Italia sotto shock: il paese rientra a scuola, ma invece dei prof ci trova Flavio Briatore
di OTTOLINA TV (Letizia Lindi)
Oltre 7 milioni di studenti e poco meno di 700 mila insegnanti (oltre i quasi 200 mila tra personale amministrativo, tecnico e ausiliario); da stamattina si rimette completamente in moto quella che potremmo definire, in assoluto, la più grande industria del paese ed anche quella che -probabilmente più di ogni altra – è indicativa del nostro stato di salute e del nostro grado di civiltà: l’industria della conoscenza o, come la definisce il nostro Federico Greco, l’industria della d’istruzione pubblica (con la d davanti). La scuola che infatti finiamo di ripopolare con oggi è una scuola che, in ossequio ai dettami del neoliberismo più fondamentalista, è stata e sarà sempre di più spogliata del suo ruolo fondamentale: la formazione di una cittadinanza consapevole che abbia tutti gli strumenti per partecipare attivamente e consapevolmente alla vita pubblica; un progetto di lunga durata, coltivato meticolosamente nel tempo, che rappresenta uno dei pilastri fondamentali di quella che noi definiamo, appunto, la Controrivoluzione Neoliberista – che, in soldoni, significa la guerra delle classi dominanti contro la democrazia. Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori e, con questo video, Ottolina Tv oggi ha deciso di salutare il ritorno sui banchi di scuola dei nostri ragazzi e dei miei colleghi ricostruendo, passo dopo passo, gli snodi fondamentali di questo crimine contro il popolo italiano che è stata la devastazione della scuola pubblica e cercando di fare una proposta concreta per riprendercela.
Il termine scuola significa oggi “luogo nel quale si attende allo studio”; in realtà, però, deriva dal latino schŏla che, a sua volta, deriva dal greco scholé e che in origine significa – udite, udite – tempo libero, un po’ come l’otium dei latini: quella parentesi dalle fatiche quotidiane durante la quale ci si dovrebbe poter occupare liberamente di coltivare le proprie predisposizioni intellettuali senza necessariamente avere secondi fini, giusto per il gusto di farlo. Un bel lusso che, infatti, è sempre stato appannaggio di pochi, almeno fino a quando non è arrivata la nostra Carta Costituzionale; da allora, sulla carta, quel lusso diventava un diritto di tutti, senza distinzione di classe. L’istruzione pubblica dovrebbe essere, appunto, l’istituzione preposta a garantire a tutti questo privilegio: tredici anni di scuola durante i quali conoscere il mondo e la sua storia e quindi, in sostanza, noi stessi, senza alcun riferimento all’applicazione di queste conoscenze nel mondo del lavoro: un obiettivo che non è soltanto ovviamente equo e giusto, ma è anche perfettamente razionale. “E’ nell’interesse della produzione che non tutti siano ingegneri, medici, professori od operai specializzati, e che vi sia un gran numero di manovali dell’industria o di manovali dell’agricoltura” scriveva ad esempio Elio Vittorini nel 1945; “Ma è nell’interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi di fronte ai libri, di fronte alle opere di arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico e il professore”. Facciamo ora un balzo nel tempo di un’ottantina di anni. 2023 ; relazione della Corte dei Conti a commento del rendiconto generale dello Stato: in sette anni i contratti a tempo dei docenti sono passati da 135mila a 232 mila (un bel +72%) e ora si va verso un nuovo record di 250 mila. Ed è giusto uno degli innumerevoli dati oggettivi che potremmo sciorinare per dare un’idea plastica della devastazione che è stata scientemente portata a compimento; se nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale le classi dominanti si sono viste sottrarre molti dei loro profitti (e anche dei poteri) a favore dei sistemi pubblici di protezione sociale, dalla fine degli anni settanta ci troviamo di fronte alla messa in atto di una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto. Grazie ad una strategia che unisce interventi economici e culturali, i diritti garantiti dal sistema sociale vengono mano a mano trasformati in opportunità da conquistarsi – o, meglio, da comprare; insomma: da studenti (e cittadini), a clienti. Dalla scuola emancipatrice alla scuola della sottomissione il passo è breve, ma per arrivare alla completa trasmutazione genetica sono necessari alcuni passaggi fondamentali, prima di tutto la delegittimazione della scuola pubblica in quanto tale.
Il primo assalto in grande stile risale ormai all’inizio degli anni ‘80, gli anni della grande controrivoluzione avviata in tandem sulle due sponde dell’Atlantico da Reagan e Thatcher; nel 1983 viene pubblicata, da parte dell’amministrazione federale statunitense, un’analisi sullo stato della scuola dal titolo quanto mai emblematico: A nation at risk, una nazione a rischio. Il rischio sarebbe proprio causato dalla scuola pubblica che, così come è stata riformata durante l’era della democrazia di massa, non soddisfa più le esigenze dell’accumulazione capitalistica: “Se una potenza nemica avesse tentato d’imporre all’America il livello mediocre di prestazioni scolastiche che conseguiamo ora, probabilmente saremo indotti a considerare un tale gesto come un atto di guerra (…)” si legge nel rapporto; “La nostra società e le sue istituzioni scolastiche hanno perso di vista gli scopi fondamentali della scuola”. Non è da meno la Lady di ferro, che già nel 1970 si era conquistata il nomignolo di milk snatcher, “ruba-latte”: aveva imposto l’abolizione del latte gratuito nelle scuole per i bambini di età compresa tra i 7 e gli 11 anni. Coerentemente a questo simpatico esordio politico, da Primo Ministro la Thatcher imputa alla scuola e all’università la responsabilità della mancata crescita e stabilità della Gran Bretagna: il sistema scolastico britannico, a suo avviso, non sarebbe in grado di preparare una forza lavoro motivata, qualificata e disciplinata; viene così elaborato il famigerato Education Reform Act . L’idea è semplice e, tutto sommato, apparentemente anche innocua: come ogni tassello della gigantesca macchina che permette la produzione e la riproduzione sociale, anche la scuola deve essere valutata e i finanziamenti devono essere distribuiti a seconda degli esiti di questa valutazione; semplice no? Indolore. Insomma… Come sempre, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli: chi decide, infatti, chi deve essere valutato e chi valuta? E chi ne stabilisce i criteri? Alla fine il modello adottato funziona così: un comitato di esperti introduce alcuni criteri per la valutazione degli studenti; a conclusione di ciascun ciclo, gli studenti vengono sottoposti a degli esami, predisposti e gestiti dall’esterno. In base ai risultati ottenuti vengono stilate quelle che vengono definite le league tables, che valutano l’efficacia pedagogico-didattica delle singole scuole e, in base a questa valutazione, si determina il livello dei finanziamenti e anche il grado di autonomia concessa ai singoli istituti per gestirli. E’ la logica fondativa della dittatura liberista: dare di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già meno. L’idea perversa, ma geniale, della Thatcher consiste nel coinvolgere in questo processo di divisione tra scuole di serie A e di serie B l’intera società e responsabilizzare così i genitori, che devono imparare a fregarsene della società nel suo complesso e a guardare solo ed esclusivamente al loro orticello, meglio se in competizione con quello degli altri: “Noi crediamo che tu possa diventare un cittadino responsabile se sei tu che prendi le decisioni” dichiarava la Thathcer durante la presentazione della riforma; “non quando queste vengono prese da qualcun altro al posto tuo. Ma sotto i governi laburisti, naturalmente, venivano prese da altri. Prendiamo ad esempio l’educazione. (…) Sotto il socialismo le opportunità e le eccellenze nella nostra scuola pubblica sono state degradate. E naturalmente ai genitori questo non piace”.
Gli anni 80 ci lasciano, così, una bella eredità: la formazione di un ampio fronte bipartisan che guarda con favore a un sistema scolastico interamente orientato alla prestazione: la questione non è più il raggiungimento dell’eguaglianza democratica, ma la competizione per determinare dove sta l’eccellenza, e lasciare indietro tutti gli altri. La ricreazione è finita titolava nel 1986 un suo famoso libro il ricercatore svizzero Norbero Bottani; il messaggio è chiaro: è arrivato il momento di dismettere quel riformismo progressista che negli anni ‘60 e ‘70 aveva provato a spingere sull’acceleratore dell’uguaglianza e della democrazia in ambito scolastico e riconfigurare la scuola come un’agenzia di formazione per produttori dotati dell’equipaggiamento cognitivo necessario alle aziende. Si trattava cioè, sostanzialmente, di trasformare la scuola in produttori di affari, di lavoro, di negozio che, per tornare al latino, deriva da negotium e, cioè, “nec otium”: la negazione di otium e, quindi, la negazione di ciò che dovrebbe essere la scuola. Per incontrare il secondo snodo fondamentale di questa lunga controriforma bisognerà poi arrivare al decennio successivo; siamo nel 1992 e sulla rivista statunitense The Nation viene pubblicato uno storico articolo: Un ristretto cerchio di amici – si intitola – La nuova scuola americana dell’era Bush. Poco prima, infatti, l’allora presidente George H. W. Bush, insieme a un nutrito gruppo di dirigenti di grandi aziende, aveva dichiarato pubblicamente in pompa magna di aver finalmente trovato un rimedio contro il presunto inesorabile declino delle scuole statali: a salvare le future generazioni di studenti americani sarebbe stato – pensate un po’ – il mondo imprenditoriale; viene così fondata la New American Schools Development Corporation, una società privata che aveva lo scopo di promuovere e finanziare progetti miranti allo sviluppo di un nuovo modello di istruzione. Sulla carta, si trattava di finanziare con fondi privati alcuni gruppi di ricerca che avrebbero elaborato progetti innovativi da sperimentare nelle scuole; nei fatti, si trattava di promuovere la creazione delle cosiddette charter schools: istituti scolastici ai quali veniva garantita un’ampia autonomia organizzativa e che diventavano responsabili non più di fronte a commissioni scolastiche formate dai professionisti dell’educazione e della formazione, ma ai fantomatici stakeholders, gli sponsor e le famiglie degli studenti. Le charter schools, pur ricevendo la maggior parte dei loro fondi comunque sempre dallo Stato o dalle amministrazioni locali, non sono gestite dallo Stato come le altre scuole pubbliche, ma da organizzazioni private, con o senza fini di lucro; e così, in un battibaleno, ecco che uomini politici, avvocati e persino direttori di banca vengono inseriti in posizioni apicali all’interno del sistema scolastico statale.
E l’Europa non poteva certo restare indietro: già nel 1989 lo European Round Table of Industrialist, la potentissima lobby degli industriali europei, aveva pubblicato un rapporto dal titolo Istruzione e competenza in Europa ; “L’istruzione e la formazione” si legge nel rapporto “sono investimenti strategici vitali per la competitività europea e per il futuro successo dell’impresa”, ma “l’insegnamento e la formazione, purtroppo, sono sempre considerati dai governi e dagli organi decisionali come un affare interno. L’industria ha soltanto una modestissima influenza sui programmi didattici, che invece devono assolutamente essere rinnovati insieme ai sistemi d’insegnamento”. Il rapporto sottolineava infatti come gli insegnanti abbiano “una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari, della nozione di profitto (…) e non capiscono i bisogni dell’industria”: ecco così che 6 anni dopo, nel 1995, viene pubblicato il libro bianco dell’Unione europea che traduce pedissequamente le richieste degli industriali; un intero capitolo viene dedicato a come “avvicinare la scuola all’impresa”, perché la costruzione della società futura “dipenderà dalla capacità di apportare due grandi risposte (…): una prima risposta incentrata sulla cultura generale, una seconda volta a sviluppare l’attitudine al lavoro e all’attività”. “La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria” rilancia nel 1996 sempre lo European Round Table of Industrialist: “Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico”. A tradurre queste indicazioni in legge, in Italia ci penserà, poco dopo, il compagno Luigi Berlinguer, cugino di Enrico e famigerato Ministro dell’Istruzione dal 1996 al 2000: la parola d’ordine è autonomia; autonomia didattica, finanziaria e anche organizzativa. L’indirizzo di fondo che viene prospettato è la creazione di un sistema di istruzione pluralistico, che da statale diventa più genericamente pubblico e all’interno del quale sono legittimate ad operare tanto le scuole statali quanto quelle gestite da altri enti pubblici (p.e. i comuni e le province), ma soprattutto anche quelle gestite da enti privati, religiosi o no. Le une e le altre godono sia della facoltà di rilasciare titoli di studio aventi valore legale sia dell’opportunità di attingere a finanziamenti statali, non senza numerosi dubbi dal punto di vista della legittimità costituzionale vera e propria; d’altronde, la controrivoluzione e la d’istruzione di massa non possono attendere e non sarà qualche cavillo legale a ostacolarle.
L’autonomia di Berlinguer è il pilastro fondamentale sul quale si inseriranno tutte le controriforme degli ormai quasi 30 anni successivi; la più importante, ovviamente, non poteva che far capo al più spregiudicato e servizievole faccendiere degli interessi delle oligarchie che sia mai transitato, anche se fortunatamente piuttosto rapidamente, tra i nostri palazzi del potere: parlo, ovviamente, di Matteo Shish Renzi, il Tony Blair dei poveri, che ispirandosi all’amico criminale di guerra di oltremanica riesce nell’incredibile operazione di unire tutti i tasselli del grande progetto di controriforma della scuola neoliberale. Fino alla parodia: “Ogni scuola” recita infatti senza pudore un documento di presentazione della riforma della Buona scuola “dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”; dai ragazzi! Siamo una squadra fortissimi! Come scrive Angela Angelucci su Roars “La riforma dell’autonomia scolastica in Italia è un pezzo importante delle riforme del mercato del lavoro, perché sta dentro un gioco di scatole cinesi che riesce ad incrociare perfettamente le direttive europee in materia di istruzione, obbedendo alla perfezione ai dettami di Confindustria”: “dalla legge Fornero, ai Modelli nazionali di certificazione delle competenze al termine del primo ciclo appena emanati, dal Quadro europeo delle qualifiche, al Jobs act sono tutte disposizioni che si rincorrono in un incastro di reciproci riferimenti normativi (…) e il risultato è chiaro: lo studente perfetto da un alto e il lavoratore perfetto dall’altro: competente come un idiot savant, abile in lavori scarsamente qualificati, flessibile e fungibile per lo sfruttamento e il precariato e senza alcuna consapevolezza storica, giuridica, sociale, culturale e politica”. Insomma: la scuola non più fucina di sapere, di scienza e di coscienza, ma di individui con un mediocre livello di conoscenze tecnologiche spendibili sia come promettenti consumatori che come lavoratori flessibili.
E così, finalmente, arriviamo all’oggi. Il 2022 segna un altro anno cruciale: nascono infatti i nuovi Licei TED, che sta per Transizione Ecologica e Digitale, perché una bella dose di greenwashing non si nega a nessuno; i TED propongono una formazione quadriennale che, come si legge nel sito di presentazione, si avvale “della rete di grandi gruppi e imprese che aderiscono al Consorzio di aziende CONSEL“ tra le quali figurano tra gli altri colossi come Microsoft, Atlantia, Generali, Sky e Vodafone. Nel contempo, viene approvato a larghissima maggioranza dalla Camera il disegno di legge relativo “all’istituzione del sistema terziario di istruzione tecnologica superiore”; nascono così gli ITS Academy che, come recita il sito della Regione Toscana, “sono accademie tecnologicamente qualificate e avanzate, finalizzate alla promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, e al rafforzamento delle condizioni per lo sviluppo di un’economia ad alta intensità di conoscenza, competitiva e resiliente, in grado di rispondere alla domanda di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche da parte delle imprese del territorio, concorrendo così alla crescita e allo sviluppo della Regione”. Anche qui troviamo ben rappresentata la scuola neoliberale: al posto della scuola pubblica, apriamo le porte ai privati che determinano programmi e finalità dello studio; al posto delle conoscenze, parliamo di competenze che, secondo l’Unione europea, non sono altro che flessibilità e disponibilità alla riconversione continua, altrimenti detta precarietà; al posto del docente che ha avuto una formazione specifica per il suo lavoro, apriamo le porte ai tecnici del mondo del lavoro e gli insegnanti rimangono a guardare e, al limite, vengono impiegati come facilitatori. La scuola che finiremo di ripopolare da stamattina, in mezzo al solito profluvio di retorica sui nostri ragazzi che rappresentano il nostro futuro è, in buona parte, esattamente questa e noi, molto banalmente, la vogliamo cambiare, e siamo convinti che le energie per farlo non mancano: dopo decenni di lotta di classe dall’alto contro il basso combattuta tra i banchi di scuola, la scuola pubblica italiana – grazie alla resistenza di centinaia di migliaia di docenti rispettosi del dettato costituzionale e di altrettanti studenti e famiglie che non hanno nessuna intenzione di farsi asfaltare dal rullo compressore delle controrivoluzione assistendo passivi – rimane ancora oggi una delle più grandi fucine di disobbedienza civile e di resistenza democratica del paese e noi siamo fermamente intenzionati a fare tutto quello che è in nostro potere per provare a riaccendere la miccia, alla maniera di Ottolina.
Ecco così che quando abbiamo incrociato Federico Greco e Mirko Melchiorre è sbocciato subito l’amore. Sicuramente li conoscete già: sono i registi di quei due straordinari esempi di resistenza culturale popolare che sono stati PIIGS e C’era una volta in Italia; non semplicemente dei film, ma dei veri e propri aggregatori di energia popolare. Prima per come sono stati prodotti: i relativamente pochi soldi necessari – almeno rispetto ai risultati straordinari – sono stati infatti raccolti attraverso una campagna di crowdfunding che ha rappresentato un’opportunità straordinaria per mettere in rete le migliori energie del Paese, una rete che poi si è fatta sentire al momento della distribuzione; i due film, infatti, per anni sono stati portati in lungo e in largo per tutta la penisola e ogni proiezione si è trasformata in un vero e proprio momento collettivo di mobilitazione politica, come raramente se ne sono visti in questi anni di sonnolenza e rassegnato disfattismo. L’unico tassellino che è mancato è stata un’organizzazione capace di dare un seguito strutturato a tutta questa energia sprigionata; e questo è esattamente il contributo che come Ottolina TV e come MultiPopolare abbiamo deciso di provare a dare in occasione di questo nuovo lavoro che i nostri due amici si apprestano ad affrontare. L’appello, quindi, è a mobilitarci tutti quanti per portare a termine la campagna di raccolta fondi, trasformandola (appunto) in un primo momento di mobilitazione; e poi tenerci pronti sin da subito per far girare il film in ogni angolo del paese e trasformarlo nell’occasione che stavamo aspettando per rilanciare un movimento di massa per riprenderci l’istruzione pubblica. In descrizione trovate tutte le informazione necessarie per partecipare a questo progetto tanto ambizioso quanto necessario, come tanto ambizioso quanto necessario è in generale l’obiettivo di Ottolina TV e di MultiPopolare: dare vita finalmente a un vero e proprio media che, invece che ai sacerdoti della controrivoluzione neoliberale, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Maria Stella Gelmini
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