Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Mentre anno dopo anno vengono annunciati nuovi record di temperature a livello globale, le difficoltà di chi deve farvi fronte entro i limiti della propria condizione lavorativa rimangono in gran parte inespresse. Nell’ambientalismo tradizionale il lavoro – soprattutto nella sua dimensione industriale e agricola – è considerato tra le principali cause del degrado naturale; una visione che all’aumentare della centralità della crisi climatica nel dibattito pubblico ha guadagnato in rilevanza anziché essere messa in discussione.
Uno dei problemi di questo approccio è l’incapacità di riconoscere come il lavoro stia diventando una dimensione importante del movimento per la giustizia climatica, specialmente in un’Europa sempre più colpita per frequenza e intensità da eventi climatici estremi. In questo l’Italia rappresenta un caso emblematico: i picchi di calore senza precedenti che hanno interessato la Penisola nelle ultime estati hanno imposto a lavoratrici e lavoratori uno stress fisico e psicologico tale da spingere in molti casi a riconsiderare le proprie condizioni di impiego e, dunque, di classe.
Nell’estate del 2023, ad esempio, l’Italia ha raggiunto in alcune zone temperature oltre i 40°C, determinando in molti ambienti di lavoro disagi tali da indurre i dipendenti allo sciopero. Dalle cucine dei McDonald’s di Bari e Casamassima, agli stabilimenti della Rossi Spa a Modena, fino ai capannoni industriali del torinese, tante sono state le proteste che si sono susseguite a tutela della propria sicurezza.
La minaccia a salute e incolumità sul luogo di lavoro a causa di fattori ambientali non rappresenta una novità nella storia del sindacalismo italiano. Già dagli anni Sessanta, all’interno del movimento operaio, si sono sviluppate riflessioni sul deterioramento delle condizioni di salute legate all’impatto ambientale di specifiche attività produttive. L’impronta indelebile lasciata nella memoria storica di interi siti come l’Ilva di Taranto o la Montedison di Porto Marghera sono simbolo di quella stagione e prova della ormai scontata connessione tra degrado ambientale e pericolo sanitario sul lavoro. Tuttavia, nonostante sia ampiamente dimostrato come lo stress causato da alte temperature possa generare infortuni e malesseri, i recenti scioperi per il clima si differenziano ampiamente da quelli del passato.
Il pericolo rappresentato dal caldo estremo in questi casi non è legato a una specifica produzione o a un particolare sito, ma riflette gli effetti della crisi climatica globale che negli ambienti di lavoro si manifestano con maggiore intensità. La fatica imposta dall’afa, unita all’impossibilità di sfuggirvi, rende evidente a lavoratrici e lavoratori la loro condizione di sfruttamento, obbligandoli a confrontarsi direttamente con l’indissolubile legame tra crisi ecologica e disuguaglianza sociale. Queste manifestazioni sono espressione di una ribellione all’ingiustizia sistemica che, dopotutto, è all’origine del degrado ecologico stesso.
Le poche testate giornalistiche che hanno riportato le sospensioni del lavoro dell’estate 2023 non le hanno riconosciute come un fenomeno unitario di contestazione, né come un ampliamento del concetto stesso di sciopero. Concentrandosi sulle condizioni degli impianti di climatizzazione degli stabilimenti, e dunque schierandosi indirettamente a favore o contro le proteste, non ne è stato colto il significato più profondo. Limitando la lettura degli eventi alla sola dimensione fisica del caldo, queste narrazioni hanno ignorato il reale motivo che ha reso insopportabile la percezione di quelle temperature ai lavoratori. Una realtà non misurabile in gradi Celsius che è invece emersa con forza nelle testimonianze raccolte tra gli operai della Electrolux di Susegana che nell’estate del 2023 hanno sospeso il lavoro come protesta al caldo[1].
L’Electrolux è una multinazionale svedese con diverse sedi in Italia che nello stabilimento di Susegana (Treviso) si occupa dell’assemblaggio di frigoriferi e freezer. Qui nelle giornate del 23, 24 e 25 agosto gli operai hanno abbandonato spontaneamente le proprie postazioni durante le ore più calde. Come affermano chiaramente i dipendenti, sebbene la decisione di sospendere le proprie mansioni fosse dettata in primis da un disagio fisico dovuto alle alte temperature, a renderla inevitabile sono state le dinamiche di potere già presenti all’interno della fabbrica che hanno caricato di un significato politico il caldo, tanto da renderlo insostenibile.
Negli stabilimenti Electrolux, come in molti altri casi quell’estate, alle temperature proibitive a cui si era costretti, si è aggiunto il rifiuto da parte delle classi manageriali di concedere la cassa integrazione prevista in tali circostanze, trasformando il caldo nell’espressione di una condizione strutturale di sfruttamento ed impotenza.
A Susegana questa realtà è emersa con particolare forza nel rifiuto della direzione alla proposta da parte degli operai di fermare il lavoro durante le ore più calde della giornata, offrendo invece integratori alimentari e fette di anguria in un gesto che ha rasentato la beffa. Una situazione che ha reso il calore sofferto inaffrontabile, nonostante i termometri negli stabilimenti non segnalassero impennate significative. Del resto, come dimostrano le storie raccolte, limitare l’affaticamento dettato dal calore ad un singolo evento estremo è insensato: il caldo impone una condizione di difficoltà generalizzata che permane anche all’infuori degli spazi e dei tempi adibiti al lavoro, rendendo difficile riposare adeguatamente e imponendo ulteriori disagi; ciascuno secondo le proprie condizioni sociali.
Le esperienze raccontate sottolineano come il caldo estremo amplifichi le ingiustizie e le violenze strutturali in cui le singole individualità si situano. Ad esempio, in quei giorni le alte temperature hanno esasperato l’insofferenza alla fatica tra gli operai nordafricani, già pesantemente condizionati dalla consapevolezza di essere impiegati con contratti a tempo determinato e con modalità di lavoro svantaggiose rispetto ai loro colleghi. Molti i dipendenti che hanno sentito aggravarsi sotto il caldo i limiti dettati dall’età o da malattie normalmente gestibili come asma o ipertensione, diventate però ostacoli insormontabili in ambienti che sfioravano i 35°C. Tanto anche il disagio riportato dalle donne che a Susegana rappresentano circa metà della forza lavoro e che nell’afa di agosto oltre a quello della catena di montaggio svolgevano anche altre forme di lavoro – caregiver dei parenti più anziani o giovani madri alle prese con attività faticose come l’allattamento o la cura dei bambini. Queste sono solamente alcune tra le disuguaglianze quotidianamente sperimentate da operaie e operai che la condizione climatica ha esasperato. Non a caso la sospensione del lavoro all’Electrolux è stata partecipata principalmente da persone che lavorano nella fabbrica da diversi anni, con contratti a tempo indeterminato e che già in passato hanno riscontrato disinteresse da parte della classe dirigenziale verso le proprie difficoltà.
Come dimostrano i numerosi scioperi contemporanei a Susegana che hanno coinvolto anche differenti contesti lavorativi, sarebbe un errore ricondurre questa manifestazione al solo controllo manageriale. Le contestazioni portate avanti dai lavoratori vanno riconosciute invece come risultato dello trasformazione in senso neoliberale che le attività produttive hanno vissuto negli ultimi decenni e che in nome dell’efficienza di mercato ha reso i sistemi produttivi più fragili.
In Electrolux questa dinamica si è concretizzata recentemente con la automatizzazione e digitalizzazione di molte attività interne alla fabbrica: in alcuni reparti il nuovo processo di produzione prevede una maggiore presenza di robot che hanno sostituito in molte mansioni gli operai. Gli stessi frigoriferi attorno a cui ruota la catena di montaggio sono stati riprogettati in modo da facilitare una produzione meccanizzata così da richiedere ai lavoratori un minore adattamento e ridurne gli stress muscolo-scheletrici. Per coprire i costi dell’automatizzazione, tuttavia, i ritmi di lavoro sono stati accelerati, portando a un cambiamento nel ruolo degli aiuto-capo (ora team leader). In passato, questi erano lavoratori esperti in grado di consigliare o sostituire nei lavori più complessi. Oggi, invece, sono descritti come dipendenti più giovani, privi di esperienza nella componente fisica del lavoro e che vengono informati da sensori disposti lungo la catena di montaggio quando la velocità del singolo operaio cala così da poterlo segnalare.
Queste figure sono percepite da lavoratrici e lavoratori come espressione di un’idea di lavoro disumanizzante e opprimente. Un sentimento che è stato aggravato dal caldo estremo e che ha spinto i dipendenti a manifestare con un rifiuto corporale: una ribellione non verbale contro lo sfruttamento, espressa attraverso una sintomatologia carica di significato. Per questo motivo, nelle interviste ai protagonisti di queste contestazioni, il termine “sciopero” raramente viene menzionato, non avendo seguito tale tradizionale modalità di sviluppo. Piuttosto, come osserva acutamente Augustin Breda, delegato RSU FIOM a Susegana, riferendosi a quelle giornate: “le persone – [come le macchine] – vengono prese in considerazione solo se smettono di funzionare”[2].
Il caso della sospensione del lavoro negli stabilimenti Electrolux a causa del caldo rappresenta una nuova forma di sciopero per il clima. A differenza delle altre manifestazioni ambientali organizzate, questi scioperi nascono spontaneamente, dal basso. Sono espressioni di una protesta per la vita stessa, in cui le persone rispondono alle condizioni climatiche estreme che sperimentano direttamente sul luogo di lavoro. Sono, quindi, conseguenza dell’esperienza in prima persona della dimensione di classe della crisi ambientale, segnata da profonde disuguaglianze nella responsabilità delle sue cause, quanto nell’esposizione alle sue conseguenze. Infatti, la decisione di sospendere il lavoro riflette la consapevolezza di come sperimentare gli effetti di questi eventi estremi sia un ulteriore forma di violenza imposta dal sistema economico e sociale in cui si è inseriti.
Questa nuova coscienza emerge all’interno dell’ambiente di lavoro, un contesto che nelle lotte ecologiste dei movimenti sindacali è sempre stato dominato dalla minaccia del “ricatto occupazionale” – la scelta forzata tra salario e salute. Un’intimidazione che perde gradualmente di rilevanza di fronte ad un rischio ambientale che è sempre meno confinato ai singoli siti produttivi e sempre più una condizione diffusa e generalizzata. Di conseguenza, l’ambiente di lavoro acquisisce una nuova importanza politica per chi vi opera: l’incapacità di adottare misure di sicurezza adeguate diventa un’opportunità per i dipendenti di mettere in evidenza le ingiustizie sistemiche imposte. In questo contesto, gli spazi lavorativi si trasformano nei teatri di una lotta sindacale dove gli eventi climatici estremi, se caricati di quei significati politici spesso ignorati, arrivano a rappresentare un alleato.
Per questo, è necessario ripensare il paradigma che vede il lavoro come sola forza devastatrice dell’ambiente, riconoscendolo come realtà centrale attraverso cui portare avanti la lotta per una maggiore giustizia climatica. Questo implica che i principali attori di tale movimento – da Extinction Rebellion ai gruppi di attivismo locale – vedano nei lavoratori degli alleati cruciali nelle loro mobilitazioni, ma ancora più importante, è che sia il movimento sindacale stesso a proporsi come soggetto decisivo nel contrasto al disastro ecologico.
Lo sciopero per il caldo delle operaie e degli operai all’Electrolux è dimostrazione di come per concretizzare questa possibilità sia fondamentale riconoscere la crisi climatica come una realtà che si impone con intensità nell’attività lavorativa, ma ancor più sui corpi stessi dei lavoratori. La fatica e, in alcuni casi, la sofferenza fisica sono sintomi della crisi ecologica attuale. Riconoscere questa dimensione corporea della crisi è ciò che si spera possa trasformare i luoghi di lavoro da metro di misura delle ingiustizie imposte a zone di resistenza per una giustizia climatica e sociale.
Note
[1] Le interviste sono state raccolte quattro mesi dopo gli eventi descritti, su base volontaria, contattando i lavoratori telefonicamente.
[2] Lorenzo Feltrin, “Climate strike” all’Electrolux. La crisi ecologica vista dalle catene di montaggio – intervista ad Augustin Breda, www.globalproject.info/it, 2023.
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