso, soprattutto da francesi e americani. Innanzitutto, la guerra è precisamente una guerra coloniale. Indipendentemente da chi l’abbia riaccesa, quello che si sta combattendo è per Israele un conflitto funzionale al mantenimento del proprio dominio coloniale sulla Palestina storica, e per i palestinesi è una lotta di liberazione nazionale. Con un elemento aggiuntivo, però, che rende ovviamente tutto molto più complicato – e molto più tragico: i colonialisti non hanno un paese di origine a cui tornare. Sotto questo punto di vista, in effetti (e non è un caso…), la situazione dello stato ebraico in Palestina ricorda quasi pedissequamente quella del Sud Africa dell’apartheid.
Ma, tornando appunto ad osservare il conflitto sotto il suo aspetto politico-militare, emergono tratti che sembrano la riproduzione esatta di dinamiche già viste in Indocina ed Algeria prima, in Vietnam poi. In un certo senso, si può quasi affermare che esista un ineludibile iter, che accomuna questo tipo di conflitti, e che si dipana attraverso una serie di passaggi – indipendentemente da quanto questi possano durare, in ciascuna situazione specifica.
Una volta che prende forma un movimento di resistenza organizzato ed armato, la prima fase è quella della repressione indiscriminata. Il potere coloniale cerca di annientarlo sinché si trova ad uno stadio embrionale. Questa fase può essere più o meno efficace, e quindi più o meno duratura, ma non risulta mai risolutiva; non c’è un solo caso al mondo in cui un movimento anticoloniale si sia arreso, rinunciando alla lotta, per quanto duri possano essere stati i colpi subiti. Ciò nonostante, poiché il colonialismo è anche coazione a ripetere, questa fase si presenta sempre, e sempre uguale a se stessa.
La fase successiva è il tentativo di divisione, facendo leva su quella parte di popolazione autoctona che ha accettato il dominio coloniale, ritagliandosi una sua condizione di semi-privilegio. Il fondamento ideologico è qui riassumibile nell’idea che tutti hanno un prezzo, quindi basta spargere un po’ di soldi a pioggia per demolire la resistenza. Anche questa fase dura poco.
La fase della controinsurrezione è quella finale, la potenza coloniale realizza di non avere altra scelta che combattere, combattere, combattere. Ed è questa fase che, in un certo qual modo, sta vivendo la Palestina.
A sua volta, la fase della controinsurrezione arriva inevitabilmente ad un punto in cui si fa strada l’idea che non basta catturare o uccidere i combattenti anticoloniali, ma bisogna “prosciugare l’acqua in cui nuotano” [1], e che per fare ciò bisogna conquistare i cuori e le menti della popolazione. Quando anche questo si rivela insufficiente o inutile, subentra la fase burocratica: il potere politico continua a chiedere risultati, mentre i militari constatano sul campo l’impossibilità di avere ragione del nemico. A questo punto si rompe il nesso clausewitziano, si determina un corto circuito e l’esercito – ormai demoralizzato e convinto dell’inutilità della propria azione – si limita a dare ai politici ciò che questi vogliono.
È esattamente ciò che sta accadendo in Palestina, laddove l’esercito israeliano ormai apertamente dichiara l’impossibilità di avere ragione della Resistenza, scontrandosi con la leadership politica che rifiuta aprioristicamente un tale approccio.
Il generale Halevi, Chief of Staff IDF, che sostiene la necessità di un cessate-il-fuoco e l’impossibilità di annientare Hamas, ricorda in qualche modo la figura del colonnello Mathieu [2], qui intesa come archetipo del militare che, proprio dall’esperienza sul campo, matura la convinzione che una lotta di liberazione non si può sconfiggere.
Un’altra evidente similitudine è riscontrabile nel bodycount. Durante la guerra del Vietnam, quando subentrò la fase burocratica, la strategia sul campo era quella cosiddetta del search and destroy: le forze statunitensi rastrellavano i villaggi alla ricerca dei viet-cong, e cercavano di soddisfare le aspettative del Pentagono fornendo risultati significativi. Il che però, nella pratica, significava che i marines ammazzavano praticamente chiunque, e li conteggiavano come viet.
Ciò consentiva di esibire statistiche mirabolanti, da cui sembrava che il nemico fosse sul punto di essere letteralmente sterminato. Il che ovviamente non era. Così, quando l’IDF dichiara di aver ucciso almeno 14.000 combattenti della Resistenza, sta platealmente facendo ammuina. I dati ufficiali – che persino l’IDF stesso considera attendibili – del ministero della sanità di Gaza, infatti, ci dicono che i morti sono più di 37.000, ma di questi almeno il 60% sono donne e bambini. Ne consegue che i maschi adulti uccisi (tutti, compresi gli anziani, gli invalidi, etc) sono -guarda un po’! – 14.800… In pratica, ogni palestinese morto è automaticamente un mujahedeen. Del resto, questo collima con l’idea di ministri fanatici come Smotrich e Ben-Gvir, per i quali i palestinesi sono tutti terroristi, indipendentemente dall’età e dal sesso.
Solo che, ovviamente, questo è solo un modo per dopare il bilancio dei combattimenti.
Naturalmente, la consapevolezza che matura all’interno delle forze armate israeliane non solo può essere espressa limitatamente, ma è a sua volta limitata in nuce sia dal fatto che tendono comunque ad autoassolversi, sia dal senso di colpa per la pessima gestione del 7 ottobre.
Interessante, sotto questo punto di vista, un recente articolo del New York Times [3], largamente basato su dichiarazioni off record di ufficiali dell’IDF, in cui si da appunto conto del malessere che serpeggia nell’esercito israeliano.
Ad un certo punto, l’articolo riporta la tesi – peraltro non nuova – che il contrasto tra IDF e governo verterebbe essenzialmente sulla mancanza di un piano per il dopoguerra, relativamente a chi dovrà governare la Striscia. La mancata definizione di ciò, avrebbe “sostanzialmente creato un vuoto di potere nell’enclave che ha costretto i militari a tornare indietro e combattere in parti di Gaza che avevano già liberato dai combattenti di Hamas” [4].
Ciò è però evidentemente privo di senso, poiché innanzitutto un piano per il dopo, se anche ci fosse, non inciderebbe sull’adesso; un tale piano sarebbe comunque inattuabile, nella condizione attuale di continui combattimenti, sempre ammesso che sia possibile attuarne uno contro la volontà della Resistenza…
La realtà è che le formazioni combattenti palestinesi, che certamente hanno subito perdite, sono però ancora in grado di operare su tutto il territorio. Ovvio che la loro tattica sia essenzialmente quella di opporre resistenza quando l’IDF cerca di penetrare in una nuova area [5], di ritirarsi quando la pressione diventa troppo forte, per poi tornare a colpire le truppe di presidio, e soprattutto a riprendere il pieno controllo del territorio quando l’IDF si ritira.
Fondamentalmente, l’esercito israeliano non ha abbastanza uomini (e mezzi) per una occupazione stabile dell’intera Striscia, e se pure li avesse il livello di perdite si farebbe velocemente insostenibile, poiché i combattenti hanno facile gioco nel tendere agguati ed imboscate. In fondo, “si tratta del conflitto più intenso che Israele abbia combattuto negli ultimi quattro decenni, e il più lungo che abbia mai combattuto a Gaza” [6].
Secondo le cifre ufficiali, l’esercito israeliano avrebbe avuto 300 morti e circa 4.000 feriti, a Gaza. Ma, a parte l’ovvia censura che qualsiasi esercito applica in questi casi, c’è anche qualcosa di intrinseco che non torna. Il rapporto standard tra feriti e caduti, in condizioni di combattimento, è mediamente di 3/4 a 1, quindi se i morti fossero davvero 300 i feriti dovrebbero essere intorno ai 1.500. Viceversa, se i feriti sono 4.000, i morti dovrebbero essere un migliaio. Oltretutto, gli scontri veri e propri tra esercito e combattenti della Resistenza sono abbastanza pochi, nella maggior parte dei casi si tratta – come si è detto – di agguati ed imboscate, quando i militari si muovono da un punto all’altro, o quando sostano da qualche parte. Il che significa che, semplicemente, sono più esposti.
A conti fatti, ed anche basandosi su alcuni dati emersi sulla stampa israeliana, non è irragionevole pensare che il conteggio dei feriti e degli inabili sia di almeno 10.000, e quello dei morti tra mille e duemila.
Secondo alcuni ufficiali sentiti dal NYT, un cessate-il-fuoco ed almeno un parziale ritiro da Gaza, rappresentano una mossa “necessaria per aiutare l’esercito a riprendersi”; i militari “hanno meno munizioni, meno pezzi di ricambio, meno energia”, “funzionari e ufficiali hanno confermato che l’esercito era a corto di proiettili. Secondo molti funzionari, l’esercito non dispone nemmeno di pezzi di ricambio per i suoi carri armati, i bulldozer militari e i veicoli blindati”, e addirittura “alcuni carri armati a Gaza non sono caricati con la piena capacità dei proiettili che solitamente trasportano, poiché l’esercito cerca di conservare le sue scorte nel caso in cui scoppi una guerra più grande” [7].
Anche se è vero che l’intensità dei combattimenti, rispetto alla prima fase dell’invasione, è diminuita, per altri versi si può dire che siano diventati più mortali. Anche solo limitandosi agli episodi più clamorosi, che la censura militare non riesce a bloccare del tutto, è innegabile che negli ultimi due mesi almeno ci siano stati numerosi episodi in cui l’IDF ha dovuto registrare perdite significative.
E ovviamente la situazione non può che peggiorare, vista il crescente logoramento, psicologico e concreto, che l’esercito sta affrontando. Di questo sono consapevoli i vertici militari, che sembrano avere una visione complessiva del quadro generale assai più chiara e completa di quella del governo. E quando i comandi delle forze armate raggiungono la consapevolezza che la vittoria è impossibile, la guerra è già persa.
Il dramma della situazione è che, come si diceva, i colonialisti sionisti non hanno una madrepatria verso cui ritirarsi. Per la gran parte di loro, almeno, non c’è altra scelta che restare o affrontare una nuova diaspora. Quindi resteranno, e quanto più avvertiranno che le fondamenta del loro stato vengono scosse, tanto più diventeranno feroci. La guerra ha acutizzato tutte le contraddizioni preesistenti, e ne ha prodotte di nuove, al punto che oggi lo stato ebraico è attraversato da numerose fratture (governo vs militari, governo vs Shin Bet [8], governo vs haredim [9]…) che lo scuotono dalle fondamenta.
A sua volta il governo, comunque votato dalla maggioranza dei cittadini, non può recedere, non ha un terreno (politico) su cui ritirarsi. Il fanatismo messianico della sua ala più radicale, e l’interesse personale di Netanyahu (che teme lo attenda il carcere), creano un mix pericoloso, che paralizza l’azione politica, e costringe ad insistere sulla strada di un conflitto permanente – che però la società israeliana non può reggere.
Da qui la necessità di alimentare la guerra, e di rilanciarla per nasconderne il fallimento. Per questo, contro ogni logica militare, tutto sembra spingere verso l’allargamento del conflitto ad una dimensione (quantomeno) regionale [10].
Andare allo scontro con Hezbollah – quindi con l’intero Asse della Resistenza, e con l’Iran probabilmente – diventa al tempo stesso una via di fuga ed una catarsi.
Nonostante il massacro genocida della popolazione palestinese di Gaza, anzi proprio perché questo c’è e rappresenta l’essenza dell’azione militare israeliana, la verità indicibile è che la guerra contro la Resistenza palestinese è perduta; e perdere questa guerra significa perdere la capacità di deterrenza, significa la sconfitta del progetto politico sionista. In effetti, è l’anticamera di uno sconvolgimento geopolitico straordinario, che distruggerà i secolari equilibri del dominio colonialista europeo-occidentale sull’intero Medio Oriente.
Per cercare di eludere questa terribile verità, il regime israeliano è disposto a rischiare lo schianto in una nuova guerra, più grande e più devastante, da cui comunque non potrà uscire vittorioso. Come scrive l’analista francese Thierry Meyssan, “non c’è dubbio che se Hezbollah dovesse affrontare Israele da solo, senza l’intervento degli Stati Uniti, distruggerebbe le Forze di difesa israeliane (FDI) in pochi giorni. Non sappiamo cosa accadrebbe se il Pentagono andasse in aiuto del suo storico alleato” [11].
Una guerra libanese, quindi, forse servirebbe a nascondere per un po’ la sconfitta in quella gazawi, ma a prezzo di un disastro di ben altre dimensioni. Perché una cosa è certa, “l’equilibrio delle forze è mutato. Non è più reversibile, né a breve né a medio termine. Da questo punto di vista è stupefacente vedere la NATO comportarsi come fosse ancora padrona del mondo. Questa ostinazione renderà la sua caduta ancora più dolorosa” [12]. Basta sostituire Israele a NATO, e l’assioma mantiene tutta la sua validità.
Secondo Meyssan, per gli Stati Uniti – che rischiano di restare strategicamente travolti dalla follia messianica dell’alleato – l’unica soluzione razionale sarebbe indurre un colpo di stato a Tel Aviv. A suo avviso, ci sono già almeno un migliaio di ufficiali in latente rivolta [13] su cui si potrebbe fare leva. Ma per quanto l’esercito goda di grande autorevolezza nella società israeliana, un golpe sarebbe difficile da digerire.
E in ogni caso questo potrebbe eventualmente cambiare l’indirizzo a breve termine, ma nulla potrebbe rispetto ai termini di fondo della questione. Raggiungere un cessate-il-fuoco, ottenere uno scambio di prigionieri, potrebbe servire a guadagnare tempo, ma darebbe un risalto ancora maggiore alla vittoria della Resistenza, lasciando inalterato il quadro generale. Entrambe questi passaggi, infatti, sarebbero possibili soltanto in un contesto più ampio, che preveda una mediazione internazionale e garanzie di sicurezza (ricostruzione, ripristino delle condizioni alimentari ed igienico-sanitarie basilari…) assicurate anche da una forza di interposizione. Tutte cose che rappresenterebbero ulteriori cunei piantati nel fianco del già traballante progetto sionista. E che oltretutto farebbero da ulteriore detonatore alle altre aree di crisi interne allo stato ebraico, Golan siriano ed area delle fattorie Sheeba libanesi occupate, ma sopra ogni cosa la Cisgiordania [14].
Un colpo di stato a Tel Aviv, pertanto, se pure fosse realizzabile, non potrebbe risolvere le contraddizioni ed i problemi strutturali dello stato ebraico e del suo progetto coloniale, ma sicuramente aggiungerebbe nuovo veleno nel corpo malato della sua società. Semplicemente non c’è una via d’uscita che salvi il sionismo da se stesso, così come non c’è una via d’uscita che salvi Israele dal suo Vietnam. La sua unica salvezza sarebbe cominciare a capire che la sola prospettiva praticabile è quella sudafricana, ovvero la fine dell’apartheid e la costruzione di uno stato laico e democratico di Palestina. Ma la società israeliana – e forse l’intero occidente – non è ancora pronta per questo, ed affinché lo diventi sarà necessario lo shock di una dura sconfitta militare. Ciò a cui, paradossalmente, stanno lavorando proprio i sionisti più oltranzisti.
1 – Il concetto deriva da una famosa citazione di Mao Zedong (“Il popolo è come l’acqua e l’esercito come il pesce”), tratta da “Aspetti della lotta cinese contro il Giappone”. L’esercito cui si riferisce Mao è quello guerrigliero. Furono soprattutto gli ufficiali francesi, durante le guerre di liberazione indocinese ed algerina, a studiare i testi rivoluzionari e ad elaborare, conseguentemente, teorie controrivoluzionarie.
2 – Ne “La battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo, Mathieu è il comandante dei paracadutisti francesi che cerca di contrastare i combattenti del FLN, pur consapevole che alla fine saranno comunque loro a vincere.
3 – “Israeli Generals, Low on Munitions, Want a Truce in Gaza”, Ronen Bergman, Patrick Kingsley and Natan Odenheimer, New York Times
4 – Ibidem
5 – Anche se è poco sottolineato, tanto che si finisce col presumere che la realtà sia opposta, in effetti l’esercito israeliano ha limitato la sua penetrazione nella Striscia ad alcune aree specifiche, effettuando poi incursioni in altre zone limitrofe. Ma ci sono aree in cui le truppe di terra non hanno mai messo piede, e sostanzialmente (dopo otto mesi di guerra) l’IDF ha il controllo di alcune aree abbastanza limitate: il cosiddetto corridoio Philadelphia, lungo il confine con l’Egitto, il corridoio Netzarim, cioè l’asse che taglia orizzontalmente la striscia, ed alcune zone di Rafah e di Gaza City. Gran parte del territorio vede invece una presenza temporanea ed occasionale dell’esercito, quando viene rilevata un’attività più intensa della Resistenza.
6 – “Israeli Generals, Low on Munitions, Want a Truce in Gaza”, Ibidem
7 – Ibidem
8 – Il Ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha attaccato duramente lo Shin Bet – il servizio di sicurezza interno – sulla questione dei prigionieri palestinesi (le condizioni della loro detenzione, il rilascio di alcuni di loro). Mentre lo Shin Bet ha manifestato preoccupazione per grave deterioramento delle condizioni nelle carceri israeliane (peraltro già ordinariamente molto dure) temendo che possano creare ulteriori problemi internazionali ed innescare rivolte, il ministro lo ha accusato di diffondere notizie false, nonché di essere troppo morbido verso i palestinesi, che a suo avviso dovrebbero essere tutti giustiziati.
9 – Gli Haredim sono gli ebrei ultraortodossi, la cui vita è consacrata a seguire rigorosamente i precetti della Torah, e che in virtù di questa loro eccezionalità erano stati sinora esclusi dall’obbligo di servire nell’esercito. Una legge recentemente approvata, però, li ha privati di questo privilegio, pertanto gli studenti delle Yeshiva – le scuole religiose ebraiche – dovrebbero presentarsi ai centri di arruolamento. Ma gli haredim, che costituiscono il 13/14% della popolazione, si rifiutano e manifestano continuamente, spesso scontrandosi duramente con la polizia.
10 – Sul tema, cfr. “La guerra inevitabile”, Enrico Tomaselli, Giubbe Rosse News
11 – “Israël provoquera-t-il un cataclysme?”, Thierry Meyssan, Voltairenet.org
12 – Ibidem
13 – “State Dept. expert on Israeli-Palestinian affairs resigns amid Gaza crisis”, John Hudson, The Washington Post
14 – Anche se, comprensibilmente, il focus dell’attenzione mondiale è sulla Striscia di Gaza, in realtà il cuore del disegno coloniale sionista è nella West Bank. È qui che si trovano decine e decine di insediamenti coloniali, che in aperta violazione del diritto internazionale continuano anche adesso ad espandersi (l’altro ministro di ultra-destra, Bezalel Smotrich, è attualmente promotore di una nuova ondata di insediamenti). È qui che l’esercito israeliano conduce raid quotidiani contro le città palestinesi; è qui che per le strade di Nablus, di Tulkarem, di Ramallah, di jenin, si è rapidamente passati dai riot contro l’IDF alle azioni di guerriglia armata. È qui, in fin dei conti, il vero baricentro (anche elettorale) della politica israeliana.
FONTE:https://giubberossenews.it/2024/07/03/gaza-e-il-vietnam-di-israele/
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