Perché la rivoluzione tarda ad arrivare?
DA LA FIONDA (Di Francesco Prandel)
Fortunata quella rivoluzione che non si conclude con l’investitura del suo principale nemico.
JACOB BURCKHARDT
Scrivo questo articolo per condividere qualche riflessione in merito al contributo «Violenza o non violenza: una questione di prospettive» recentemente apparso su “La Fionda” a firma di Giulia Grillo e “L’indispensabile”. Per esporle prendo le mosse da “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” di Thomas Kuhn. Questo perché, a mio avviso, le rivoluzioni scientifiche hanno qualche aspetto in comune con quelle sociali.
Il fisico ed epistemologo statunitense chiama “paradigma” l’insieme delle teorie e degli strumenti che individuano una tradizione scientifica ben consolidata e largamente accettata. L’adesione della comunità scientifica a un certo paradigma inaugura periodi di “scienza normale”, cioè fasi in cui gli scienziati mettono a frutto le potenzialità degli strumenti teorici e sperimentali che lo caratterizzano. Nel corso di queste fasi essenzialmente applicative, oltre che incorrere nei successi gli scienziati prima o poi si imbattono anche nei fallimenti, o “anomalie”, cioè in situazioni che configgono più o meno apertamente con il paradigma di riferimento, o di cui non si riesce a render conto rimanendo nell’ambito della sua giurisdizione.
Un esperimento insegna sempre qualcosa, soprattutto quando fallisce, cioè quando da risultati significativamente diversi da quelli attesi sulla scorta del paradigma corrente. A quel punto il paradigma entra in crisi, e questo prepara il terreno per le “rivoluzioni scientifiche”, cioè fasi in cui il lavoro degli scienziati assume una connotazione più creativa. La nuova visione del mondo che emerge da queste fasi critiche non viene immediatamente accettata, soprattutto dalla parte più matura e conservatrice della comunità scientifica. Se da una parte ciò da filo da torcere agli spiriti rivoluzionari, dall’altra scongiura la possibilità che si impongano idee poco solide e dunque potenzialmente fuorvianti, che potrebbero condurre la scienza in qualche vicolo cieco. Ma se la nuova visione, generalmente sostenuta dagli scienziati più giovani, si impone con risultati che hanno la forza di evidenze incontrovertibili, il panorama un po’ alla volta cambia per tutti e si insedia un nuovo paradigma.
La creatività che gli scienziati mettono in campo nelle rivoluzioni scientifiche procede proprio da cambiamenti di prospettiva, che permettono di tracciare una “mappa” più aderente al “territorio” conosciuto – cioè di render conto con maggiore accuratezza dei dati sperimentali disponibili – e di estenderla alle regioni incognite – cioè di fare previsioni su dati sperimentali ancora da acquisire.
Nella misura in cui si può arrischiare un confronto tra le rivoluzioni scientifiche e quelle sociali, il cambiamento di prospettiva auspicato dagli autori sopra menzionati sembra dunque un passaggio auspicabile, se non proprio necessario. Il parallelismo proposto si fa anche più interessante se si pensa che l’ultima rivoluzione scientifica risale a un secolo fa, cioè all’avvento della teoria della relatività e della meccanica quantistica. Anche dal punto di vista scientifico, dunque, la rivoluzione tarda ad arrivare, seppure non pochi scienziati la attendano per tutta una serie di ragioni che non è questa la sede per elencare. Risulta invece più interessante considerare i fattori più importanti che ingessano la ricerca scientifica sul paradigma corrente. Sommariamente, sono i seguenti.
1) Risulta economicamente molto difficile e professionalmente piuttosto rischioso, soprattutto per i giovani scienziati, imboccare strade che divergono dai programmi di ricerca dominanti.
2) Il valore di uno scienziato si misura dal numero delle sue pubblicazioni e dal numero di citazioni che queste riscuotono, più che dalla loro qualità.
3) La maggior parte dei finanziamenti alla ricerca scientifica proviene oggi dal privato, che per ovvie ragioni ingerisce più pesantemente del pubblico sia nella selezione dei programmi di ricerca che nella gestione dei risultati scomodi o comunque diversi da quelli attesi , arrivando non di rado a decretarne l’oblio, cioè a “sconsigliarne” la pubblicazione, o addirittura a pretenderne l’aggiustamento, cioè a “consigliarne” la distorsione.
Non serve sprecare troppo inchiostro per convincere che le ragioni dello stallo scientifico sono fortemente correlate a quelle della paralisi sociale. Vale invece la pena di spendere qualche parola in più per considerare una differenza importante tra le rivoluzioni scientifiche e quelle sociali: il diverso valore – e dunque il diverso potere – che viene riconosciuto all’evidenza dalla comunità scientifica e dalla comunità in senso lato.
«È la teoria a decidere che cosa possiamo osservare» faceva notare Einstein al giovane Heisenberg il quale, durante una conferenza berlinese del 1925 in cui esponeva la prima formalizzazione della meccanica quantistica, sosteneva di aver basato la nascente teoria «solamente sulla base di grandezze osservabili». Stabilire che cosa sia evidente è impresa ardua persino per lo scienziato, che segue metodi altamente codificati e dispone di strumenti altrettanto raffinati. Non solo e non principalmente perché deve scegliere come osservare, ma soprattutto perché deve decidere cosa osservare. L’osservazione seleziona quegli aspetti del mondo che rientrano nella sua cornice teorica di riferimento, e lascia fuori gli altri. «Se hai un martello in testa, vedi chiodi dappertutto» diceva Mark Twain, o qualcosa del genere.
Che differenza c’è, allora, tra il genio e il folle? Il fatto è che entrambi vedono cose che gli altri non vedono. Per distinguerli occorrere dunque disporre di un qualche criterio di verità. La scienza, a fatica, se n’è procurato qualcuno (si pensi, per esempio, ai falsificatori potenziali di Popper), ma non è chiaro sia meglio applicarlo o meno (si pensi, per esempio, alla vicenda della teoria delle stringhe). Se per lo scienziato dare garanzie di verità è piuttosto complicato, direi che per l’uomo del palazzo e per quello della strada è pressoché impossibile. Se le cose stanno così – e mi sembra ragionevole presumerlo – alla domanda di prima risponderei che la differenza tra il genio e il folle sta essenzialmente nella loro capacità di persuasione. Il più convincente dei due si circonda presto di un seguito, che lo ammira e ne assimila le vedute, l’altro rischia di rimanere da solo a farsi additare, deidere e compatire. A meno che non sia in grado di convincere nemmeno sé stesso, nel qual caso si accoderà presto ai normali.
Da questo punto di vista la rivoluzione richiede senz’altro un cambiamento di prospettiva, che porta a vedere cose che gli altri non vedono, ma anche un’opera di persuasione, che porta l’uomo della strada a interiorizzare e naturalizzare la visione del rivoluzionario. Le difficoltà insite in questi due momenti dell’intento rivoluzionario sono ben espresse nelle seguenti considerazioni.
Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda questa realtà obsoleta.
RICHARD BUCKMINSTER FULLER
Da sempre i grandi spiriti hanno incontrato la violenta ostilità delle menti mediocri. La mente mediocre è incapace di comprendere chi, rifiutandosi di inchinarsi ciecamente ai pregiudizi convenzionali, decida di esprimere le sue opinioni con coraggio e onestà.
ALBERT EINSTEIN
A mio parere, la rivoluzione tarda ad arrivare principalmente perché l’attuale sistema mass-mediatico inibisce tanto il primo momento dell’intento rivoluzionario quanto il secondo. La costruzione di «un modello nuovo» richiede un notevole investimento di tempo e di energie nella riflessione, due risorse che la «Bulimia cognitiva» – di cui ho parlato in un precedente contributo – sta rapidamente esaurendo.
L’inondazione mediatica sottrae il tempo alla riflessione. Il diluvio costante di dati e moniti proibisce il ragionamento. […] Pensare implica energia e tempo. Giudicare ed applicare etichette, no. L’assenza di tempo per riflettere è la nemica giurata della ragione.
GIANLUCA MAGI
La «violenta ostilità» che i media di regime mostrano nei confronti di chi «decida di esprimere le sue opinioni con coraggio e onestà» è tale che, mentre «i grandi spiriti» possono contare solamente sul proprio carisma, le «menti mediocri» hanno a disposizione un’infrastruttura comunicativa talmente invasiva e capillare da conferire loro una capacità di persuasione potenzialmente illimitata, come ho sostenuto nel mio precedente contributo «La soluzione finale».
È mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento?
HERBERT MARCUSE
«Perché non riusciamo ad animare un movimento rivoluzionario non violento all’altezza dei tempi avendone tutte le ragioni?» A questa domanda di Marco Guzzi risponderei che uno degli impedimenti principali sta proprio nel potere inibitorio che i mass-media esercitano sui momenti sopra individuati. Per questo, nel mio precedente contributo «Arresta il sistema», ho sostenuto la necessità di cominciare a sbarazzarsi di quei predicatori/confessori che ci portiamo sempre appresso e chiamiamo “smarthpone”. La speranza è che, mettendo in fila un po’ di “buchi” nella rete che ha irretito la collettività inibendone ogni intento rivoluzionario, la rete possa strapparsi. La proposta è ingenua nella misura in cui è ingenuo pensare che siamo disposti a liberarci da strumenti dai quali siamo ormai dipendenti in vari sensi del termine. Nella stessa misura, sulla scorta di quanto considerato, in queste condizioni risulta ingenuo attendersi un qualsivoglia sussulto rivoluzionario. Per quello che può valere il mio parere, la prima rivoluzione non violenta da promuovere è quella di tagliare questi “tentacoli”. È vero che la coincidenza temporale non implica il nesso causale, ma è anche vero che il crescere di questa “piovra” è andato di pari passo con lo smorzarsi dello spirito rivoluzionario, anche quello dei giovani, per loro natura più inclini a ribellarsi.
Quello che dicono i media non è vero perché corrisponde alla realtà, ma perché il loro discorso si è sostituito alla realtà. La corrispondenza fra il linguaggio e il mondo, su cui un tempo si fondava la verità, non è semplicemente più possibile, perché i due sono diventati uno, il linguaggio è il mondo, la notizia è la realtà.
GIORGIO AGAMBEN
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/10/07/perche-la-rivoluzione-tarda-ad-arrivare/
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