Prima agli italiani: lo sciovinismo all’assalto del welfare
di GLI ASINI (Dario Tuorto, Enrica Morlicchio, Enrico Gargiulo)
L’articolo è tratto dal libro in uscita degli autori Prima agli italiani. Welfare, sciovinismo e risentimento, Il Mulino, 2024.
Ormai da tempo i sistemi di welfare occidentali sono sottoposti a una profonda trasformazione. Forme di restrizione selettiva sono state introdotte in molti settori della spesa sociale, associandosi a una crescita delle disuguaglianze sociali e territoriali e a una generalizzazione della condizione di vulnerabilità. Il mantra dell’inevitabilità dei tagli e le retoriche sull’occupabilità e sull’attivazione hanno contribuito a mettere in discussione il pacchetto di diritti di cittadinanza novecentesco e la legittimità stessa dell’assistenza sociale sancita dall’art. 38 della Costituzione italiana. Ma solo a seguito della crisi del 2008 tali processi hanno assunto una configurazione nuova, incrociando le richieste di protezione avanzate da fasce ampie e diversificate della popolazione: ceti popolari, settori della classe media che hanno vissuto forme di mobilità discendente, lavoratori a basso salario o in condizione di sempre maggiore precarietà. La parola magica tornata alla ribalta è “nazionalismo”: applicata ai sistemi di cura e solidarietà estesa produce lo “sciovinismo del welfare”.
Con questo termine intendiamo una forma di rivendicazione che sottende orientamenti di tipo razzista e xenofobo laddove assume il principio secondo cui la titolarità dell’accesso alle prestazioni sociali debba essere riservata alla maggioranza autoctona. La preferenza accordata ai cittadini nazionali si realizza in maniera duplice: da un lato innalzando una vera e propria barriera all’ingresso del sistema di welfare statale e locale; dall’altro mediante un accesso parziale e fortemente stigmatizzante. La soluzione sciovinista introduce criteri di meritevolezza, ma sulla base di etichette identitarie, spesso intrise di razzismo, cucite arbitrariamente sulle persone per giustificare l’attribuzione di diritti a tempo, quindi revocabili. Per comprendere un sistema di questo tipo è utile fare riferimento al concetto di “stratificazione civica”, di cui parlavano sociologi britannici come David Lockwood, Lydia Morris e Rainer Bauböck tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, descrivendo una società in cui la realizzazione di una piena cittadinanza democratica implica un grado elevato di uguaglianza formale ma, allo stesso tempo, il mantenimento di livelli piuttosto marcati di disuguaglianze sostanziali. In uno scenario dove le migrazioni internazionali assumono un peso crescente, la nozione di stratificazione civica assume un significato più specifico, indicando un sistema di appartenenze territoriali gerarchico e complesso, che vede la compresenza di persone dotate di status e risorse differenti: alcune sono libere di muoversi all’interno e all’esterno del territorio mentre altre sperimentano restrizioni e, soprattutto, sono esposte al rischio di essere allontanate contro la loro volontà. Nel dare forma a un sistema di stratificazione civica, le regole di transizione giocano un ruolo chiave in quanto stabiliscono i requisiti che i non membri devono possedere per passare da uno status provvisorio a una condizione più stabile. Requisiti in teoria conformi a principi universalistici, ma di fatto discrezionali, ispirati al principio del merito declinato in molteplici accezioni: essere capaci di automantenimento (disporre di un reddito da lavoro), non costituire una minaccia (assenza di reati), non avere fatto ritorno temporaneamente al paese di origine (discriminante chiave per i rifugiati che intendono mantenere il loro status). È evidente che in un regime di “inclusione differenziale” (un concetto proposto dal filosofo politico Sandro Mezzadra) non sono solo gli stranieri a essere soggetti a valutazione negativa: anche gli autoctoni possono perdere “crediti sociali” (su questo si rimanda all’articolo di Mauro Boarelli su Gli Asini n. 101, luglio 2022) e passare da poveri virtuosi a soggetti stigmatizzabili per attitudini devianti, tratti comportamentali opportunistici, appartenenze territoriali degradanti.
In questo gioco alla sottrazione, il “tempo” e lo “spazio” sono due categorie chiave. Man mano che si procede verso il basso, il numero dei requisiti richiesti per poter essere cittadini ed avere diritti aumenta. Chi si trova al vertice non ha alcuna preoccupazione, dato che il suo status è tendenzialmente atemporale. Diversamente, chi dispone di un’autorizzazione al soggiorno vede nella temporalità un vincolo limitante ma in qualche misura gestibile. Chi invece soggiorna «irregolarmente» non ha alcun controllo – almeno in senso formale – sulla durata della sua presenza, la quale rimane del tutto indeterminata, nel senso che potrebbe concludersi in qualsiasi momento. Non è un caso che, nella realizzazione di vere e proprie politiche di residenza, il tempo giochi un ruolo strategico: l’accesso ad alcune prestazioni può derogare dal principio del bisogno e fondarsi sul criterio, apparentemente di buon senso, del tempo di permanenza in un territorio (secondo cui i lungo-residenti, non i bisognosi, hanno più diritto a ricevere).
Come il tempo, anche lo spazio può differenziare gli individui, ad esempio attraverso il mancato riconoscimento della presenza. La registrazione del rapporto tra persone e spazio è legata storicamente alla questione del governo dei poveri e alla nascita delle politiche sociali. Se, dalla prospettiva di un welfare universalistico, l’attribuzione della residenza anagrafica si traduce nel monitoraggio capillare del territorio allo scopo di allocare le risorse in modo efficiente ed equo, dalla prospettiva di un welfare sciovinista essa serve a ridefinire in modo formale e sostanziale i confini della comunità locale, nel momento in cui si afferma il diritto di alcuni ad avere accesso a benefici e servizi in virtù dei legami con il territorio che altri non hanno.
Lo sciovinismo del welfare rende quindi possibile una profonda riformulazione della distinzione tra soggetti «meritevoli» e «non meritevoli», nei termini non già soltanto di poveri non abili che possono aspirare alla protezione sociale e poveri abili da spingere forzatamente ad accettare qualsiasi lavoro, ma anche di «veri appartenenti» da un lato e residenti «spuri» dall’altro. Distinzione quest’ultima passibile di generare il paradosso di escludere dai benefici del welfare finanche soggetti con tassi di attività largamente superiori a quelli della popolazione autoctona. Lo slogan «Prima gli italiani» fornisce la giustificazione al fatto che, in alcuni contesti locali, l’assegnazione delle case popolari, i pasti scolastici e le misure di sostegno al reddito sono riservati agli appartenenti alla comunità nazionale. I poveri stranieri diventano, spesso arbitrariamente, «non meritevoli». Non è un caso che anche una misura progressista e redistributiva come il Reddito di cittadinanza ponesse come condizione insuperabile una severa restrizione all’accesso per gli stranieri legalmente residenti. E non deve sorprendere l’infinita gestazione di un’altra misura di mimino buon senso (e diverse ambiguità) quale lo ius scholae, evocato come diritto minore rispetto allo ius soli ma ancora indigeribile per la destra italiana, in quanto va a indicare una strada formalmente legittima e possibile (quella del merito) per scardinare richieste illegittime (la discriminazione della non appartenenza alla comunità nazionale).
Per comprendere a fondo l’emergere dello sciovinismo occorre ripercorrere la parabola del welfare state a partire dalla sua fase espansiva del secondo dopoguerra. Se è vero che anche nei «Trenta gloriosi» (dal 1945 ai primi anni Settanta) esistevano dinamiche di esclusione delle minoranze, la competizione tra lavoratori locali e stranieri non produceva campagne di odio su larga scala e i conflitti venivano parzialmente riassorbiti grazie alla fiducia in una progressiva incorporazione nel mercato del lavoro e nella società dei consumi. Dagli anni ’70 inizia il cambiamento: crescono gli orientamenti critici nei confronti del sistema di protezione sociale e si afferma un’accezione negativa di «stato assistenziale» che finisce per legittimare logiche nuove di contenimento dei costi e di apertura al privato. Il rapporto tra Stato e percipienti/cittadini finisce per modificarsi: il diritto di ricevere passa in secondo piano rispetto al dovere di contribuire e alla maggiore responsabilizzazione dell’individuo, a cui vengono riconosciuti solo aiuti temporanei funzionali al reinserimento lavorativo, soggetti peraltro alla disponibilità di bilancio.
Con la pandemia del 2020 le politiche di austerità che avevano segnato drammaticamente la gestione della crisi del 2008 subiscono una brusca interruzione. Ritorna l’idea che lo Stato debba agire come regolatore dell’economia, anche se cambiano le logiche che ne sono alla base: un intervento non più orientato a ridurre le disuguaglianze, ma ad affermare una sorta di compatibilità tra efficienza ed efficacia, tra solidarietà e produttività. Alla forte domanda di protezione sociale non corrisponde più la stessa consapevolezza del passato circa la sua sostenibilità economica, né la stessa disponibilità a finanziare il welfare con le tasse. Uno scenario, dunque, favorevole allo sciovinismo del welfare. L’elemento di novità risiede piuttosto nella saldatura tra una visione conservatrice regressivamente nazionalista e l’ideologia incentrata sulla meritevolezza. L’elemento chiave del liberalismo, l’eguaglianza giuridica, si rovescia nel suo contrario: il riconoscimento del diritto a ricevere è condizionato all’esibizione di caratteristiche personali e al soddisfacimento di obblighi comportamentali. Da questa prospettiva, lo sciovinismo del welfare rappresenta in modo emblematico un progetto «illiberalmente liberale» [Joppke 2007], in cui si intreccia una forma esasperata di nazionalismo e neoliberismo autoritario. La rappresentazione dell’immigrazione come fonte di potenziali problemi fornisce linfa vitale all’argomento sciovinista: è necessario decidere a chi spettino le poche (o sempre minori) risorse; e questo porta come conseguenza la razzializzazione della povertà.
Il tema del welfare è tornato paradossalmente al centro dell’attenzione politica con l’affermazione dei partiti della destra radicale. Concetti come “nativismo” (la primazia dei membri del gruppo originario), “autoritarismo” (la convinzione che esista una società rigorosamente ordinata e uno Stato forte), “populismo” (ideologia «sottile» che divide la società in popolo «puro ed élite corrotta», nella definizione che ne ha dato il politologo olandese Cas Mudde) forniscono risposte tanto efficaci quanto ambigue alla crisi. Il successo della destra radicale ha radici economiche che affondano nella retorica dei cosiddetti «perdenti della modernizzazione», di quei cittadini che hanno perso o rischiano di perdere il proprio status e avvertono l’immigrazione e il mutamento della struttura sociale come minacce da cui difendersi. È su questo terreno che si compie la sconfitta dei partiti tradizionali, e della sinistra in particolare. Incapaci di difendere i ceti popolari tradizionali dalle sfide del mondo globale, subiscono lo slittamento del conflitto sul terreno della mobilitazione antiestablishment (contro le caste) e delle politiche di preferenza nazionale. L’immigrazione, in particolare, rappresenta agli occhi della destra radicale il fattore cruciale, non solo perché alimenta la competizione per l’accesso ai posti di lavoro e alle prestazioni sociali, quanto per la minaccia che porta ai valori fondativi dell’identità nazionale fomentando quello che Pippa Norris e Ronald Inglehart hanno definito «contraccolpo culturale» (Cultural backlash, Cambridge University Press 2019), una reazione ai cambiamenti indotti dalle élite progressiste, che assumono le forme molteplici del cosmopolitismo, del multiculturalismo e dell’ambientalismo e che amplificano tra i gruppi sottoprivilegiati la sensazione di essere arretrati, superati, minacciati nel proprio sistema di valori.
La politica italiana degli ultimi anni ha rappresentato un laboratorio eccezionale di sperimentazione per la destra radicale. In quanto esponente dell’internazionale sovranista, la Lega ha da tempo compreso l’opportunità politica di allargare i suoi consensi a un elettorato orfano della sinistra e penalizzato dalla crisi. Con l’ascesa di Salvini, la Lega ha riarticolato le sue istanze in chiave nazionalista, sdoganando nel panorama italiano i temi dell’antieuropeismo e dell’anti-immigrazione e ponendo l’attenzione sulla necessità di tutelare il mercato interno, le aziende e la forza lavoro nazionali esposte ai processi globali dell’economia. Ma questo spazio politico occupato a lungo in solitaria si è fatto più stretto con l’affermazione di Fratelli d’Italia (FdI). Più della Lega, attorno all’anti-immigrazione il partito di Meloni ha elaborato una visione sovranista in cui la patria e il patriottismo assumono un ruolo centrale, declinandosi sul piano economico nei termini della difesa del Made in Italy e dei principali assets nazionali, ma all’interno di una visione non invasiva della regolazione statale.
Se si guarda al posizionamento ideologico e a quello sui valori socioculturali, la connotazione della classe politica leghista e di Fratelli d’Italia risulta addirittura più estrema di quella di molti partiti europei della stessa famiglia politica. Siamo quindi in presenza di formazioni che spingono fortemente sul terreno del riconoscimento di uno spazio autonomo della destra. Anzi, con l’affermazione elettorale di Fratelli d’Italia nel 2022 si è amplificata una dinamica di concorrenza interna il cui effetto è stato quello di enfatizzare posizioni ostili all’inclusione degli immigrati, abbinate a proclami che propagandano la riscoperta della famiglia, della natalità, della solidarietà di una comunità nazionale tutelante per i «suoi» cittadini più deboli, dentro un modello di welfare minimo che rifugge da visioni assistenzialistiche attribuite a misure quali il Reddito di cittadinanza, ossia a interventi che si fondano più su un riconoscimento di un diritto e meno sul criterio della meritevolezza (in chiave nazionale).
Questo quadro politico ha creato un terreno favorevole al radicarsi di una forma rinnovata e aggressiva di sciovinismo del welfare, ma il fallimento delle politiche che ne conseguono è evidente anche in termini economici, oltre che etici e politici. L’importanza (o la necessità) del contributo degli immigrati sul piano occupazionale e demografico è ormai riconosciuta anche da alcune formazioni politiche di centro-destra più radicate nei territori, che antepongono la concretezza della gestione politica-amministrativa alle battaglie ideologiche. Lo stesso governo nazionale, nel suo primo anno di storia, ha palesemente sconfessato i proclami scomposti dei suoi esponenti, tutti improntati al contrasto intransigente dell’immigrazione, approvando un decreto flussi superiore nei numeri a quello del 2022, anche se ancora insufficiente a soddisfare la domanda di manodopera. Decreto che, mentre prospetta una qualche apertura, perpetua l’irregolarità come tratto peculiare delle politiche migratorie italiane, accompagnandosi a orientamenti fortemente ostili allo ius soli o scholae e alla negazione della protezione temporanea per ragioni umanitarie. In questa prospettiva, l’esperienza della migrazione non viene declinata in alcun modo nei termini di un diritto, ma come una concessione elargita dallo Stato in relazione alle proprie necessità e profilata secondo logiche di affinità culturale: possono entrare quelli che sanno integrarsi facilmente senza creare problemi di sicurezza, gli sfollati bianchi cristiani spesso di sesso femminile (come ha mostrato la vicenda ucraina), i bambini africani malnutriti o adottati mentre restano invisi gli adolescenti musulmani, considerati tendenzialmente aggressivi e radicalizzabili.
Mai come dopo il voto del giugno 2024, il welfare corporativo è arrivato al capolinea. È infatti proprio nei paesi rappresentativi di questo modello – ossia nel cuore dell’Europa, e in particolare in Francia e in Germania, oltre che in Italia – che i partiti della destra estrema si affermano in modo clamoroso. Si tratta di contesti dove, storicamente, il welfare state è riuscito a proteggere le fasce tradizionalmente più forti e organizzate del mondo del lavoro – quelli che una volta si chiamavano «i garantiti» – ma dove oggi non è più in grado di farlo o non ne ha la volontà: per via dei continui tagli alle risorse dedicate, per la pressione delle altre domande di intervento sociale da parte di gruppi sociali emergenti, per la perdita di centralità simbolica e culturale (in ultima istanza, di futuro) della composita classe operaia e di parte del ceto medio di questi paesi.
La soluzione liberale-liberista, visti anche i magri risultati delle formazioni centriste pro-mercato, non appare praticabile. E neppure lo è il tentativo dei partiti socialisti di eludere il problema spostando la risposta sul piano culturale della difesa generica dei diritti, giocando spesso di rimessa su temi specifici seppure importanti (nel caso italiano il salario minimo, la sanità pubblica, la difesa dell’ambiente), ma al di fuori di un progetto politico-economico più complessivo, capace di indicare uno sbocco alla crisi del capitalismo democratico e volto a proteggere ciò che si ritiene siano gli interessi dei cittadini nazionali.
Non che il piano culturale non conti: la destra radicale ha guadagnato consensi proprio offrendo una «visione» del futuro, ma, a differenza delle controparti mainstream, è stata in grado di posizionare questa visione in modo efficace dentro un immaginario che, al di là della sua credibilità effettiva, promette di sanare il vulnus socioeconomico aperto dalle crisi e da presunte élite che comandano nell’ombra. Come leggere, altrimenti, l’insistenza ossessiva sullo sciovinismo – che è la risposta «concreta» a problemi reali quali la crescita delle disuguaglianze, il declino del welfare pubblico, l’impreparazione delle società occidentali di fronte alla pressione migratoria – i cui effetti collaterali (l’esclusione dei non cittadini) vengono fatti digerire a una fascia di elettori ben più ampia della destra identitaria proprio grazie a un abile lavoro di tessitura culturale del vestito stretto (ce n’è solo per noi e non per quelli «diversi» da noi per valori, storia, abitudini, religione).
I risultati delle ultime elezioni nazionali ed europee dovrebbero quindi suggerire alle forze politiche mainstream di ripartire dallo strappo democratico dovuto al logoramento dei diritti sociali, vecchi e nuovi. Uscendo da scorciatoie inefficaci che strizzano l’occhio alla tecnocrazia (i liberali), a identità sociali a-conflittuali (i socialisti) o al rifugio del tradizionalismo etico (i conservatori), per riprendere il coraggio di confrontarsi su posizioni alternative di società nella dinamica classica del governo-opposizione, e non sotto la copertura delle grandi alleanze.
FONTE:https://gliasinirivista.org/prima-agli-italiani-lo-sciovinismo-allassalto-del-welfare/
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