Da Marx a Musk
di LA FIONDA (Giuseppe Libutti)
Elogio del mecenatismo nell’era del capitale assoluto

Nel cuore di Roma antica, un assegno milionario basta a riscrivere il rapporto tra pubblico e privato: la sinistra, orfana del conflitto, celebra la benevolenza del potere mentre abdica al suo ruolo storico.
Una volta c’era una sinistra che denunciava le disuguaglianze come prodotto di un sistema economico ingiusto. Oggi quella stessa sinistra si commuove davanti alle donazioni simboliche dei miliardari.
L’ultimo esempio è arrivato con la Musk Foundation, che ha stanziato un milione di dollari per la tutela dei siti della Roma antica: una cifra modesta per un patrimonio personale smisurato, ma sufficiente a scatenare una serie di commenti celebrativi che confermano quanto la retorica filantropica abbia ormai pervaso anche gli spazi del pensiero critico.
Come da copione, Il Sole 24 Ore ha esaltato l’iniziativa parlando di “collaborazione virtuosa” tra pubblico e privato, di “innovazione tecnologica” applicata alla cultura e di “valorizzazione” della storia di Roma. Parole d’ordine che appartengono a un lessico ben rodato, utilizzato da anni per rendere accettabile l’intervento del capitale in ambiti che dovrebbero restare nella sfera pubblica.
Ciò che manca, in tutto questo entusiasmo, è una riflessione seria sul fatto che un patrimonio storico millenario debba oggi dipendere dalla generosità arbitraria di un imprenditore americano, e non da un investimento pubblico strutturale, garantito e trasparente.
Il silenzio è ancora più assordante se si pensa che Elon Musk, fino a ieri, veniva additato da molti ambienti progressisti come simbolo di un capitalismo aggressivo, tecnocratico, autoritario: l’uomo delle uscite ambigue sull’estrema destra, dei licenziamenti di massa, della “libertà” intesa come totale deregolamentazione.
Eppure, di fronte a un assegno a sei zeri, anche le critiche più dure sembrano dissolversi. Il “nemico di classe” si trasforma in benefattore, e la riconoscenza prende il posto del dissenso.
Ma la filantropia non è mai un gesto neutro. Non è restituzione, ma esercizio di potere. Chi dona sceglie dove intervenire, cosa finanziare, quali priorità imporre all’agenda pubblica. E così, mentre lo Stato arretra, il capitale occupa spazi crescenti, non solo nella gestione dei beni culturali ma nella definizione stessa di ciò che è rilevante per la collettività.
Questa logica non si limita alle donazioni. Sempre più spesso le imprese si presentano come soggetti sociali attivi, capaci di “prendersi cura” della comunità. Lo fanno attraverso fondazioni, programmi di responsabilità sociale, campagne ambientali, ma anche — e sempre più — attraverso il coinvolgimento diretto dei dipendenti in attività di volontariato aziendale, raccolte fondi, iniziative benefiche.
Il tutto spesso gestito tramite piattaforme dedicate, fornite da intermediari che trasformano la solidarietà in servizio e la cittadinanza in prestazione.
In parallelo, il cosiddetto welfare aziendale si è evoluto in un vero e proprio sistema parallelo, che spazia dalla sanità integrativa alle agevolazioni fiscali, dai buoni spesa alle convenzioni per l’istruzione o il tempo libero. Ma dietro questa apparente generosità si nasconde una dinamica molto più profonda: invece di aumentare i salari e riconoscere una retribuzione piena, le imprese costruiscono un sistema di benefici vincolati che rafforza la dipendenza del lavoratore dall’azienda e consolida il suo ruolo di soggetto “grato” e fidelizzato.
Le iniziative di welfare aziendale, presentate come forme di attenzione verso i bisogni delle persone, finiscono così per rafforzare ulteriormente il potere dell’impresa. Non si tratta di redistribuzione, ma di una gestione controllata delle risorse, che modella comportamenti, orienta scelte, crea identità. Il dipendente non è più solo un lavoratore, ma diventa anche volontario, testimonial, ambasciatore del “bene” promosso dall’azienda.
Il welfare smette di essere un diritto per diventare una leva di consenso.
Questo processo contribuisce a una trasformazione culturale profonda, in cui si normalizza l’idea che la salute, l’istruzione, la cultura — ciò che dovrebbe essere garantito dallo Stato — possano essere affidati ai privati. Si svuota la politica del suo ruolo, si deresponsabilizza il pubblico, si costruisce una cittadinanza fondata sulla riconoscenza anziché sulla rivendicazione di diritti.
Il linguaggio cambia: si parla di “collaborazione”, “sussidiarietà”, “impegno sociale”, mentre nella sostanza si assiste alla lenta dismissione dello Stato e alla colonizzazione del bene pubblico da parte di soggetti privati.
Il caso Musk è solo uno dei tanti segnali di questa tendenza. Una società che affida la tutela del proprio patrimonio culturale ai miliardari, che sostituisce i diritti con i favori e la giustizia sociale con la beneficenza, è una società che ha già interiorizzato una sconfitta.
Una sconfitta politica, ma anche culturale: la rinuncia a immaginare un’idea diversa di collettività, fondata su responsabilità condivise e scelte democratiche.
Finché continueremo a celebrare come “virtuose” le briciole concesse da chi ha costruito la propria ricchezza dentro un sistema che produce esclusione, resteremo intrappolati nella logica che ha generato quella stessa disuguaglianza.
Il problema non è la generosità. È il potere.
E il potere, se non viene messo sotto controllo pubblico, non si limita a donare: occupa, trasforma, impone.
Non si riceve. Si conquista. E si regola. Democraticamente.
FONTE: https://www.lafionda.org/2025/11/03/da-marx-a-musk/





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