Dopo Haniyeh, verso la guerra infinita
DA LIMES (Di Umberto De Giovannangeli)
L’uccisione del capo politico dell’organizzazione militare palestinese conviene soprattutto a Yahya Sinwar, esponente dell’ala irriducibile. Hamas ha un nuovo “martire” da esaltare, Netanyahu uno “scalpo” da esibire. Perché i negoziati sono rimandati.
L’uomo che più ha esultato alla notizia dell’uccisione di Ismail Haniyeh non sta a Gerusalemme, ma in un tunnel di Gaza: il suo nome è Yahya Sinwar. Era cosa risaputa a tutti, anzitutto ai servizi di intelligence israeliani e arabi, che tra i due non corresse buon sangue. Si odiavano. E competevano per la guida, quella vera, non formale, di Hamas.
Sinwar è espressione del fronte interno, legato a triplo filo con le Brigate Ezzedin al-Qassam, l’ala militare del movimento islamista palestinese. Haniyeh era il referente politico all’estero, soprattutto a Doha e tra le petromonarchie sunnite del Golfo. Se applicassimo categorie politiche tradizionali, modulate dentro l’eterno conflitto israelo-palestinese, Haniyeh rappresentava l’ala “negoziatrice” di Hamas, Sinwar gli irriducibili della resistenza armata all’”entità sionista”. Sia chiaro: Haniyeh non avrebbe mai negoziato – non ne aveva la forza né il mandato – un accordo di pace con lo Stato ebraico. Ma una hudna (tregua) di lungo periodo, questo sì, era possibile.
Proseguire la guerra, a media intensità, contro Hamas a Gaza e, sul fronte Nord, contro Hezbollah, rappresenta una sorta di assicurazione sulla vita politica di Netanyahu e del suo governo. Hamas reagirà, lo farà anche Hezbollah e ancor più gli huti yemeniti, ma sempre dentro una dimensione gestibile per chi ha fatto della guerra uno strumento di propaganda interna. Hamas ha un nuovo “martire” da esaltare. Netanyahu uno “scalpo” da esibire.
Quanto all’Iran: aver fatto fuori il capo dell’ufficio politico di Hamas a Teheran, il giorno dopo la cerimonia di investitura del nuovo presidente “riformatore”, Masoud Pezeshkian, è una sfida a cui la Guida suprema Ali Khamenei reagisce alzando i toni contro lo “Stato terrorista sionista”. E avverte che ci sarà una rappresaglia. Khamenei glorificherà lo shahid Haniyeh, proverà ad alzare di qualche grado la guerra per procura contro Israele, ma senza superare la linea rossa dello scontro diretto.
Infine, si conferma l’impotenza della cosiddetta comunità internazionale, ma soprattutto di ciò che resta dell’iperpotenza (militare) mondiale, gli Stati uniti, sia nella versione democratica sia in quella trumpiana.
Resta un Israele lacerato al suo interno ma ancora più dipendente dal premier più longevo della sua storia. Resta, anzi aumenta, il dolore dei familiari degli ostaggi ancora in cattività a Gaza. L’uccisione di Haniyeh blocca i negoziati in corso. E il fattore tempo è cruciale in questa tragica vicenda.
Netanyahu e i suoi ministri lo sanno molto bene, ma non se ne curano. Per loro, la morte di quei cittadini israeliani ancora nelle mani di Hamas e della Jihad islamica è un “danno collaterale” di una guerra giusta, di difesa. Una guerra che, nella narrazione di Bibi, può chiudersi soltanto con una vittoria totale su Hamas.
Che questa sia impossibile è cosa risaputa, a Washington come a Gerusalemme, ma poco importa quando la propaganda sommerge la realtà. E in questa narrazione l’eliminazione di Ismail Haniyeh rientra a pieno titolo.
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