La Palestina e i fantasmi del genocidio che ritornano
di LA FIONDA (Francesco Ricciardi)

Sin da ragazzo, formandomi sulla memoria della tragedia della seconda guerra mondiale e, in particolare, su quella dell’Olocausto, mi sono sempre domandato con preoccupazione come sia stata possibile tanta cattiveria da parte di tanti uomini e come molte altre persone fossero state complici, tiepide o indifferenti.
Colpiva, tra l’altro, il fatto che il principale responsabile di tale tragedia — le cui più numerose e note vittime furono gli ebrei — fosse una delle nazioni più istruite e culturalmente avanzate del mondo.
Mantenere viva la memoria di quella tragedia non fu facile per i sopravvissuti, ma era importante: tanto che, col tempo, molti di essi cominciarono a testimoniare quanto accaduto. Ne seguì un opportuno e fondamentale lavoro di preservazione e diffusione della memoria, finalizzato non solo a rendere omaggio alle vittime, ma anche, e soprattutto, a scongiurare che un evento simile potesse ripetersi.
Questa memoria dell’Olocausto – in particolare della Shoah – è così parsa diventare pacificamente condivisa dalla quasi totalità delle realtà politiche, sociali, istituzionali e culturali; insomma, almeno formalmente, dalla società intera, con l’ovvia eccezione dei pochi neonazisti e “affini”.
Il termine genocidio — ossia “il compimento di atti delittuosi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, secondo la Convenzione internazionale del 1948 — divenne una parola tremenda, in grado di allarmare governi e società civile ogni volta che ne veniva ipotizzata la commissione.
Lo abbiamo visto alla fine del secolo scorso, nei casi del Ruanda e della Bosnia Erzegovina. Era una parola che obbligava l’ONU e i governi di tutto il mondo a reagire, come previsto dalla Convenzione e confermato dalla Corte Internazionale di Giustizia. Tanto che furono istituiti tribunali internazionali specificamente volti a punire tale crimine, insieme a quelli contro l’umanità e di guerra.
Tuttavia, negli ultimi due anni, tutto questo patrimonio giuridico e morale è parso improvvisamente venir meno, destando seria preoccupazione.
Sono infatti riemerse, in modo inquietante, figure pronte a sostenere, giustificare o minimizzare i massacri di massa nella Striscia di Gaza, ovvero a mostrarsi tiepide nei confronti del genocidio odierno.
Chi di questi è consapevole della gravità del termine “genocidio” e delle conseguenze del suo accertamento, si rifugia in sofismi per negarne l’attribuzione a tali massacri.
Colpisce che ciò avvenga nonostante l’impegno profuso per decenni nel coltivare la memoria di ottant’anni fa, affinché “non accadesse mai più”. Evidentemente, per alcuni, quella memoria è servita soltanto a vantaggio di un solo popolo.
Ci si dovrebbe chiedere perché ritorni oggi questo orrore.
Una prima spiegazione — certo non giustificabile — è che i gravi crimini di diritto internazionale stiano avvenendo ad opera di Stati appartenenti al campo geopolitico più forte, a danno di un popolo debole, povero, ininfluente e privo di Stato.
Paradossalmente, queste stesse nazioni avevano storicamente concepito e realizzato la rete di norme internazionali a tutela dei diritti umani.
Proprio questo dato dovrebbe far riflettere e indignare per la sua palese ipocrisia, oltre a destare forte preoccupazione: la violazione di quei principi da parte degli stessi Stati che li hanno proclamati ne provoca la svalutazione e mette in crisi i valori e la memoria storica su cui si fonda la convivenza tra le nazioni.
Con quei principi l’umanità aveva raggiunto uno dei livelli più alti di civiltà — pur con tutte le sue contraddizioni — ma ora essi paiono profondamente messi in crisi da quanto sta accadendo in Palestina per opera di Israele, mentre buona parte dei governi occidentali si mostra complice, tiepida o silente.
Questo genocidio, che assume le forme di una pulizia etnica — immediatamente percepibile a Gaza e più strisciante in Cisgiordania — coinvolge pesantemente la coscienza storica del continente europeo, soprattutto per la specificità dei suoi autori: gli ebrei (sebbene limitatamente a quelli di Israele), che furono le principali vittime dell’Olocausto e di precedenti persecuzioni e discriminazioni in Europa.
Ci si sarebbe dunque dovuti aspettare che fossero la coscienza critica più vigile contro ogni persecuzione, specie genocidaria; invece, trovarli ora dalla parte opposta è motivo di profondo turbamento.
Accade anche, in una parte minoritaria dell’opinione pubblica, che l’attuale condizione di Israele susciti un opposto sentimento: quello di un popolo considerato intoccabile, cui non si può imputare alcun crimine, avvolto da un vittimismo eterno e irresponsabile, che di fatto lo pone in una condizione di impunità.
Chi osa criticare viene accusato — ingiustamente ma gravemente — di antisemitismo.
Un simile atteggiamento, oltre a essere strumentale, rischia di alimentare sentimenti antigiudaici e, insieme, di banalizzare la parola antisemita, che invece deve conservare la sua eccezionale gravità come forma di razzismo estrema, e non divenire un’arma contro ogni legittima critica alla politica di uno Stato.
Vi è poi un altro fattore di turbamento: il fatto che il popolo ebraico è all’origine del cristianesimo e dell’islam, ed è il “popolo eletto” delle Sacre Scritture.
In esse si parla di Israele come di un popolo che attende Dio, che invoca pace e giustizia, che combatte i nemici e riceve la Terra promessa.
Oggi, però, Israele compie i crimini che conosciamo — nella stessa terra di Gesù — e spesso invocando quelle stesse scritture. È inevitabile che ciò susciti domande e turbamento anche sul piano religioso e spirituale.
Questa vicenda israelo-palestinese non ci riguarda solo sul piano umano, giuridico o geopolitico: ci coinvolge storicamente, culturalmente, spiritualmente e nella coscienza individuale e collettiva.
Potremmo dire che quella Terra Santa appartiene anche a noi — cristiani, musulmani e, in generale, genti di pace — e che va salvaguardata per ciò che rappresenta ed evoca per moltitudini di popoli in tutto il mondo.
Ci si deve dunque chiedere per quanto ancora si potrà continuare a guardare a questa tragedia soltanto in termini di convenienze economiche e rapporti di forza politica contingenti.
In questi giorni sembra esserci finalmente un progetto di pace sul tavolo che le parti, pur con incertezze e ambiguità, paiono intenzionate ad accettare.
Il piano è ambiguo, ingiusto, umiliante per i palestinesi, ma purtroppo l’unico possibile con gli attuali protagonisti politici. Potrebbe almeno fermare la mattanza di Gaza e permettere ai gazawi di smettere di morire, di fuggire per la paura e di tornare a sperare in una vita normale.
Tuttavia, è davvero arduo chiamare “pace” l’eventuale attuazione di questo piano: troppe ingiustizie, troppe ferite nel corpo e nell’anima, troppa umiliazione, troppi traumi e troppo odio generato dal massacro di questi anni, con terre rubate e vite sospese ai capricci di uno Stato occupante.
La pace, in genere, nasce da una vittoria non iniqua o da un accordo tra Stati, o ancora da un intervento di forza di terzi che impongano condizioni.
Qui, invece, la guerra si fermerà solo perché lo accetterà la nazione occupante — l’unica delle due a essere uno Stato — quando lo riterrà conveniente.
I palestinesi ne escono distrutti, spaventati, umiliati, consapevoli di avere di fronte un nemico che può colpirli impunemente, che non ha pietà di malati e bambini, che può arrivare a compiere un genocidio senza che nessuno intervenga, che può annullare ogni diritto.
Un nemico che può continuare a opprimerli senza limiti.
Quella che seguirà potrà semmai essere, per dirla con Primo Levi, soltanto una “tregua”.
Gli Stati di buona volontà potrebbero però fare molto, in questa tregua, per evitare un nuovo massacro e il perpetuarsi delle ingiustizie: alleviare le ferite, costruire soluzioni giuste e durature, creare condizioni eque di convivenza.
Ci vorranno tempo, determinazione e capacità, ma tutto questo richiede necessariamente il ripristino e l’effettiva applicazione del diritto internazionale costruito faticosamente nel Novecento — malgrado le infelici dichiarazioni di chi, come il Ministro degli Esteri Tajani, sostiene che il diritto internazionale “vale fino a un certo punto”.
Il contesto è desolante, e oggi non è facile individuare governi che abbiano, oltre alla volontà, la capacità di svolgere questo delicato compito.
Sta di fatto che, mentre in Occidente si discute e si fanno congetture, la Palestina continua a morire.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/10/07/la-palestina-e-i-fantasmi-del-genocidio-che-ritornano





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