Si pronuncerà oggi il tribunale del Riesame di Catanzaro in merito alla richiesta di revoca della custodia cautelare di Maysoon Majidi, la giovane attivista curdo-iraniana detenuta da ormai dieci mesi nel carcere prima di Castrovillari e poi di Reggio Calabria. La donna è imprigionata dal 31 dicembre 2023, giorno in cui sbarcò con altre 77 persone sulla costa di Crotone. Accusata di essere una scafista, nonostante le poche prove accusatorie, Majidi rischia fino a 15 anni di galera per il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Maysoon Majidi è nata nel luglio del 1996. Attivista politica, membro dell’ONG Hana e dell’associazione curda della diaspora, regista, reporter, sostenitrice della rivoluzione iraniana esplosa in seguito alla morte di Mahsa Amini, Maysoon è giovane ma ha già una lunga storia. Dopo aver ricevuto diverse minacce da parte del regime degli ayatollah in Iran e poi in Iraq, dove si era rifugiata, decide di fuggire in Europa insieme al fratello e ad altri attivisti. Attraversano insieme vari confini fino ad arrivare in Turchia, dove rimangono bloccati per cinque mesi in attesa di un aiuto economico della famiglia, dopo essere stati derubati di tutti i soldi che avevano. Il 26 dicembre 2023 riescono a imbarcarsi su di un vaporetto stracolmo di gente diretto in Italia, uno dei tanti viaggi infernali che troppo spesso si concludono in tragedia. Avvistata la costa, Maysoon pensa che l’incubo sia finito e invia dei selfie alla famiglia. Una volta messo piede a terra, invece, viene arrestata e tradotta in carcere, accusata dalla pm Maria Rosaria Multari di essere una delle responsabili del «traffico di esseri umani» dalla Turchia alle coste italiane.
Maysoon ha raccontato il proprio viaggio in una lettera pubblicata dal Manifesto. La giovane ha sempre sostenuto la propria innocenza, iniziando anche uno sciopero della fame per protesta che l’ha portata a pesare meno di 40 chili. Per cinque volte l’avvocato difensore, Giancarlo Liberati, ha richiesto che le fossero assegnati gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico in sostituzione alla detenzione in carcere, ma nessuna di queste richieste (l’ultima risalente a un paio di settimane fa) è andata a buon fine. Oggi, il tribunale del Riesame di Catanzaro si esprimerà sull’appello per la revoca della custodia cautelare e il 22 ottobre prossimo, a Crotone, ci sarà una nuova udienza del processo. Intanto, la rete Free Maysoon ha lanciato presidi e sit-in fuori dai tribunali per sostenere l’imputata.
La vicenda di Maysoon è molto simile a quella di un’altra giovane donna, Marjan Jamali. Cittadina iraniana di 29 anni, è imprigionata anche lei dal giorno del suo sbarco sulle coste italiane, nell’ottobre del 2023. L’accusa è la stessa: favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Anche Marian Jamali è accusata di essere una scafista. Dopo 8 mesi di carcere, le sono stati concessi gli arresti domiciliari per potersi ricongiungere con il figlio di 8 anni, con il quale ha attraversato il mare. La donna è accusata da tre uomini che erano sulla stessa imbarcazione, nei confronti dei quali Marian ha denunciato tentativi di violenza sessuale. Nonostante ciò, è stata comunque messa in stato di arresto dalla polizia italiana.
Sono numerose le opacità che caratterizzano le fasi preliminari di questi due processi (una tra tutte l’assenza di mediatori linguistici). Le prime accuse e deposizioni raccolte dalle autorità subito dopo lo sbarco, volte a individuare gli “scafisti”, sembrano bastare per imprigionare chiunque. I due testimoni che hanno accusato Maysoon di essere parte dell’organizzazione di trafficanti (sulla base del fatto che distribuiva acqua e cibo agli altri passeggeri) sono ritenuti irreperibili dal tribunale italiano. È stata la difesa, insieme ad alcuni giornalisti, a rintracciarli in Germania: qui, entrambe hanno ritrattato la versione rilasciata alla magistratura italiana e negato la responsabilità di Maysoon nella traversata. Questa informazione non sembra tuttavia essere di interesse per il tribunale.
La storia di queste due donne è la storia di tanti, una storia di repressione, di fuga, violenza, frontiere e detenzione. Una storia che rischia di concludersi con la loro reclusione dietro le sbarre di una cella per anni. Sono migliaia le persone rinchiuse in Italia e in Grecia con l’accusa di essere trafficanti di esseri umani. Arrestate come scafiste all’arrivo dei barconi, accusate spesso di tenere il timone o distribuire cibo o indicazioni agli altri passeggeri, la stragrande maggioranza delle volte si tratta di semplici migranti che, per qualche sconto sul prezzo del biglietto, si trovano ad avere un piccolo incarico. Un ruolo di primo piano nella gestione del confine marittimo è stata affidata alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, in coordinamento con Frontex e con le diverse missioni militari europee nell’altro continente. Secondo uno studio portato avanti da tre associazioni non governative (Arci Porco Rosso, Borderline Europe e Alrmphone), dal 2013 al 2021 oltre duemila persone sono state arrestate con l’accusa di essere scafiste e sottoposte a processi che hanno spesso portato a condanne molto severe. Criminalizzare l’immigrazione sembra uno degli obbiettivi della DNA e dei governi europei da anni: chi si trova a tenere il timone, per un motivo o per un altro, viene immediatamente identificato come il trafficante, lo “scafista”, e condannato a pene altissime. Così, tuttavia, da un lato si dimentica chi sono i veri trafficanti, dall’altro si rendono sempre più pericolose le traversate. Trasformando il Mediterraneo in un cimitero sempre più grande.
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