20 anni di Euro e 30 anni di Maastricht – Un bilancio fallimentare
di TELEBORSA
(Guido Salerno Aletta)
E’ stato un successo eccezionale, sostengono in tanti, avendo superato con successo già due fasi eccezionalmente critiche che avrebbero dovuto mandarla in pezzi.
Non è sufficiente paragonare l’Euro al Dollaro, in una sfida volta a sottrargli il ruolo di protagonista assoluto, affermando che il suo successo è dimostrato dal fatto che è utilizzato da centinaia di milioni di persone, che rappresenta una quota assai consistente delle riserve ufficiali delle Banche centrali di tutto il mondo, e che è il riferimento per un’ampia percentuali delle transazioni commerciali ed internazionali.
Il punto non è solo verificare quanti Euro ci siano in circolazione, quante persone lo usino correntemente, quante transazioni internazionali commerciali o finanziarie lo prendono a riferimento: la sua debolezza intrinseca è dimostrata dal fatto che una grande maggioranza dei contratti derivati, quelli con cui gli operatori economici si coprono dalle fluttuazioni e quelli finanziari speculano, hanno come riferimento le rischiosità dell’euro, ed in particolare i tassi di interesse. Questi ultimi rappresentano infatti uno dei riferimenti principali per valutare la solidità prospettica di una moneta.
Nel primo semestre del 2021, i dati della Banca dei Regolamenti internazionali non lasciano dubbi: rispetto ad un valore nozionale totale di tutte le tipologie di contratti derivati OTC, pari a 610 mila miliardi di dollari, quello dei derivati sugli interessi è stato di 488 mila miliardi. Di questi, 178 mila miliardi (36%) riguardavano gli interessi in dollari e 140 mila miliardi (28%) gli interessi in euro. Rispetto al totale dei contratti derivati, quelli sugli interessi in euro rappresentano il 23% del totale globale e planetario: una enormità.
E’ ben vero, dunque, che l’Euro è una moneta che circola ampiamente, ma è ancor più vero il fatto che la percentuale dei contratti di copertura dei rischi degli interessi in euro è enormemente superiore alla proporzione che la Moneta unica ha negli scambi internazionali.
La Moneta Unica Europea cerca di tenere sotto controllo economie troppo diverse tra di loro, con rischi che il mercato percepisce chiaramente.
A partire dal 2002, il primo decennio era trascorso tranquillamente, ma solo in apparenza: nel silenzio generale, infatti, montavano le tensioni derivanti da squilibri enormi. Alcuni Paesi, come la Grecia ed il Portogallo, erano sempre, strutturalmente ed in modo crescente, debitori verso l’estero sotto il profilo commerciale e finanziario; altri, come la Spagna e l’Irlanda, avevano un sistema bancario sempre più indebitato verso l’estero.
L’Italia proseguiva intanto nella estenuante operazione di risanamento delle finanze pubbliche iniziata a valle della crisi valutaria del 1992: i vincoli al deficit posti dal Trattato di Maastricht e la politica di bilancio che accumulava annualmente consistenti avanzi primari, avevano consentito di ridurre il rapporto debito/PIL. Una dinamica inflazionistica leggermente superiore a quella media europea ed una crescita reale dell’economia italiana assai più modesta di quella degli altri partner impoverivano il Paese, anno dopo anno. Il vantaggio che abbiamo avuto dalla entrata in circolazione dell’euro è stata la stabilizzazione verso il basso dei tassi di interesse sul debito pubblico: l’ombrello dell’euro ci ha fatto comodo, anche se rimaneva più alto il livello dei tassi di interesse pagati dalle imprese italiane rispetto alle concorrenti tedesche o francesi. Questo fattore ci ha penalizzato, oltre alla severità della finanza pubblica: ad una Moneta Europea Unica per le transazioni commerciali corrispondeva infatti una Moneta Europea Differenziata per le operazioni finanziarie.
Nel biennio 2010-2012, a valle della Grande Crisi Finanziaria americana, l’Eurozona è stata colpita da una triplice tempesta: dapprima quella che ha investito i sistemi bancari di Germania, Francia, Belgio, Olanda ed Austria che si erano esposti in titoli statunitensi rivelatisi illiquidi e senza valore; poi quelle che hanno colpito i debiti pubblici di Grecia, Portogallo ed Italia, e derivanti dalla enorme esposizione verso l’estero dei sistemi bancari di Irlanda e Spagna.
Mentre i debiti pubblici europei lievitavano velocemente a causa della caduta del prodotto interno e di una dinamica economica assai contenuta per via delle politiche di austerità e di risanamento strutturale che erano state definite attraverso il Fiscal Compact, la BCE è dovuta ritornare rapidamente sui suoi passi, con una politica monetaria estremamente accomodante: la Exit Strategy delineata all’inizio del 2011 si stava rivelando catastrofica. Tra i tassi di riferimento portati a zero, la penalizzazione crescente dei depositi delle riserve bancarie, le Ltro (operazioni di finanziamento a più lungo termine) e le T-Ltro (variamente finalizzate) e gli acquisti di titoli sul mercato culminati nel Qe a partire dal marzo 2013, la BCE ha inondato di liquidità le banche ed il mercato.
Tutti ricordano le fiammate dello spread che ha colpito il debito italiano: non solo nell’estate del 2011, prima che arrivasse il governo Monti ad introdurre altre correzioni draconiane, ma anche nell’estate del 2012, dopo che erano state assunte. La BCE, per Statuto, non può intervenire a sostenere i corsi dei titoli di Stato: la baldoria è continuata per mesi, fino alla attivazione del Qe.
La attivazione del Qe, con acquisti di titoli di Stato proporzionati al PIL di ciascun Paese rappresentato nella BCE (Capital Key) ha portato ad un abbassamento drastico dei tassi, portandoli in territorio negativo per tante scadenze e per tanti Paesi: anche l’Italia ne ha beneficiato, per i titoli a breve. Ma questo ha significato ribaltare quello che sembra essere l’ordine naturale della finanza, con gli investitori che sovvenzionano i creditori. La Corte costituzionale tedesca, sulla base di precisi ricorsi, ha chiesto alla BCE di giustificare la sua condotta, lesiva degli interessi dei risparmiatori. Insomma, anziché tagliare i picchi insostenibili, la BCE ha schiacciato tutti i tassi di interesse verso il basso, ad un livello negativo che scoraggia gli investimenti in euro e li dirotta verso il dollaro.
La situazione si sta facendo ancora più complessa in questi ultimi mesi, visto che il tasso di inflazione in Germania è assai più alto di quello di altri Paesi, come Francia e Italia. I prezzi degli asset immobiliari stanno schizzando alle stelle: i tedeschi ritirano i propri soldi dalle banche o dai Fondi di investimento per acquistare case. Insomma, è un pasticcio.
Resta il fatto che l’Italia ha ora un livello di debito pubblico enorme e che il venir meno della copertura da parte della BCE potrebbe far alzare ulteriormente lo spread rispetto ai Bund: è già sui 130 punti base mentre il PEPP ed il Qe sono ancora in corso.
C’è da temere il peggio, perché la BCE è tenuta a comportamenti simmetrici: in alcuni casi, come la Germania, i tassi sono troppo bassi e quindi devono salire per evitare distorsioni; in altri casi, come l’Italia, sono appena giusti e tirarli su creerebbe guai grossi.
C’è poco da fare: una Moneta Unica è disfunzionale quando deve gestire economie troppo diverse tra loro, con debiti pubblici enormemente differenziati: la Germania ha un rapporto tra il 65/70% del PIL, l’Italia tra il 155/160%.
C’è una sola verità incontestabile: da 30 anni, dal 1992, l’Italia si trova con un doppio vincolo, fiscale e valutario, da cui non può uscire per via dei Trattati europei, della adesione all’Euro e del Fiscal Compact.
La riduzione dei salari, la compressione della domanda interna, la elevata pressione fiscale e la riduzione costante dei servizi pubblici hanno toccato un livello difficilmente superabile. Il PNRR non ha avuto sin qui concreti svolgimenti, mentre l’inflazione sta erodendo il potere di acquisto delle famiglie e minando gli equilibri delle imprese.
A 30 anni di distanza dalla adozione del Trattato di Maastricht, ed a 20 anni dalla entrata in circolazione dell’Euro, l’Italia è in difficoltà enormemente più gravi di allora: niente crescita, infrastrutture pubbliche abbandonate, smantellamento delle grandi industrie, disoccupazione giovanile, invecchiamento della popolazione, redditi sempre più incerti, abbandono delle Università ed emigrazione dei più qualificati. Ed un debito pubblico che non è mai stato così elevato nella Storia, eccetto che alla vigilia del Fascismo.
Nelle relazioni economiche e sociali, si è perseguita la competitività di prezzo rispetto ai competitori internazionali, il che ha significato ridurre i salari, precarizzare i rapporti di lavoro e ridurre la domanda interna: in queste condizioni, nessun privato ha investito per aumentare la capacità produttiva o anche solo per scalare la catena del valore.
Ci si è accontentati di sfruttare gli investimenti già esistenti: i profitti si sono salvati, ma sono stati reinvestiti sempre più all’estero, finanziando i nostri competitori. Anche l’avanzo delle partite correnti, da anni strutturale, non viene reimpiegato nella economia reale.
Per tenere sotto controllo il deficit di bilancio si è adottata la strategia dell’avanzo primario, che ha trasferito alla rendita finanziaria consistenti quote delle imposte, tagliando gli investimenti infrastrutturali che avrebbero aumentato la produttività.
La Moneta Unica Europea ci ha vincolato sotto il profilo del cambio commerciale, ma ci è stata ostile sotto il profilo finanziario visti i più elevati tassi di interesse pagati dalle imprese. La protezione apprestata contro la speculazione sul debito pubblico è stata tardiva, temporanea e mai risolutiva: i Mercati sono pronti ad imperversare nuovamente.
Un disastro.
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