Un Nobel val bene una messa
di LA FIONDA (Giusi Di Cristina)

«La satira politica è divenuta obsoleta da quando il Premio Nobel per la Pace è stato dato a Henry Kissinger» (Tom Lehrer, autore e compositore satirico).
Erano gli anni Settanta e il Premio Nobel per la pace venne assegnato a Le Duc Tho, il politico e rivoluzionario vietnamita che fu il capo della delegazione del Vietnam del Nord ai trattati per la pace in Vietnam con gli Stati Uniti, e ad Henry Kissinger, segretario di Stato degli USA. Il motivo del duplice premio erano appunto gli Accordi che avrebbero portato alla fine di una guerra che aveva trucidato da una parte il popolo vietnamita – pur non piegandolo, anzi – e dall’altra un’intera generazione nordamericana, costretta alle armi.
Le Duc Tho, però, rifiuta il premio, affermando che nel suo Paese la pace non era affatto stata raggiunta, visto che i combattimenti continuavano a sud.
Kissinger, al contrario, il premio lo accetta eccome. Peccato che era il medesimo Kissinger ideatore del Plan Condor, che stava assicurando sostegno economico, militare e politico alle sadiche dittature latinoamericane.
D’altronde, da eccellente realista qual è, il segretario di Stato sa bene quanto sia necessario influenzare i destini dei Paesi che servono al benessere e al mantenimento dello status quo delle sfere d’influenza. Ed è una pratica politica talmente accettata, talmente ritenuta normale che persino l’altra parte, l’URSS, non si scompose minimamente, riconoscendo i nuovi dittatori a capo dei rispettivi Paesi.
A corollario delle azioni di politica estera aggressiva, il soft power veniva agito per raggiungere anche l’ultimo dei cittadini del mondo e convincerlo che gli Stati Uniti, in fondo, aggiustavano le cose, stavano coi buoni, fornivano le soluzioni corrette a chi rischiava di corrompersi a causa del socialismo o, peggio, del comunismo.
E perché non farlo anche attraverso il Premio Nobel per la Pace?
Le istituzioni occidentali hanno da sempre sostenuto e difeso un determinato modello di mondo: l’eurocentrismo ha sdoganato pratiche aberranti come il colonialismo, fatto passare come legittime le invasioni, accettato le distruzioni e i massacri quando utili ad aumentare la potenza di un grande Stato occidentale. Spesso persino chi era vittima del sistema eurocentrico lo sosteneva, vivendolo come ineluttabile o addirittura giusto.
«Colonialidad del poder» la chiamava Anibal Quijano, aggiungendo all’analisi anche il richiamo alla razza, concetto inventato appositamente per costruire una gerarchia dell’umanità e un presunto destino biologico di una parte a dominarne un’altra.
Quijano era peruviano: scriveva forte di un’esperienza diretta che ha aiutato spesso altri grandi studiosi latinoamericani a redigere analisi che hanno apportato elementi nuovi e originali, più volte in rottura anche con la parte più vicina (si pensi a come il marxismo occidentale ha compreso a fatica, quando non rigettato in toto, gli approcci politici latinoamericani).
Oggi il metodo non è cambiato: il Nord globale continua a voler dettare la linea politica ed economica rispetto al Sud (o, a mio parere, ai differenti Sud), attraverso un sistema ben oliato di hard e soft power.
E il Premio Nobel per la Pace fa parte di questo sistema, oggi come ieri.
A parte qualche rarissima eccezione (Martin Luther King o Rigoberta Menchú), il premio è stato sempre legato a una precisa lettura della realtà, da cui i promotori della pace o dei diritti umani possono essere di una parte politica. Già con la nascita della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’Accademia degli Antropologi denunciava che quella dichiarazione sottoponeva il mondo a una forma di “giustizia” che stava solo da una parte, appunto.
È di qualche giorno fa la scandalosa assegnazione del Premio Nobel per la pace del 2025 a María Carina Machado. Scandalosa per due ragioni: non risulta che abbia fatto qualcosa per la pace e ha suggerito, al contrario, azioni violente contro il suo stesso Paese, nel suo stesso Paese.
María Carina Machado è figlia di un ricco imprenditore, direttamente coinvolto nelle grandi aziende dell’acciaio e dell’energia elettrica che durante l’era di Chávez sono state nazionalizzate. Machado si è formata in scuole d’élite, per poi perfezionarsi in Massachussetts e a Yale. Ad un certo punto ha deciso di dedicarsi alla politica e lo fa partecipando attivamente al colpo di Stato che nel 2002 tenta di far fuori Chávez: è al fianco dell’autoproclamato presidente ad interim Pedro Carmona e firmataria del decreto di scioglimento dell’Assemblea Nazionale. In effetti, già dall’inizio della sua carriera, si nota come il pacifismo è la cifra rilevante della sua azione politica.
Per consolidare la sua posizione crea Súmate, una ong che riceve ingenti finanziamenti dagli Usa e viene accolta da G.W.Bush alla stanza Ovale, come diretta interlocutrice del governo statunitense in Venezuela.
Se durante il mandato di Obama, Machado chiedeva sanzioni molto più forti nei confronti di personaggi politici del suo Paese, con l’arrivo di Trump Machado si è convertita in un personaggio chiave, che ha sistematicamente accolto positivamente non solo le sanzioni individuali ma anche la stretta economica contro il Venezuela (soprattutto il divieto di vendere petrolio, prima e più importante risorsa venezuelana), che ha spinto il Paese verso una crisi senza pari. Il tentativo di allentamento delle pressioni, suggerito dall’amministrazione Biden, è stato duramente criticato da Machado, in quanto troppo morbido.
Le critiche hanno avuto fine con l’avvento del secondo Trump e il ripristinarsi di minacce e operazioni di forza contro il Venezuela. La signora Machado ha spesso invocato la necessità di un intervento armato contro il suo stesso Paese, condividendo la posizione dell’ex ambasciatore statunitense in Venezuela, Cile e Colombia William Brownfield secondo il quale per portare la pace in un Paese si deve ricorrere a qualsiasi misura drastica, sia essa una invasione militare o lasciare i cittadini senza cibo.
Insomma un rinnovato Plan Condor, senza neppure cambiare di copione.
María Corina Machado è la prima cittadina venezuelana a ricevere un Nobel per la pace, con queste motivazioni: «per il suo instancabile lavoro nella promozione dei diritti democratici per il popolo venezuelano e per la sua lotta per raggiungere una transizione giusta e pacifica dalla dittatura alla democrazia».
Rimangono almeno due enormi quesiti alla luce di questa premiazione. Il primo è legato alla comprensione di quali siano i criteri secondo cui invitare i Paesi stranieri ad invadere militarmente il proprio Paese (è spuntato anche un documento in cui la pacifica signora Machado invita il presidente Netanyahu a mandare truppe per salvare il Venezuela) equivarrebbe a proporre transizioni pacifiche e democratiche, rispettose dei diritti umani.
Il secondo è l’ubriacatura della pseudo sinistra governativa italiana che si spertica in applausi per questa premiazione, aggiungendo che non si poteva premiare Trump. Peccato che Machado abbia dedicato il premio proprio a Trump (mi meraviglio non l’abbia dedicato anche a Netanyahu). A questo coro felice e sognante si è unita, immancabilmente, anche una parte di pseudo intellighenzia, che non riesce più ad unire un paio di informazioni concrete e vive della medesima propaganda dei detestati Salvini e Meloni.
A conferma che Quijano aveva ragione: non è quanto abbiamo studiato, ma quello che ci fa sentire al sicuro.
FONTE:https://www.lafionda.org/2025/10/13/un-nobel-val-bene-una-messa/





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