Dopo Bashar
di SINISTRAINRETE (Enrico Tomaselli)
Sulla repentina caduta della Siria in mano ai terroristi jihadisti, cala il sipario. Così come sulla Repubblica Araba Siriana, e sulla dinastia Assad. Ci sono ancora non pochi punti oscuri, o non ancora definiti, che probabilmente si chiariranno nei giorni e nelle settimane a venire. Ovviamente, su tutti, il comportamento di Assad durante la crisi e sino al suo epilogo, e forse ancor più quello dell’Esercito Arabo Siriano, che non solo non ha praticamente combattuto una sola battaglia per contrastare l’avanzata jihadista, ma ha anche inscenato una pantomima mistificatoria al fine di coprire la sua decisione di consegnare il paese a Hay’at Tahrir al-Sham. Restano ancora avvolte dalla nebbia emotiva di questi giorni anche le evidenti leggerezze e gli evidenti errori commessi da Russia e Iran. Ma, appunto, molte di queste cose si chiariranno in seguito. A questo punto, in ogni caso, si tratta di tirare una linea, e guardare oltre.
La prima cosa da mettere in chiaro è che la vittoria jihadista – tanto più per i tempi e i modi in cui si è realizzata – è ben lungi dal porre fine al caos siriano; anzi, al contrario è foriera di un ulteriore rinfocolamento. L’esempio che viene immediatamente è quello della Libia. Tanto per cominciare, c’è la questione curda, che Ankara sta cercando di risolvere scatenando le sue milizie del Syrian National Army (e anche intervenendo direttamente), anche approfittando di questa fase transitoria, ma che è ben lungi dal trovare una soluzione pacifica. Oltretutto, le forze curde (che almeno per ora continuano a contare sull’appoggio statunitense) controllano una bella fetta di territorio, da nord a sud, e soprattutto parte del confine con la Turchia. Anche la questione dei rapporti (di forza) tra HTS e SNA è tutta da verificare. Probabile che si arrivi a una qualche forma di accordo [1], ma non sarà una convivenza facile; e comunque, a mio avviso, l’HTS non accetterà un ruolo subalterno alla Turchia, né una significativa influenza di Ankara in Siria, e man mano che consoliderà il suo potere ciò si accentuerà.
Che il caos debba ancora effettivamente dispiegarsi risulta evidente dall’azione israeliana; non tanto nella prevedibile creazione di una buffer zone oltre il Golan (ennesima annessione mascherata), quanto nel fatto che l’aviazione stia provvedendo a distruggere tutti i depositi e gli armamenti strategici del SAA. Essendo imprevedibili gli sviluppi a medio-lungo termine, meglio cogliere l’occasione per assicurarsi che gli arsenali siriani non cadano in mani sbagliate.
Al momento non è chiaro se ci sarà o meno una cacciata più o meno veloce dei russi, ma in ogni caso è evidente che, seppure le basi di Tartus e Hmeimim dovessero restare, la situazione sarebbe radicalmente diversa rispetto a oggi e, nella migliore delle ipotesi, si ritroverebbero circondate da presso da una panoplia di strumenti di spionaggio elettronico occidentali.
È ovvio che siamo in presenza di una sconfitta significativa, sia per la Russia che per l’Iran, e l’evidente approssimazione con cui stanno affrontando la situazione ne è la miglior prova. Sul breve termine, a trarne vantaggio saranno la Turchia ed Israele, ovviamente. Ma per nessuno dei due si tratta di una vittoria risolutiva.
Quello che ci possiamo attendere, sul breve-medio periodo, è una balcanizzazione di fatto dell’ex-RAS, nonostante tutti si appellino al mantenimento dell’integrità territoriale del paese. Le ipotesi più realistiche al riguardo prevedono almeno tre o quattro cantoni, più alcune variabili. Il grosso del paese resterà in mano all’HTS-SNA, cui si aggregheranno una miriade di gruppuscoli dell’opposizione moderata filo-occidentale. L’area a est dell’Eufrate rimarrà sostanzialmente un enclave curda, con un una forte presenza a nord, e che fanno sostanzialmente perno sulle basi USA in territorio siriano, Al Omar e Al Shaddadi, nel nordest, Deir ez-Zor-Conoco a est, e Al Tanf a sud. Mentre a sud-ovest si sta delineando un’ampia buffer zone occupata dalle forze israeliane, che però puntano alla creazione di un vero e proprio stato-cuscinetto basato sulla comunità drusa [2].
Possibile – ma a mio avviso improbabile – la creazione di un cantone semi-autonomo sulla costa mediterranea, intorno alle basi russe di Latakia-Hmeimim e Tartus, dove vive la comunità alawita. Molto dipenderà da come si svilupperanno i rapporti tra Mosca e Damasco, a seguito del cambio di regime. Secondo quanto riferito alla TASS da un funzionario del Cremlino, per il momento i leader dell’opposizione armata siriana avrebbero garantito la sicurezza delle basi militari russe e delle istituzioni diplomatiche in Siria. Ma la sicurezza non vuol dire la permanenza. È probabile che si arrivi alla fine a uno smantellamento concordato.
Ci sono, inoltre, da considerare altre due variabili non esattamente irrilevanti. La prima è costituita dall’Isis, che è ancora presente nel deserto siriano, e che sicuramente si rafforzerà a seguito del rilascio di numerosi suoi combattenti dalle prigioni siriane. Considerato che nelle file dell’HTS, nonostante il make-up moderato adottato da Al Jolani (lui stesso ex leader Isis prima ed Al Qaeda poi), sono presenti molti militanti che provengono proprio dalle frange dell’estremismo più radicale, e ben possibile che una parte di questi possa prima o poi subire il richiamo della foresta, e ritornare nell’orbita del Daesh. Tra l’altro, una parte non indifferente delle milizie jihadiste è costituita da uiguri, uzbeki e tagiki, chiaramente poco interessati alla costruzione di uno stato democratico siriano (anche ammesso che lo sia lo stesso Al Jolani…), e molto di più alla creazione di un nuovo califfato, da cui far irradiare la jihad dei tagliagole – soprattutto verso i paesi di origine nell’Asia Centrale.
Un’altra variabile sarà prima o poi costituita dall’Iran, che di certo non rinuncerà così facilmente ad esercitare la sua influenza sul paese vicino, e tradizionalmente amico. Per il momento Teheran – come un po’ tutti… – si sta riallineando alla situazione de facto, cercando di fare riferimento alla risoluzione 2254 dell’ONU e puntando ad una internazionalizzazione del processo di regime-change. Ma questa è ovviamente una tattica transitoria, visto che né gli sponsor dell’operazione jihadista, né per altri versi l’ONU, hanno voglia e modo di pilotare la transizione a Damasco. D’altra parte, la forte ostilità dei jihadisti verso l’Iran è un dato di fatto, che rende improbabile qualsiasi appeasement. Inevitabilmente, quindi, prima o poi assisteremo al tentativo iraniano di creare una forza politica e (forse) militare, sul modello delle formazioni irachene. Il bacino potenziale su cui lavorare è costituito dalla comunità alawita, da una parte dell’ex-esercito siriano (specie quelli rifugiatisi in Iraq), dai membri del partito Baath (che negli ultimi anni era stato emarginato da Assad).
E per il nuovo regime, una via di mezzo tra un califfato islamico e un avamposto del NATOstan, i problemi non si esauriscono qui.
Come prima cosa, c’è da ricostruire una infrastruttura statale, e soprattutto da rimettere in piedi un paese, che non si è mai ripreso veramente dalla guerra civile. Considerato che il petrolio siriano è ancora quasi tutto in mano curdo-statunitense, ciò significa che per i necessari investimenti bisognerà trovare risorse di non facile reperimento. La Turchia di certo non è in grado di sostenere economicamente questo sforzo, anzi cercherà di approfittare della situazione per liberarsi di gran parte dei profughi siriani presenti sul proprio territorio, e che costituiscono appunto un onere non indifferente. E difficilmente i capitali dei paesi del Golfo si faranno tentare dall’investire in un paese instabile. Oltretutto – cosa niente affatto secondaria – israeliani e americani (e in parte anche i russi), si sono attivamente dedicati alla distruzione di tutto il sistema di difesa dell’ex-SAA: aviazione, missili, sistemi di difesa aerea, depositi di munizioni, fabbriche e laboratori militari, tutto è stato distrutto con una serie di attacchi aerei mirati.
Ciò significa che il nuovo stato siriano non avrà praticamente molto più di quanto già in possesso delle milizie, per difendersi, e quindi resterà comunque soggetto alla pressione di vicini potenti e ben armati (Turchia e Israele in primis). Un processo di riarmo, che comunque richiede a sua volta fondi considerevoli, oltre che fornitori disponibili…, e necessiterà di anni per essere portato a compimento. Di fatto, quindi, prima che la Siria – sempre ammesso che rimanga una realtà unitaria – torni a essere uno stato sovrano, dovrà passare molta acqua sotto i ponti. Ripeto, Libia docet.
In conclusione, una corposa nota a margine va fatta in merito al senso e al valore di questo tracollo. Che la fine del regime di Assad sia, in sé e per le conseguenze pratiche, un duro colpo per le forze che combattono l’imperialismo occidentale, è fuori discussione. Ma – e questo non andrebbe mai dimenticato – quella in atto è una guerra, non una marcia trionfale, e in guerra non si vincono sempre tutte le battaglie.
Certo, anche a prescindere dal valore psicologico di questa battuta d’arresto (amplificato dalla velocità con cui si è determinata, e dalla sua – a ora – inspiegabilità), ci sono conseguenze di non poco conto sul piano strategico. Se la Russia dovesse perdere le sue basi siriane, sarebbe un problema non da poco. La flotta del Mediterraneo perderebbe una base sicura, anche se potrebbe contare su un approdo amico in Libia [3], e questo creerebbe ulteriori difficoltà (già la situazione nel mar Nero non è ottimale). Ma se la perdita di Tartus sarebbe grave, ancor più lo sarebbe quella dell’aeroporto di Hmeimim, che è uno scalo fondamentale per il rifornimento degli aerei da trasporto diretti verso l’Africa subsahariana, dove la presenza russa è ormai significativa. Così come, per l’Asse della Resistenza, la perdita del canale di transito da e per il Libano pone problemi logistici non da poco.
Ciò nonostante, bisogna mantenere uno sguardo strategico e di lungo periodo, senza farsi sopraffare dal dato emotivo, cancellando tutto il resto del quadro complessivo.
La Russia sta vincendo il suo conflitto con la NATO in Ucraina. Hezbollah ha costretto Israele a rifugiarsi in un cessate il fuoco senza aver raggiunto nessuno dei suoi obiettivi operativi. La Resistenza palestinese a Gaza ed in Cisgiordania è più viva e attiva che mai. E se è vero che ogni promessa è debito, aspettiamo l’arrivo di True Promise 3…
Note
1 – Interessante notare come, benché i sollevamenti al sud fossero guidati dalle SDF curde e dal SNA, che era molto più vicino a Damasco, quando l’HTS stava ancora entrando a Homs, all’improvviso la spinta da sud verso la capitale è sembrata rallentare quel tanto da permettere che la città cadesse in mano agli jihadisti.
2 – Shlomi Binder, capo dell’intelligence militare israeliana, AMAN, ha incontrato il capo della comunità drusa siriana, Shaykh Mowafaq Tarif, per discutere di questa ipotesi. Secondo Naom Tibon, maggiore generale dell’IDF, “Israele è molto interessato a fondare uno stato druso in Siria”.
3 – Si parla da tempo anche della costruzione di una base navale in Sudan, sul mar Rosso, ma l’attuale guerra civile nel paese, e qualche incertezza da parte russa, hanno sinora fatto sì che rimanga un progetto, e la costruzione effettiva è ancora in alto mare.
FONTE:https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/29430-enrico-tomaselli-dopo-bashar.html
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