Per un’ascesi barbarica
DA LA FIONDA (Di Stefano Isola)
Recensione a Ždanov. Sul politicamente corretto di Alberto Giovanni Biuso
Un nuovo e insidioso fanatismo morale pervade l’Occidente. Originatosi negli Stati Uniti d’America va diffondendosi ovunque, instillando dimenticanza di sé, odio per la diversità e rigetto della nostra stessa storia culturale, con le sue istanze fondative e le sue contraddizioni, e istituendo quella che appare ogni giorno di più come una tirannide tra le più velenose, animata da una pretesa che nessun potere, neanche il più risoluto e feroce, aveva sinora messo in atto: quello della costruzione di mentalità e schemi di comportamento adeguati al Bene che permea di sé il Mondo Nuovo, attraverso l’interiorizzazione del divieto di alcuni pensieri, parole e sentimenti e l’acquisizione di altri, “politicamente corretti”.
I fenomeni collettivi che vanno sotto la denominazione di woke e di cancel culture, insieme ad esiti apparentemente bislacchi come gli abbattimenti di statue o la censura nell’insegnamento scolastico di poeti e pensatori del passato in nome di dogmi del presente, sedimentano ed alimentano l’annullamento e il superamento dei dati di realtà – tra cui la distinzione biologica tra i sessi, ma anche tra salute e malattia, tra materico e digitale, tra reale e virtuale – spingendo l’intera cultura occidentale nella trappola di un narcisismo egotico in cui tutti possono essere tutto nello stesso momento in cui sono portati benevolmente per mano verso il nulla, verso la perdita di ogni differenziazione culturale ed esperienziale e dunque di ogni significato effettivo. E proprio nella misura in cui si dissolve il confine tra verità e finzione, tra ciò che si dà e ciò che si inventa, tra ciò che si produce naturalmente e ciò che viene artificialmente simulato ed implementato, si configura un macroscopico processo di ingegneria sociale assegnato alla decostruzione delle dimensioni umane prodotte dalla biologia e dalla storia, ed al loro oltrepassamento verso la dimensione del transumanesimo. Un processo che mira a far accettare l’idea che autorealizzazione significhi sottrazione ed esternalizzazione di ogni cosa: pensiero, linguaggio, riproduzione, cura, educazione, lavoro. E su questa scia si ridefinisce completamente la questione dei diritti, delle discriminazioni, del significato della storia e della cultura, in un quadro di generale infantilizzazione del corpo sociale, nel quale i cittadini, gli studenti, le persone, sono ricondotte ad uno stadio di bambini capricciosi e “fragili”, sui quali, oltre alle istituzioni e alle loro propaggini tecnologiche, è chiamato a vigilare il potere di un conformismo tanto pervasivo quanto suscitatore di finte trasgressioni, ben evidenziate dalle cerimonie di apertura e chiusura delle ultime Olimpiadi parigine.
Al tentativo di pensare questo processo di omologazione culturale ed ingegneria sociale «con gli strumenti del concetto e della sua libertà», Alberto Giovanni Biuso ha dedicato Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, Viagrande-Catania 2024), un libro agile e godibile quanto denso e coraggioso. Un libro che per alcun aspetti fa seguito al precedente Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, Viagrande-Catania 2022), che Biuso aveva dedicato a quell’espressione assai emblematica del processo che andiamo descrivendo incarnata dalla vicenda Covid19 e dal suo carattere eminentemente mediatico.
«Chi non lascia libere le parole, non rispetterà, alla fine, neppure la libertà delle persone», scrive Biuso (p. 34). Questa semplice verità sembra divenuta ormai irraggiungibile per la gran parte della cultura dominante in Occidente, permeata com’è dallo spirito di Ždanov – alto funzionario sovietico addetto alla propaganda, per molti aspetti omologo al più noto Goebbels – secondo il quale ogni produzione dell’intelletto umano dev’essere subordinata a ciò che la pubblica autorità ritiene un valore benefico. Il politicamente corretto è oggi la forma più grottesca ma al tempo stesso più emblematica dell’incarnazione contemporanea di questo spirito.
Mediaticamente amplificato e generosamente finanziato, tende strutturalmente ad attrarre a sé ogni tema, argomento, istanza culturale, fomentando diffidenza diffusa e divaricazione a livello sociale, soprattutto all’interno delle famiglie. Il che, per altro, è pienamente funzionale all’avvento della “cittadinanza cibernetica”, in cui viene meno ogni tipo di struttura di scambio inter-individuale non mercatista e più in generale non traducibile in un efficientamento “sanitario” del sistema complessivo, un sistema in cui ogni sua componente deve essere operabile in ogni contesto e con modalità costantemente eterodirette.
Già nel primo capitolo del libro, Biuso individua alcuni miti fondatori di questo decostruzionismo sanitario e sociale, come la dissonanza cognitiva, l’oscurantismo antibiologico, l’eliminazione delle differenze, l’ipermoralismo d’impronta religiosa, le cui trame e conseguenze nella realtà collettiva sono poi discusse nei capitoli successivi.
La dissonanza cognitiva, ad esempio, è la dimensione nella quale si coltiva la sempre più diffusa insensibilità alla contraddizione, l’impermeabilità al dubbio, e dunque il crollo di ogni attitudine alla comprensione coerente della realtà. Le sue manifestazioni sono le più varie, dal «doppio ordine di accoglienza del mondo islamico in Europa e di lotta senza quartiere al patriarcato maschile» (p. 17), alla pacifica coesistenza tra la vittimizzazione di minoranze presunte depositarie di diritti speciali e la rimozione autoritaria dei diritti collettivi della comune umanità, fino alla grottesca concomitanza tra, da una parte, le liturgie mediatiche di adorazione del feticcio dei “diritti umani” (cap. 3), in cui si prevedono “commissioni contro l’odio” e conseguenze penali per la mera espressione di sentimenti naturali, comitati etici e agenzie per la protezione delle vittime, e, dall’altra, le politiche di impoverimento e segregazione sociale attuate durante la vicenda Covid19, e, più recentemente, le politiche ferocemente guerrafondaie dei governi occidentali sotto l’ombrello NATO, con gli annessi esercizi di ferocia quotidiana a spese degli inermi e le azioni terroristiche contro i civili compiute alla luce del sole, laddove il vittimismo si palesa come grimaldello per accedere alla brutalità senza confini.
Su tali dissonanze si radica come una pianta infestante il fanatismo morale del nostro tempo, che si avvale, in particolare, dell’umanitarismopoliticamente corretto come strumento di potere perfetto per dominare rendendo desiderabile la propria sottomissione, facendo sentire i dominati parte di un progetto collettivo volto al Bene universale. A questo importante aspetto, alle sue radici storiche, i suoi risvolti sociali, le sue premesse ed implicazioni filosofiche, sono dedicate pagine illuminanti nei capitoli centrali del libro. Vi si chiarisce ad esempio come il wokismo sia interpretabile come uno dei frutti ideologici più perniciosi del liberismo e del capitalismo contemporanei. E che non a caso, dunque, si tratta di un fenomeno sorto nella loro patria, gli Stati Uniti d’America, quale esito di volgarizzazioni decostruzioniste di correnti filosofiche del Novecento europeo: «l’origine teoretica del wokismo può essere individuata nel postmoderno, esattamente in una sua particolare interpretazione per la quale il fatto che ogni forma del sapere sia anche un’espressione di potere conduce all’irrazionale conseguenza che vada demolito ogni edificio di conoscenza, vada negata ogni neutralità/oggettività e il moralismo debba sostituire ogni altra forma di atteggiamento verso il mondo» (p. 35).
Sul piano antropologico, il wokismo attecchisce su un terreno già impoverito dalla cosiddetta cultura di massa e dall’esperienza tecnologicamente assistita da protesi cibernetiche, un terreno caratterizzato, tra le altre cose, dalla perdita della percezione continua del tempo a favore di un eterno presente scandito da un’alternanza caotica di stimolo/reazione ed oblìo, dalla negazione della corporeità e della sensualità a favore di un piacere-scarica indifferenziato, dall’eliminazione della ricerca di riferimenti reali di fronte agli accadimenti, dall’eutanasia della memoria e dal culto del nuovo. Un presente che dunque scorre al fondo degli accadimenti opaco e silenzioso, sistematicamente mediato da una infodemia moralistica all’insegna di valori tanto arbitrari quanto indiscutibilmente “benefici”. Una dimensione totalitaria che richiama da vicino Il mondo nuovo di Aldous Huxley, diffusamente e fertilmente rievocato da Biuso in questo libro.
Ancora, il dare per scontata l’inesistenza di valori obiettivi e di forme naturali essenziali – così donna e uomo diventano concetti astratti, mere sensazioni soggettive, qualcosa di mutevole e riconfigurabile, senza relazione con la realtà dei corpi – e più in generale il primato del moralismo e del velleitarismo teorico sulle strutture del reale, induce una profonda crisi della razionalità, e dunque della consapevolezza della dimensione relazionale della natura umana. L’attacco al λόγος, al parlare/pensare libero e funzionale, attraverso l’imposizione di caratteri alfabetici impronunciabili (asterischi e schwa) e l’autocensura lessicale sempre più spinta, preparano una condizione nella quale per non offendere nessuno sarebbe necessario tacitare ogni espressione verbale e, dunque, smettere di pensare. La perdita della dimensione del tempo storico induce l’azzeramento della stessa intuizione che ci possa essere qualcosa da sottoporre a giudizio in termini razionali. E così la ragione diviene obsoleta, il pensiero diviene mero calcolo delle conseguenze e il mondo in comune diviene mero mezzo per la risoluzione di dissidi interiori e appagamenti psicologici privati, nella ricerca spasmodica dei possibili modi in cui ci si può percepire come vittima.
Per altro, operare chirurgicamente sul linguaggio immaginando di mutare la realtà è un’operazione assimilabile al pensiero magico, operazione che già esibisce i suoi effetti in numerosi contesti collettivi, come la salute pubblica, la scuola, con le sue “carriere alias”, le gare sportive, la guerra. Oggi nei campus americani, dove lo sport è spesso più importante dello studio, accade sempre più spesso che uomini, semplicemente dichiarandosi “donne”, gareggino con loro e vincano premi che altrimenti ben difficilmente otterrebbero. E ciò non è molto lontano dalle narrazioni sulla guerra in Ucraina, che oltre al ruolo di aperte menzogne per legittimare una guerra per procura della NATO contro la Federazione Russa, rivelano aspetti apotropaici, come se parlando di vittoria la si potesse realmente attualizzare.
Su questo terreno si consuma la dissoluzione della politica, della ricerca della verità e della stessa razionalità scientifica a favore di un’ingiunzione moralizzante con caratteristiche marcatamente irrazionali, che si incardina e si compenetra con l’ingiunzione tecnica e le tendenze transumanistiche implementate dalla cosiddetta intelligenza artificiale.
Ed è così che «le post-verità (o più semplicemente le bugie) del potere politico e mediatico contemporaneo si inscrivono dentro l’ampia palude del politicamente corretto e della cancel culture, la cui radice è l’odio per le differenze, il bisogno di una ortodossia morale ed esistenziale di fronte alla quale la stratificazione della storia, la pluralità dei linguaggi, la bellezza dell’arte e del pensiero devono essere annichilite in nome del Bene supremo dell’uniformità» (pp. 55-56).
Questo di Biuso è un libro necessario per orientarsi nella situazione di barbarica decadenza in cui viviamo, e lo è anche per la sua capacità, assai rara nel quadro degli attuali tentativi di ridefinizione degli strumenti concettuali per la critica del presente, di realizzare generosamente l’auspicio del suo stesso autore: scrivere un testo che sia non soltanto una critica al wokismo dilagante, ma un più generale «tentativo di ragionare sulla difficoltà o persino sulla impossibilità di buona parte della cultura dominante di pensare il mondo» (p. 9). In tale ampia prospettiva il libro di Biuso dedica ricche ed ispirate disamine a questioni fondamentali come la dissoluzione della scuola e dell’università, e l’oscurantismo antibiologico della cosiddetta gender theory, in capitoli che meriterebbero ciascuno una recensione a parte.
La questione generale del politicamente corretto e della cancel culture, lungi dall’essere presentata come una curiosità sociologica, diviene in queste pagine parte integrante di un processo storico secolare, i cui esiti si palesano nell’affermarsi di una situazione che può essere adeguatamente definita solo con ossimori quali “democrazia totalitaria” o “dittatura liberale”, e le cui radici Biuso individua nell’assimilazione da parte della modernità liberale del progetto politico giacobino e del pensiero politico e pedagogico di Jean-Jacques Rousseau. Secondo tale pensiero, per altro privo di qualunque base storica ed antropologica, l’umano, con le sue bassezze e i suoi istinti aggressivi, è una conseguenza di norme e regole, modificate le quali attraverso un’opportuna educazione si potrà cambiare quanto ordinariamente accettato come dato naturale della specie, facendo emergere finalmente la sua primigenia innocenza e bontà. Quest’idea informa di sé l’intero processo – post-illuminista, liberista, relativista, individualista, progressista – che ha sistematicamente operato per la demolizione di ogni distinzione essenziale, ogni principio ordinatore, ogni tradizione, ogni costume, per poi incarnarsi nell’ideologia e nella pedagogia comportamentista, con «la riduzione degli umani a macchine smontabili e rimontabili a piacere, dei quali si può fare tutto ciò che si vuole anche in ambito sessuale e biologico, se vengono adeguatamente educati e adeguatamente tecnicizzati» (pp. 126-127).
E il ruolo di educatore, storicamente assegnato alla figura dell’esperto, viene oggi assunto in misura crescente dagli algoritmi di una ragione artificiale con funzioni eminentemente selettive: come in una biblioteca digitalizzata vengono automaticamente selezionati i libri che non contengono “bias storico-culturali” – realizzando così un rogo dei libri sotto mentite spoglie – così l’intera società umana, intrinsecamente affetta da “imperfezioni” di ogni tipo – credenze, opinioni, legami affettivi, azioni inaspettate, ecc. – può essere emendata e gestita attraverso una riprogrammazione algoritmica complessiva dei comportamenti, degli accessi, delle relazioni, che interviene in profondità come strumento di manipolazione e distruzione/ricostruzione dell’umano.
Dinnanzi a tutto questo ci troviamo in uno stato di ipnosi collettiva, in cui anche molte persone che si credono emancipate dai catechismi del potere agiscono in realtà onorando servilmente una nuova fede, negativa e paradossale, che non serve a determinare chi siano i “buoni” ma è pienamente sufficiente ad individuare e colpire i “cattivi”, discriminando i presunti discriminatori, i critici e i “retrogradi”, con modalità censorie spesso analoghe a quelle con cui la ragione artificiale opera nella selezione di correlazioni statistiche sui big data. Di fronte ad una realtà che, comunque la si voglia guardare, sta procedendo in senso brutalmente distruttivo, smentendo ogni possibile fantasia progressiva, anche molti presunti intellettuali, invece di riconfigurare pazientemente le proprie categorie interpretative, preferiscono prendersela, con toni moralisticamente aggressivi, con chi esprime giudizi critici coerenti, come se la realtà non contasse più nulla, e restasse solo il desiderio come criterio. L’ambiente indispensabile per tale esternazione è oggi, in modo pressocché esclusivo, la struttura liquida e bidimensionale del web, in cui tutto può continuamente essere gettato in faccia all’altro, in un’intemperanza comunicativa che riflette e al tempo stesso conferma la dinamica della società della trasparenza e della sorveglianza tecnologica, dove il segreto, la memoria, l’elaborazione personale, sono già di per se stessi indizi di colpevolezza. La conseguente profonda crisi di ogni istanza realmente democratica ha tra le sue cifre più significative appunto «il tramonto della figura dell’intellettuale inteso come soggetto collettivo che sintetizza quanto si muove nel corpo sociale e a questo scopo lo restituisce, dopo averlo filtrato con gli strumenti del proprio sapere» (p. 20). E così, ci ricorda Biuso, per comprendere non solo la catastrofe ma anche le potenzialità del presente, ridando respiro alla nostra storia culturale, «è opportuno tornare alle origini della figura dell’intellettuale nel mondo europeo, vale a dire ai filosofi greci, e assumere un impegno diverso da un engagement che non ha più spazio fecondo di critica. Tornare quindi a una teoria, che è, letteralmente, capacità di vedere ciò che accade al di là degli schermi della società dello spettacolo e dei social network. E dunque essere, in questo modo, figure della conoscenza e non del potere» (p. 23). In questa prospettiva, ci ricorda ancora Biuso, nel mettere a nudo l’attuale dramma dell’Europa «sono più necessarie e preziose che mai le filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche, come quella di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai Gutmüthigen Mitleidigen, dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose» (p. 57). I buoni e compassionevoli sono infatti da sempre le figure del colonialismo, «dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari». E oggi le dinamiche colonialiste che hanno caratterizzato le precedenti fasi storiche del dominio del capitale occidentale sul mondo, non potendo più esercitarsi sull’esterno, si rivolgono al suo interno, primariamente con le modalità omologatrici, moralistiche e totalitarie descritte da Biuso. Ritrovare nell’Europa la nostra radice, la nostra casa, la libertà e la bellezza dell’abitarvi, significa dunque rinnovare l’invito ad una “ascesi barbarica”, come quella auspicata da Adorno negli anni ’40 del secolo scorso, quando nei suoi Minima moralia scriveva: «oggi, nella cultura di massa, progresso e barbarie sono così strettamente intrecciati, che solo un’ascesi barbarica contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire il non-barbarico. […] I mezzi più antichi, non rivolti alla produzione di massa, acquistano nuova attualità: l’attualità di ciò che non è incorporato, dell’improvvisazione».
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