“Dopo i sei giorni”: l’ora zero della politica dei territori
DA LA FIONDA (Di Giuseppe Gagliano)

Come il gabinetto Eshkol trasformò una vittoria militare in un progetto strategico permanente
L’11 giugno 1967, mentre la polvere della guerra non si era ancora depositata, il governo di Israele si riunì per la prima volta a porte chiuse per prendere atto della nuova realtà: in tre giorni di combattimenti Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza, Sinai e Golan avevano ridisegnato la carta del Medio Oriente. Non era solo una conquista geografica. Era un cambio di paradigma. Sotto il controllo israeliano c’erano ora centinaia di migliaia di palestinesi: una massa demografica destinata a condizionare per sempre sicurezza, economia e politica. Levi Eshkol parlò al Paese come a una comunità che aveva appena superato un confine storico: “Gerusalemme unita capitale eterna” fu la frase-simbolo. Ma la vera discussione, quella che avrebbe segnato i decenni successivi, avvenne nella stanza del governo: che cosa fare dei territori e delle persone?
Sette giorni per una dottrina
Nei giorni successivi, un ristretto comitato per gli affari della Difesa – di fatto il cuore decisionale – fu incaricato di definire la linea. Il mandato era ambizioso e concreto: tenere o restituire? governare direttamente o indirettamente? integrare o separare? concedere diritti o amministrare un’“eccezione permanente”? Dopo una settimana di tentativi, la materia fu riportata al plenum del tredicesimo governo. Sorprendentemente, il gabinetto, così ampio e diviso per famiglie politiche, arrivò in fretta a una piattaforma: permanenza prolungata, gestione differenziata, nessuna espulsione di massa ma nessuna piena cittadinanza, e una grammatica doppia – un linguaggio per la scena internazionale, uno per l’amministrazione militare. Era la matrice di ciò che chiamiamo ancora oggi “status dei territori”.
Le quattro domande che hanno fondato una politica
La scelta si articolò su quattro nodi: il destino dei territori, il destino della popolazione, la narrazione da offrire al mondo come “proposta di pace” e la persuasione dell’opinione pubblica israeliana.
1. Il territorio. La linea Eshkol-Alon prese forma attorno a un concetto di “confine di sicurezza” spostato sul Giordano e alla creazione di una cintura strategica nella Valle. Il messaggio implicito: Cisgiordania e Gaza venivano sottratte al perimetro di un negoziato vero, mentre all’esterno si lasciava filtrare l’idea di una disponibilità condizionata al ritiro. Il fiume, esile e tutt’altro che invalicabile, fu eletto a totem geografico per legittimare una presenza a tempo indeterminato. Gerusalemme, subito “unita”, divenne l’emblema dell’irreversibilità.
2. La popolazione. L’espulsione di massa sul modello del 1948 fu esclusa. Ma si scelse un sistema che consentisse di governare una maggioranza palestinese senza assorbirla nello Stato: amministrazione militare, catasto e registro sotto controllo, mobilità regolata, lavoro pendolare, poteri locali limitati. La formula “annessione di fatto senza annessione di diritto” cominciò a operare: integrare ciò che serviva (strade, manodopera, aree chiave), separare ciò che minacciava la maggioranza ebraica (cittadinanza, rappresentanza).
3. La vetrina diplomatica. Abba Eban sollecitò un lessico presentabile: l’autonomia come “offerta di pace”, la transitorietà come promessa. La sostanza, però, restava unilaterale: il ritiro diventava subordinato a condizioni difficilmente raggiungibili, trasformandosi in un differimento sine die.
4. L’opinione pubblica interna. Il governo doveva convincere un Paese ancora stordito: grandezza della vittoria, senso di vulnerabilità, sogno biblico, calcolo strategico. Il risultato fu una pedagogia nazionale che sommava memoria, sicurezza e pragmatismo: “fatti sul terreno” come garanzia, processi lenti come antidoto agli strappi.
“Bastone e carota”: la logica del controllo
Il dispositivo operativo prese la forma di un equilibrio mobile: incentivi per chi collaborava, restrizioni per chi resisteva. Permessi di lavoro, licenze edilizie, servizi e infrastrutture venivano dosati come leva politica; al contrario, chiusure, curfew, blocchi e revoche fungevano da dissuasione. Non era un’invenzione ex novo, ma un adattamento di pratiche coloniali e militari a un territorio densamente abitato e con forte mobilitazione politica. La chiave non era sfollare tutti, ma governare molti condizionandone le scelte individuali: se volevi restare, subivi la pressione dell’espulsione; se volevi emigrare, incontravi ostacoli. Il controllo era tanto amministrativo quanto psicologico.
“Annessione senza annessione”: l’architettura giuridica
La decisione più ingegnosa – e più controversa – fu il ricorso a una giungla normativa capace di incorporare spazi e risorse senza formalizzare un atto di sovranità. Ordinanze militari, espropri per pubblica utilità, definizione di “terra di Stato”, piani regolatori selettivi: una cassetta degli attrezzi che consentiva di espandere insediamenti, proteggere corridoi, collegare aree strategiche. Persone e diritti restavano “fuori”, infrastrutture e controllo entravano “dentro”. Era una soluzione che piaceva alla destra revisionista per i suoi effetti concreti, e che la sinistra di governo accettò per realpolitik e per evitare il rischio dello Stato binazionale.
Gaza e Cisgiordania: unità di destino, differenza di trattamento
Nelle riunioni di giugno, Gaza e Cisgiordania furono spesso nominate assieme. Nella prassi, però, maturò una differenziazione: Gaza come spazio più cupo, campi profughi, memoria della guerriglia, densità eccezionale; la Cisgiordania come scacchiera di città, campagne e alture con valore strategico e affettivo. L’idea di “disimpegno” da Gaza, maturata trentotto anni dopo, ricalcava proprio quella dicotomia: comprimere il peso demografico della Striscia, tenere il baricentro sulla Cisgiordania.
Demografia come strategia
Al centro, un fatto semplice: geografia e demografia sono inseparabili. Chi difende lo Stato ebraico teme l’assorbimento di una grande popolazione palestinese; chi difende la pienezza del territorio biblico teme la rinuncia alla “Giudea e Samaria”. La dottrina dei Sei Giorni scelse una via mediana: controllo territoriale capillare, crescita insediativa, nessuna naturalizzazione di massa. Ne derivò un regime ibrido: israeliani come cittadini con diritti pieni, palestinesi come amministrati soggetti a leggi militari e a un’autonomia condizionata.
Economia dell’occupazione: costi, rendite, interdipendenze
Sul piano economico, il nuovo ordine produsse una doppia dinamica. Da un lato, costi vivi di sicurezza, protezione infrastrutturale, presidio amministrativo; dall’altro, rendite: manodopera a basso costo per edilizia e agricoltura israeliane, nuovi mercati di sbocco per beni e servizi, uso strategico del territorio per logistica, acqua ed energia. L’interdipendenza fu costruita con cura: facilitare l’accesso al lavoro in tempi “calmi”, restringerlo quando serviva una pressione politica. È una leva che ha condizionato bilanci familiari palestinesi, salari, migrazioni interne e consumi, e che ha alimentato nel lungo periodo sia dipendenza sia risentimento.
Sicurezza e dottrina Alon: profondità, cerniere, corridoi
La prospettiva militare fu tradotta in geografia operativa: fascia orientale lungo il Giordano come profondità strategica, controllo delle alture per superiorità di osservazione e fuoco, corridoi viari che tagliano e connettono, punti d’appoggio permanenti. La “profondità” non è una parola astratta: significa tempi di reazione, linee di rifornimento, possibilità di contenere o ritardare un’offensiva. Nella mente dei pianificatori, i territori dovevano trasformarsi in una cintura elastica: non frontiera simbolica, ma spazio funzionale alla difesa.
Diplomazia del doppio registro
La politica estera adottò la tecnica della “finestra e della stanza”: alla finestra, la disponibilità a trattare, il lessico della pace, il richiamo al diritto internazionale; nella stanza, la pianificazione di lungo periodo per consolidare la presenza. Non inatteso, dunque, che nei decenni successivi ogni tornante diplomatico – dalla Risoluzione 242 a Oslo – sia stato affiancato da ondate amministrative e urbanistiche capaci di ridisegnare la realtà sul terreno. La formula era perfettamente razionale nell’ottica di chi vede la sicurezza come bene supremo e non si fida della tenuta regionale.
Effetti sull’ecosistema regionale
La scelta israeliana intervenne su un mondo arabo diviso tra retorica unitaria e interessi statali. L’Egitto post-1967 cominciò un percorso di recupero che avrebbe portato a Camp David; la Giordania vide confermata la propria vocazione di cuscinetto e arbitro silenzioso; la Siria trasformò il Golan in frontiera ideologica e militare. La causa palestinese, nel frattempo, acquisì centralità, diffondendo la consapevolezza che la “questione profughi” non era un residuo del 1948, ma un cantiere politico permanente. La scelta israeliana di “gestire” piuttosto che “risolvere” divenne essa stessa un fattore di stabilità instabile: niente guerra totale, niente pace definitiva.
L’opinione pubblica israeliana: tra estasi e inquietudine
Se l’euforia del giugno 1967 fu palpabile, non mancò l’inquietudine: tenere i territori significava tenere anche le persone. Da qui il compromesso interno: sacralità di Gerusalemme e dei luoghi, spinta insediativa per chi la voleva, cauto pragmatismo di chi temeva lo Stato binazionale. La pedagogia politica raccontò che “il ritiro è possibile se…”. Quel “se” divenne il tappo che chiudeva la bottiglia.
Gaza e i campi: il laboratorio del controllo
La Striscia, già dagli anni Cinquanta epicentro di incursioni e rappresaglie, fu descritta come il luogo più ostile e problematico. La densità dei campi profughi rese evidente il dilemma: come garantire sicurezza quotidiana in un’area senza profondità strategica e con una popolazione giovane, povera e politicizzata? La risposta fu un manuale di misure amministrative, militari, economiche: check-point, registri, licenze, zone cuscinetto. L’idea di un “trattamento speciale” di Gaza – più duro, più intermittente, più esternalizzato – ha radici proprio in quelle settimane.
La macchina amministrativa: il potere del dettaglio
La novità del 1967 fu anche tecnica: un potere che si esercita sul dettaglio. Catasto, permessi edilizi, diritto d’acqua, quote di esportazione, piani urbanistici: centinaia di piccoli interruttori con cui accendere o spegnere possibilità di vita. È questa la sostanza della “governance dell’occupazione”: governare con la burocrazia ciò che sarebbe insostenibile governare soltanto con i carri armati. La “carota” crea routine, il “bastone” ricorda il confine.
Geopolitica della lunga durata
La dottrina di giugno non fu un incidente. Si innestò sulle logiche della Guerra fredda – Washington come garante ultimo, Mosca come sponsor arabo – e sulle dinamiche interne del sionismo, diviso fra universalismo laburista e nazionalismo revisionista. La sua forza sta nella capacità di adattarsi: con i processi di pace (quando ci sono), con le intifade, con i mutamenti del sistema regionale (Iran, Golfo, Turchia), con la globalizzazione delle cause e delle campagne. È una dottrina che accetta il conflitto a bassa intensità come prezzo di un obiettivo strategico.
Valutazione strategico-militare
Se giudichiamo con il metro della sicurezza, la scelta del 1967 ha dato a Israele profondità, linee di interruzione, “cime” di dominanza. Ha ridotto l’alea di un attacco convenzionale frontale e moltiplicato sensori e presenze. Ma ha anche trasformato il conflitto: meno guerra tra Stati, più guerra asimmetrica, logorante, ciclica. La “profondità” territoriale ha prodotto “vicinanza” sociale, cioè contatto costante, attrito quotidiano, vulnerabilità diffuse a coltellate, razzi, attentati, disordini. Militarmente, una difesa permanente richiede risorse permanenti; politicamente, logora consensi e reputazioni.
Valutazione geopolitica e geoeconomica
Sul piano geopolitico, la decisione ha ancorato Israele a un pilastro americano spesso solido e a volte condizionante. Ogni stagione della Casa Bianca – da Carter a oggi – ha chiesto un prezzo diplomatico per il sostegno militare. Sul piano geoeconomico, l’occupazione ha creato un mercato a parte, con interdipendenze che garantiscono leve a chi governa ma generano fragilità sistemiche: blocchi, boicottaggi, reputazione. L’innovazione israeliana – hi-tech, sicurezza, cyber – ha prosperato anche perché il Paese ha convissuto con un “laboratorio” di esigenze securitarie; ma quel vantaggio competitivo convive con il rischio di isolamento politico in determinate congiunture internazionali.
Il paradosso della promessa
Il linguaggio del 1967 conteneva un paradosso: promettere un ritiro come ipotesi teorica, costruire un’irreversibilità pratica sul terreno. Più passava il tempo, più la promessa si svuotava e la realtà si consolidava. Così la “transitorietà” divenne architettura. La pace, rimandata a un futuro perfetto, serviva a legittimare il presente.
Le continuità oltre gli uomini
Cambiavano i premier, cambiavano i ministri, mutavano gli equilibri di partito, ma la trama restava: gestione differenziata, infrastruttura insediativa, dipendenza economica regolata, superiorità militare sorretta da dottrina e tecnologia. Anche i momenti di rottura – dalla firma di trattati al disimpegno da Gaza – vanno letti come varianti della stessa partitura: ridurre il carico demografico dove è ingestibile, rafforzare i nodi strategici dove è possibile, conservare libertà di manovra.
Gerusalemme: politica, memoria, urbanistica
L’annessione de facto di Gerusalemme Est fu la mossa più simbolica e più strutturale. Non solo legge fondamentale e dichiarazioni solenni, ma strade, quartieri, istituzioni, archeologia e turismo: un’urbanistica della sovranità. Nella coscienza nazionale, la città unita divenne l’argomento che chiude ogni discussione: chi tocchi Gerusalemme, tocca la fibra del patto.
Una conclusione senza consolazioni
La settimana tra l’11 e il 19 giugno 1967 non è un capitolo chiuso nei manuali: è un motore acceso da quasi sessant’anni. In quei giorni si definì una politica con una logica interna ferrea: sicurezza come priorità; territorio come strumento; demografia come vincolo; economia come leva; diplomazia come schermatura. È una politica che ha dato a Israele forza e vulnerabilità, strumenti e dilemmi, gloria e logorio. Ed è una politica che ha consegnato ai palestinesi una vita scandita da permessi, cancelli, opportunità intermittenti e frustrazioni permanenti.
Se vogliamo capire perché il conflitto non si chiude, dobbiamo tornare a quelle riunioni. Lì è nato un ordine che non promette soluzioni rapide, ma impone costi lenti e cumulativi a chi lo esercita e a chi lo subisce. È l’essenza di un “dopoguerra infinito”, nel quale la guerra non è più l’evento ma l’ambiente. E dove ogni parola – pace, autonomia, sicurezza – è stata usata come un attrezzo, non come una meta.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/09/09/dopo-i-sei-giorni-lora-zero-della-politica-dei-territori/





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