di OTTOLINATV (Giuliano Marrucci)
Quando gli USA erano Great sul serio, il governo spendeva una quantità inverosimile di quattrini in ricerca di base, due terzi della ricerca era finanziata con soldi pubblici e alla ricerca era destinato oltre il 10% della spesa pubblica. Oggi i 3 quarti della ricerca sono finanziati dal privato e il governo spende per la ricerca poco più del 2% del budget federale. Ora però è arrivato Trump che vuole rifare l’America great again, e cosa fa? Taglia fino al 50% dei fondi federali per la ricerca. Sono tutti “marxisti maniaci e lunatici”, ha dichiarato. Risultato: il 75% dei ricercatori stranieri se ne vorrebbe andare. Potrebbe non essere esattamente un affarone. La metà delle startup che valgono più di un miliardo sono state fondate da cervelloni che erano arrivati negli USA per studiare. L’Europa vuole cogliere la palla al balzo, c’ha fatto pure un programma, “Choose Europe for Science”, si chiama, 500 milioni per attrarre i talenti in fuga dagli USA, e altri 100 milioni ce li mette Macron, che però nel frattempo taglia di un altro miliardo e mezzo i fondi delle università francesi. Vogliono fare le nozze con i fichi secchi. Nel frattempo, la Cina ha annunciato un altro aumento del 10% di fondi pubblici per ricerca e sviluppo. È solo l’ultimo di una lunga serie, e si vede. Nel 2015 Pechino ha annunciato il piano Made in china 2025. Allora, tra le prime 10 istituzioni accademiche in termini di ricerca scientifica di alta qualità, solo una era cinese, e 5 erano statunitensi. Dieci anni dopo, 8 sono cinesi, e due statunitensi. Chi vincerà questa partita?
“L’alta tecnologia è diventato la prima linea e il principale campo di battaglia della competizione internazionale, rimodellando profondamente l’ordine globale e il modello di sviluppo”, Xi Jinping ha le idee chiare – da almeno una decina di anni. Era il 2015, e Pechino annunciava “Made in China 2025”. Da lì in poi, lo sviluppo di quelle che sono state definite le “tecnologie emergenti critiche” è diventata la priorità di tutti i protagonisti della vita economica del Paese, pubblici e privati. L’obiettivo era accompagnare l’intera società cinese attraverso un altro epocale “balzo in avanti”, per colmare il gap tecnologico che, dopo quasi 40 anni di riforme e aperture, ancora la separava dal centro imperiale. E, magari, superarlo. Dieci anni dopo, ammette Foreign Affairs, “la Cina sta dando filo da torcere agli Stati Uniti”. Nell’ultimo trimestre del 2024, BYD ha superato Tesla nella vendita di veicoli elettrici a batteria: il suo ultimo sistema di ricarica permette di accumulare un’autonomia di 400 chilometri in meno di 5 minuti, un quarto di Tesla. A marzo la Commercial Aircraft Corporation of China, di proprietà statale, ha pubblicato i progetti per un jet supersonico a lungo raggio che fa meno rumore di un phon. Sempre a marzo, Pechino ha fatto la storia delle comunicazioni quantistiche inviando immagine crittografate quantisticamente al Sudafrica, utilizzando un piccolo satellite ultraeconomico, e oggi la Cina vanta il record assoluto di nuovi progetti, di brevetti e anche di dottorati di ricerca in tema di fusione: la benzina per la rivoluzione dell’intelligenza artificiale prossima ventura. In tutti questi casi gli USA hanno reagito sempre in un modo solo: cercando di mettergli i bastoni tra le ruote. Il lancio a gennaio di DeepSeek ha dimostrato che, scrive sempre Foreign Affairs, “prima o poi, la Cina troverà il modo di aggirare qualsiasi ostacolo Washington provi a imporle”.
Trump e il suo team hanno capito la lezione e sono passati al contrattacco. Come? Rilanciando col protezionismo, e tagliando i fondi federali per la ricerca universitaria. Negli ultimi 80 anni la ricerca universitaria è stata uno dei principali motori dello sviluppo tecnologico USA: internet, le reti neurali, il calcolo quantistico, il sequenziamento del DNA, la stampa 3D, non c’è tecnologia di frontiera dal dopoguerra ad oggi che non affondi le sue radici nel sofisticato, e ricchissimo, ecosistema della ricerca universitaria a stelle e strisce. E a lungo, a metterci i soldi era il governo federale. Negli anni ‘60, l’era della competizione con l’Unione Sovietica, il 10% del bilancio federale andava in ricerca e sviluppo. Oggi che a Pechino c’è un competitor decisamente più attrezzato, si arriva a malapena al 3. Ma soprattutto, a mancare sono proprio i fondi governativi per la ricerca accademica. Secondo un rapporto pubblicato nel 2023 dall’OSCE, nella classifica della spesa accademica come percentuale del PIL, tra 32 nazioni gli USA si sono classificati appena al 23esimo posto. Il CHIPS Act del 2022 doveva invertire la tendenza: l’obiettivo era raddoppiare il bilancio della National Science Foundation entro il 2027. Il Congresso però non ha mai finito di stanziare i fondi, e nel 2024 invece di aumentare il fondo è stato ulteriormente diminuito.
Nel frattempo, la Cina annunciava un aumento del 10% della spesa del governo centrale per scienza e tecnologia, con un focus in particolare sulla ricerca di base. Stando al Nature Index, l’indice che monitora la produzione scientifica a livello globale, nel 2016 cinque delle prima dieci istituzioni accademiche al mondo in termini di ricerca di alta qualità erano statunitensi, e solo una cinese. Nel 2024, otto sono cinesi, e solo due americane. E tutto questo prima che arrivasse Trump. Con l’arrivo di Re Donaldo, la situazione è precipitata: l’amministrazione ha dichiarato una guerra senza quartiere a uno dei centri nevralgici dell’egemonia USA per motivi ideologici. Troppi liberali, ma sopratutto tanti, troppi marxisti. “Quando tornerò alla Casa Bianca”, aveva dichiarato subito dopo il trionfo elettorale, “licenzierò gli accreditatori della sinistra radicale che hanno permesso alle nostre università di essere dominate da marxisti maniaci e lunatici”. Detto fatto. Agenzie di ricerca: via il personale. Assegnazioni dei fondi: congelate. E anche i finanziamenti già approvati, via. National Institutes of Health, Dipartimento dell’Energia, National Science Foundation. Nonostante da 30 anni non perda occasione per parlare male di qualsiasi cosa che venga da oltre Atlantico, ho sempre provato un’invidia enorme per queste istituzioni leggendarie. Ora il compagno Trump procede ad affossare pure loro. Che cucciolo. Neno 40% al National Institutes of Health, meno 53 alla NASA, meno 57 alla National Science Foundation.
Ed è solo l’inizio, perché la potenza della ricerca made in USA si fonda su una gigantesca rapina, la rapina dei cervelli di mezzo mondo, tirati su coi soldi delle nostre tasse nei nostri sistemi formativi accessibili a quasi tutti mentre, come sottolineava la settimana scorsa il WSJ, negli USA anche una famiglia con un reddito di 300 mila dollari l’anno, le università migliori non se le può permettere. Vengono da fuori il 64% degli studenti che conseguono un dottorato in informatica o in scienze dell’informazione, il 57% di quelli di ingegneria, e il 54 di matematica e statistica. E il 25% delle startup statunitensi di dimensioni maggiori ha uno fondatore arrivato negli USA dall’estero per studiare. “Gli stati uniti” ammette Foreign Affairs, “beneficiano da tempo di un’enorme fuga di cervelli, con gli scienziati e gli ingegneri più talentuosi del mondo che si trasferiscono nelle università di ricerca statunitensi per insegnare e apprendere. Ma con i tagli ai finanziamenti, la censura accademica e le politiche ostili sull’immigrazione, l’amministrazione Trump sta provocando una fuga di cervelli senza precedenti”.
I numeri fanno paura: secondo un sondaggio di Nature, la bellezza di 3 ricercatori su 4 stanno prendendo in considerazione l’idea di andarsene. “Centri di ricerca in città come Barcellona e Madrid stanno ricevendo decine di candidature da parte di scienziati che fino ad ora erano rimasti negli USA. Ricercatori illustri di orgine cinese in settori essenziali per la competitività USA, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dalla matematica alla fusione nucleare, stanno lasciando le principali università statunitensi per tornare in Cina”. Secondo quanto riportato da Foreign Affairs, le università di ricerca stanno limitando il numero di studenti laureati ammessi e di ricercatori post-dottorato assunti, e alcune stanno addirittura revocando offerte già presentate. La National Science Foundation ha dimezzato il numero di borse di studio per laureati. E in un sondaggio della National Postdoctoral Association, dopo 6 settimane di presidenza Trump, il 43% degli intervistati avrebbe dichiarato che la propria posizione era “minacciata”, e il 35% che la propria ricerca era “ritardata o comunque a rischio”. Forse, e dico forse, potrebbe non essere il modo migliore per colmare il gap con la Cina, che contro i 150 mila ingegneri sfornati ogni anno dagli USA, ne sforna 1 milione e mezzo. Come sottolinea ancora Foreign Affairs, “l’amministrazione Trump sembra dare per scontata la leadership degli USA in ambito scientifico e tecnologico. Sarebbe una catastrofe. Gli USA non sono diventati una superpotenza tecnologica e scientifica perché i suoi cittadini sono creativi, ma perché abbiamo costruito il miglior sistema al mondo per scienza e innovazione. Che però ora è sotto attacco”.
Il ruolo della ricerca accademica come motore dello sviluppo è un’invenzione tedesca. Siamo all’inizio del XIX secolo, e i fondatori dell’Università Humboldt di Berlino hanno un intuizione che cambierà per sempre il ruolo della scienza nello sviluppo economico. Insegnamento e ricerca devono essere collegati, la libertà accademica deve essere un valore assoluto, e la ricerca non deve perseguire l’utilità immediata. Lo stato deve sostenere la ricerca, ma non dirigerla. Risultato: nell’arco di un secolo circa 10 mila studiosi statunitensi sono venuti a fare ricerca in Germania. Alcuni di questi fondarono poi la prima università di ricerca degli Stati Uniti, la John Hopkins. a Baltimora. Era il 1876. Il MIT, in Massachusetts Institute of Technology, era stato fondato 10 anni prima, ma non si faceva ricerca di base, ci si limitava alle scienze applicate e all’ingegneria, solo cose di utilità immediata. Per diventare un centro di ricerca e fondare i primi laboratori dovranno aspettare mezzo secolo, quando l’allora presidente Henry Pritchett si reca in Germania per un viaggio accademico, e decide di cambiare tutto. Poi è arrivata la seconda guerra mondiale, e gli USA hanno capito che finanziare la ricerca di base era fondamentale per vincere la guerra, e una volta finita la guerra hanno realizzato che era arrivato il loro turno di guidare l’innovazione scientifica, al posto dell’Europa ridotta in macerie. Nei decenni successivi solo gli studenti e i ricercatori usciti dal MIT hanno fondato oltre 30 mila aziende, che impiegano 4,6 milioni di persone e generano quasi 2 mila miliardi di dollari di fatturato. Quelli usciti da Stanford ne hanno fondate 40 mila, che impiegano 5,4 milioni di persone e fatturano 2.700 miliardi l’anno. Secondo la Federal Reserve, gli investimenti governativi in ricerca di base hanno contribuito ad almeno un quinto della crescita produttiva USA dal dopoguerra ad oggi. La American University ha stimato che tagli del 25% ai fondi governativi per la ricerca, ridurrebbero il PIL USA del 3,8%. Trump propone tagli fino al 50.
L’Europa vorrebbe approfittarne. Ieri Macron e Von der Leyen hanno lanciato dalla Sorbona il progetto “Choose Europe for Science”: 500 milioni di euro tra il 2025 e il 2027 per attirare studenti e ricercatori in fuga dagli USA, più altri 100 da parte dell’Eliseo. Una barzelletta: la Francia ha appena approvato un taglio dei fondi all’università da 1 miliardo e mezzo. D’altronde qui in ballo, come sempre, c’è la difesa della libertà, e della democrazia. “Nessuno avrebbe potuto pensare che questa grande democrazia del mondo, il cui modello economico è così basato sulla scienza libera, avrebbe commesso un tale errore”, ha dichiarato Macron. “L’Europa deve diventare un rifugio”, ha sottolineato con enfasi, “perché senza una scienza libera si perde quel che rappresenta il cuore delle democrazie liberali occidentali”. Peccato che, come ricorda il buon Roberto Ciccarelli sul manifesto, “In Francia ci sono state sanzioni disciplinari ai ricercatori che hanno espresso la solidarietà al popolo palestinese e sono state vietate conferenze e seminari sulla situazione a Gaza”. Se invece che buttarla in caciara con i soliti dissing tra le fazioni del partito unico si volesse approfittare di questo ennesimo passo falso di Trump, il piano ci sarebbe già. Si chiama “ReBrain Europe”. L’esatto opposto del “ReArm”, fresco fresco di ok in commissione parlamentare dove, con il voto favorevole anche dei Patrioti, è passata la proposta del nostro Fitto: prendere soldi destinati allo sviluppo delle aree arretrate, e metterle a disposizione del riarmo. Con procedura d’urgenza. Mentre ReArm Europe è sostenuto dai mangiapane a ufo del partito unico, a firmare ReBrain sono stati 2000 scienziati europei. Prevede 100 miliardi di euro finanziati con Eurobond, da aggiungere ai bilanci attuali. Chissà se è concepibile fare uno strappo al patto di stabilità per investire in qualcosa che invece che uccidere le persone, magari le salva.
Quello che su entrambe le sponde dell’Atlantico sembrano essersi dimenticati tutti, è che il Capitalismo è un ottimo sistema per far fare un sacco di soldi a qualcuno. Ma un pessimo sistema per far crescere tutti gli altri. Quando c’è stato vero sviluppo, la formula è sempre stata molto semplice: soldi pubblici, per istituzioni pubbliche. Il capitale al limite può arrivare dopo, per appropriarsi un po’ di beni comuni, trasformarli in merci, e farci un sacco di quattrini. Se Trump aspetta di ottenere gli stessi risultati grazie ai suoi amici della Paypal mafia, bona ugo. E se Ursula e Macron vogliono provare ad approfittarne con qualche programma spot mentre continuano a tagliare la spesa pubblica, addio. Il punto è che entrambi sono stati programmati per governare nell’era della Fine della Storia e del There is no Alternative, e adesso che la Storia s’è rimessa in moto, e un’alternativa non solo c’è, ma è necessaria, non sanno che pesci prendere, e quindi, devono andare #tuttiacasa. Ma per mandarceli, serve una grande mobilitazione popolare.
Ti aspettiamo al teatro Il Piccolo di Napoli domenica 11 maggio alle 16 per un’altra tappa del nostro tour #tuttiacasa e soprattutto, sabato 24 maggio in piazza San Babila a Milano per una vera e propria manifestazione nazionale per dare vita a una vera e propria costituente contro il sistema guerra. Ma per scatenare prima, e sostenere poi, una vera mobilitazione popolare, serve un media, un vero e proprio media, indipendente, ma di parte, e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo, aderisci alla camapgna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal. E poi, per mandarli #tuttiacasa, da oggi c’è anche un codice segreto, 92054980450, è il codice fiscale di Multipopolare, il codice segreto per dichiarare guerra al pensiero unico. Coi loro soldi. Inseriscilo nella tua dichiarazione dei redditi, e destina il tuo 5XMILLE a Multipopolare.
E chi non firma è MANUELINO MACRON.
Commenti recenti