Alle radici della crisi della magistratura: un capitolo dello “Stato incostituzionale”
DA LA FIONDA (Di Geminello Preterossi)

L’indipendenza è una condizione “ontologica” di una magistratura realmente democratica e costituzionale: è e allo stesso tempo deve essere tale. Non è che esista in natura, l’indipendenza: è inevitabilmente basata su presupposti che sono di carattere storico, sociale e culturale. Ha bisogno di un habitat. Inoltre, è necessario chiedersi: indipendenza non solo in che senso, ma per che cosa? La mia tesi è che l’indipendenza sia innanzitutto in favore dell’attuazione costituzionale.
Se questo è, molto sommariamente, lo sfondo dell’incardinamento del potere giudiziario nel nostro sistema istituzionale, è necessario chiedersi: come siamo arrivati fin qui, cioè con un problema di legittimazione che investe in generale le istituzioni di garanzia, tra le quali la magistratura riveste un ruolo fondamentale, e da dove eravamo partiti? Originariamente, dalla grande spinta della Costituente, frutto dell’apertura, per nulla scontata nella storia italiana, di una finestra di opportunità rinnovatrice grazie al contributo delle forze popolari antifasciste. Ma questa svolta alla fine della tragedia della guerra fu seguita, a causa di Jalta, da un inverno costituzionale che nell’immediato dopoguerra bloccò quella spinta propulsiva, anche in virtù della cultura giuridica prevalente, ereditata dal fascismo. Poi, verso la fine degli anni Cinquanta, si aprì una stagione altamente positiva: il disgelo costituzionale, l’apertura a sinistra, la programmazione, l’innovazione politica in vista dell’attuazione concreta del disegno costituzionale dal punto di vista dei diritti sociali. In tale solco si è sviluppato un ruolo attivo della giurisdizione negli anni Sessanta e Settanta, che però – ricordiamolo bene – si è saldato proficuamente a un ruolo, che continuava a essere centrale, della rappresentanza. Cioè la giurisdizione era un avamposto nella società, i giudici erano se si vuole delle “sentinelle” della Costituzione nel sociale, e però poi le scelte politiche di fondo maturavano sul terreno del confronto politico (pensiamo allo Statuto dei lavoratori, a tutte le riforme civili e sociali degli anni ’70, ma già prima ce n’erano state di importantissime: oltre la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il piano casa, la scuola unica). Riforme che maturavano in Parlamento, cioè in quel circuito legittimazione-responsabilità, partecipazione politica organizzata e delega democratica, che oggi è in crisi. In crisi, in particolare, è il rapporto, l’equilibrio, fra i due lati, quello garantistico e quello politico-progettuale, dell’assetto costituzionale: se in gioco oggi è il loro punto di equilibrio, ciò vuol dire che qualcosa è successo, che un equilibrio va ritrovato.
La magistratura vive oggi una condizione “amletica”, perché da un lato soffre una crisi di riconoscimento, dovuta al fatto che non ha più quel “consenso”, la cui ricerca per certi aspetti poteva anche apparire criticabile in astratto, ma che nella sostanza è corrisposto a un ruolo largamente positivo svolto dal potere giudiziario (o meglio da alcuni suoi settori, cioè da quegli avamposti che si sono ritrovati, per coerenza civile e fedeltà ai doveri costituzionali, in prima fila nel fronteggiare terrorismo, criminalità organizzata, stragismo, poteri occulti e corrotti, malaffare economico). Tali avamposti hanno rappresentato oggettivamente un presidio democratico, oltretutto in fasi particolarmente delicate della storia del Paese. Naturalmente anche allora esisteva una magistratura della palude, della convivenza se non della connivenza con certi poteri illegali e incostituzionali. Ma una parte allora significativa della magistratura, di cui quegli avamposti erano simboli, era impregnata di una cultura rigorosamente costituzionale, che prendeva sul serio l’innovazione rappresentata dalla Carta del 1948 in termini di trasparenza del potere, nesso tra libertà in relazione e uguaglianza sostanziale, giustizia sociale e cultura delle regole. Quel riconoscimento sociale diffuso, pertanto, era soprattutto relativo al contributo fornito dalla giurisdizione all’attuazione costituzionale. Adesso tale riconoscimento, se non è venuto meno del tutto, è certamente scemato, assai ridotto.
Naturalmente, dall’altro lato, ci sono stati, e tornano oggi, gli attacchi generici e strumentali al controllo di legalità in quanto tale, il cui vero fine non è quello di ricostruire un equilibrio tra giustizia e politica, ma di asservire la prima ai poteri dominanti, in nome di un garantismo peloso, che è solo un paravento. Un potere politico debole rispetto a quello economico pensa erroneamente di riconquistare centralità immunizzandosi dal controllo di legalità. Quegli attacchi sono non solo “esterni”, da parte di poteri illegali, ma anche “interni” al sistema politico-istituzionale (e alla stessa giurisdizione): quindi sulla questione giustizia c’è sì l’esigenza del tutto comprensibile e necessaria di difendere la funzione giudiziaria in quanto tale, ma soprattutto quella di fare dei distinguo, di guardare dentro le storture che minano la fiducia nella magistratura, perché altrimenti il modo di affrontare i problemi del sistema giustizia, che ci sono, diventa simile a quello di tifoserie schierate, sotto slogan e striscioni: così non si va da nessuna parte. La magistratura deve imparare a difendersi anche da quelle tendenze, ad essa interne, all’accomodamento, al quieto vivere, alla burocratizzazione, alla chiusura classista e corporativa. C’è un’obiettiva difficoltà a recuperare un punto di vista complesso. Ma si tratta di una questione generale: viviamo un tempo totalmente a-dialettico, che è frutto di una radicale de-storicizzazione.
Anche il mantra dell’efficienza e della produttività rischia di essere fuorviante: c’è un’evidente, intrinseca analogia sul terreno della fuga tecnocratica dal contenuto tra le sentenze da produrre celermente e in gran quantità, magari con l’aiuto della tecnologia, e la valutazione meramente quantitativa, estrinseca dei contributi scientifici nell’Università e in generale nelle istituzioni della ricerca e dell’alta formazione: ovvero, non conta tanto la qualità dell’argomentazione, non conta che si arrivi a una buona sentenza, convincente, non superficiale, conta che se ne sfornino tante e che siano tutte il più possibile uniformate secondo uno schema precostituito (una versione algoritmica della prevedibilità, che rischia di annullare la soggettività dell’interprete e la sua capacità di scendere in profondità, di cogliere la situazione nella sua complessità). Quanto di più distante dall’arte di giudicare.
Da tempo, assistiamo alla svalutazione del lavoro, che colpisce pesantemente i ceti popolari, e anche all’inferiorizzazione del ceto medio, per non parlare delle nuove povertà, di crescenti forme di esclusione inimmaginabili nel “trentennio glorioso”, della contrazione drastica della garanzia effettiva dei diritti sociali. C’è un arretramento poderoso dal punto di vista sociale, politico e culturale. Se non si vede questa tendenza generale e risalente, concentrandosi su diversivi per ragioni polemiche, si rischia di prospettare una lettura fuorviante della crisi di sistema nella quale siamo precipitati. Gli effetti di tale trend caratteristico dell’Italia del vincolo esterno tecnocratico e assolutizzato, dalla matrice politica bipartisan, si scaricano anche sulla magistratura e, mi pare, persino sul concorso per l’ingresso in magistratura: da un lato tecnicismo e nozionismo acritico, dall’altro le scuole private per preparare al concorso (tenute da docenti universitari, avvocati, notai e anche ex magistrati, dopo che finalmente, con grave ritardo, nel 2017 una circolare del CSM ha vietato l’insegnamento da parte di magistrati in servizio in tali scuole e una sentenza del TAR Lazio ha sancito la legittimità di tale circolare), non rappresentano un buon viatico per una magistratura di spessore, mentre sono molto funzionali a una magistratura monoclasse, corporativa, conformista, che è ben poco coerente con il disegno costituzionale.
La magistratura oggi non è più un organo di attuazione costituzionale, tanto per responsabilità proprie (soprattutto nel senso di un ripiegamento culturale che va contrastato con il coraggio di un discorso di verità), quanto per la dissennata aggressione minatoria portata avanti, grazie a precise complicità mediatiche, da poteri vari, pubblici e privati, interni ed esterni alle istituzioni, nei confronti dei giudici sgraditi, in quanto capaci, indipendenti perché veramente liberi (anche dal correntismo e dai corporativismi interni) e soprattutto davvero fedeli allo Stato costituzionale (e non agli accomodamenti da arcana imperii).
L’Italia ha vissuto una doppia crisi, nell’ultimo trentennio: una è quella che condivide con il resto dell’Occidente (una crisi globalista, che si sta rovesciando in un processo di deglobalizzazione, o di globalizzazione dimezzata, polemica). L’errore è stato scambiare globalismo con universalismo (o cosmopolitismo), così che ora per non affrontare le cause interne della crisi, cioè le responsabilità occidentali connesse alle derive del finanzcapitalismo, ci viene detto che dobbiamo fare la globalizzazione tra “amici”, contro l’altra metà del mondo: non proprio una grande idea, foriera di speranze. La seconda crisi è tutta nostra: è la storia di un Paese che aveva una sua relativa autonomia politica, nonostante fosse uscito sconfitto dalla guerra, che aveva nel complesso una classe dirigente (anche e soprattutto politica) di livello, e che ha realizzato alcune conquiste fondamentali. La svolta regressiva avviata alla fine degli anni Settanta, e poi consacrata nella teologia antidemocratica del vincolo esterno assolutizzato nel ‘92/’93, si è riflessa anche nella magistratura, che rischia di tornare ad essere “monoclasse”. Ma una magistratura monoclasse non può certo porsi come fattore propulsivo della realizzazione del progetto costituzionale: cioè di uno Stato sociale democratico delle masse, basato realmente su una formazione popolare di qualità, condizione necessaria per un’effettiva partecipazione dei ceti tradizionalmente esclusi, subalterni all’elaborazione dell’indirizzo politico.
Ma non ci sono solo questi aspetti, rilevantissimi, relativi alla politica interna sul terreno sociale. Ve ne sono di altrettanto importanti, peraltro connessi (perseguimento attivo della pace e della giustizia sociale stanno insieme), sul terreno della politica estera (ricordiamoci qual era, un tempo, durante la cosiddetta “prima Repubblica”, l’unica vera Repubblica, fondata sul dettato costituzionale, cha abbiamo avuto, pur tra gravi difficoltà e resistenze): il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, rispetto alla questione palestinese e in generale al mondo arabo, ma anche rispetto alle necessarie politiche di apertura a Est per promuovere la distensione e il disarmo, pur in un quadro realistico di alleanze. Evidentemente il successo dell’Italia nella sua proiezione politico-diplomatica, anche in chiave di politiche energetiche e di cooperazione economica, ha dato fastidio a qualcuno, magari anche a qualche amico e alleato. E infatti il nostro Paese ha conosciuto la demolizione del suo sistema politico (le “forze concrete” portatrici della costituzione materiale del 1948), sotto la spinta di un attacco interno, ma anche evidentemente in virtù di spinte esterne (senza le quali quell’opera di demolizione non sarebbe stata possibile). Ci siamo così avviati sul piano inclinato di una transizione infinita, che si è risolta in una decadenza inarrestabile, che ci ha condotto al “nulla di politica” che ci pervade, tra governi tecnici e governi “politici” che, pur con qualche compensazione identitaria parodistica, realizzano l’agenda Draghi e ossequiano i poteri del vincolo esterno, anche a costo di esporci ai rischi di una guerra totale in Europa e di ignorare la carneficina di Gaza. La crisi di legittimazione costituzionale che ne deriva, con i relativi, avventuristi tentativi di “riforma istituzionale” in atto da anni (fino a quello attuale, che investe anche la magistratura), è la conseguenza di tali processi strutturali.
C’è da dire, però, che un corpo politico non implode su se stesso senza che il processo di corrosione delle sue strutture portanti non fosse in atto da tempo. La “prima Repubblica” non ha retto l’urto delle conseguenze del 1989 perché era minata dall’interno: non solo dalle degenerazioni nel rapporto politica-economia (ciò su cui si è molto puntato, anche mediaticamente); ma anche da un’autoreferenzialità e un ripiegamento su se stesso del sistema politico che ha reso impossibile qualsiasi tentativo di autoriforma. Tuttavia, la ragione più profonda, a mio avviso, sta in un crollo spirituale, etico-politico, come se il Paese avesse perso la sua anima, quell’energia scaturita dalla Costituente, quell’ethos emancipativo di massa che aveva consentito un balzo in avanti senza precedenti e la fuoriuscita dall’invisibilità degli eterni esclusi della storia. Le origini di quel crollo del ‘92/’93, le cui cause sono complesse, e che forse se le cose avessero preso un’altra piega avrebbe potuto essere evitato, sono situate in una data precisa, spartiacque: il 9 maggio 1978, il giorno in cui si consuma il delitto Moro. Non solo perché con quei 55 giorni e il loro epilogo l’ultimo disegno politico ambizioso, ispirato ai valori costituzionali, della Repubblica è stato interdetto. Ma perché c’è dell’altro in quella vicenda oscura. Oscura, sì, cioè non chiarita, ma ormai sempre più evidenze sono davanti ai nostri occhi, basta voler vedere e documentarsi, per superare la verità di comodo, contrattata tra brigatisti e apparati dello Stato, che a lungo è stata imposta e che ormai non regge più. Ad esempio, basta leggere gli atti della Commissione Moro 2 presieduta da Giuseppe Fioroni (frutto anche dell’impegno di chi non ha rinunciato alla ricerca della verità, come Gero Grassi) o quelli della Commissione stragi presieduta da Giovanni Pellegrino, oltre che, naturalmente, alcuni importanti e seri studi storici come quelli di Miguel Gotor, senza dimenticare alcune inchieste coraggiose, tra cui quelle di Giovanni Fasanella e Paolo Cucchiarelli; o il docufilm Non è un caso, Moro, di Tommaso Minniti, ispirato ai lavori di Cucchiarelli, oscurato dai media mainstream, nel quale sono presenti tre testimonianze fondamentali: uno, riportata, di Tina Anselmi; le altre due dirette: quella di mons. Fabbri, che fu braccio destro di don Curioni, allora cappellano delle carceri, nella trattativa del Vaticano per salvare la vita di Moro; quella di Claudio Signorile, ribadita anche in un suo recente volume, scritto insieme a Simona Colarizzi e pubblicato da Baldini & Castoldi. È impressionante l’opera di rimozione, imbarazzato evitamento e distrazione/depistaggio che sistematicamente viene messa in atto, anche se con sempre maggiore difficoltà, su una serie di dati, evidenze e testimonianze imbarazzanti per la narrazione ufficiale. A proposito: la magistratura, in particolar modo quella romana, non ha nulla da dire, oggi, alla luce di tante novità e addirittura degli atti di una commissione parlamentare, sulla vicenda? Discorso che vale anche per altri tragici eventi, che rappresentano veri e propri snodi, tra cui quello, di cui ricorre l’anniversario in questi giorni, dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Due “sacrifici umani” che segnato la storia della Repubblica. Forte è la sensazione che certi terreni minati, da arcana imperii, non siano più così al centro dell’interesse della magistratura (tranne che per alcune eccezioni), e soprattutto che l’input di non avventurarsi su tali terreni venga dall’alto, come dimostrano anche certe sentenze “politiche” della Cassazione. Come se la ragion di Stato (ma di quale Stato, di quello “incostituzionale”?) dovesse prevalere ed essere sottratta allo scrutinio del controllo di legalità. Un’interpretazione molto discutibile del primato della politica (principio in sé ineccepibile), che diventa primato del potere opaco se non occulto.
Nel luglio del 1992 stavo scrivendo la tesi di dottorato: mi interruppi per vari giorni, dopo la strage di via D’Amelio che, a breve distanza da quella di Capaci, fu un altro colpo durissimo per l’Italia: pensai che fosse tutto inutile, persino continuare a studiare. Ho ripreso a scriverla perché ascoltai Nino Caponnetto dire (e speriamo che avesse e abbia ancora ragione) che occorreva reagire: «Dobbiamo farlo per Paolo e Giovanni, dobbiamo riprendere a lavorare. Forse non è vero che tutto è finito». Bisogna dire che in seguito abbiamo scoperto che già allora, e poi ancora successivamente, forze oscure si sono attivate perché “tutto finisse”. Bisogna ribadire, ad esempio, quello che i poteri ufficiali e il sistema mediatico di questo Paese cercano in tutti i modi di scansare: e cioè che quanto è ormai definitivamente accertato come verità giudiziaria, ovvero il depistaggio posto in essere da uomini dello Stato sulla strage Borsellino, è qualcosa di immane, di cui si fa ancora molta fatica a parlare, cercando di guardare, con imbarazzo, da un’altra parte: eppure in un Paese che non abbia perso l’anima le istituzioni non potrebbero distogliere così lo sguardo, insegnando di fatto una sorta di pedagogia della reticenza. Invece di praticare un “revisionismo mafioso” assai discutibile, che nega e rimuove fatti accertati e pretende di impedire indagini su determinati filoni scottanti, come sta facendo la Commissione Colosimo-Mori, bisognerebbe tentare di capire fino in fondo che cosa è successo allora, cosa c’è sotto quella terribile storia. Perché ci riguarda ancora, profondamente.
Nonostante la grande amarezza che tali vicende suscitano, c’è indubbiamente ancora un’eredità, un lascito, che ci ha portato a stimare la magistratura (o meglio, una sua parte) e a difenderne il ruolo. Però proprio per questo, oggi, non ci si può limitare a ripetere discorsi retorici e generici sulla magistratura nella sua interezza. È necessario riconoscere che qualche problema c’è, e c’è stato. La magistratura, se vuole essere rispettata, deve essere un presidio rigoroso, equilibrato e professionale di legalità costituzionale. In un passato ormai lontano ha dato, anche nelle sue realtà associative, un grande contributo culturale al rinnovamento in senso democratico e costituzionale dello Stato. È ancora tale? C’è ancora questa spinta civile e culturale? La provocazione che credo debba essere lanciata con coraggio, proprio oggi, è: non è che la magistratura si è un po’ imborghesita, normalizzata? Certamente non del tutto, non in certe realtà, ma è innegabile che sono accadute delle cose negli ultimi anni, assai gravi, che non sono state affrontate adeguatamente, e che non riguardavano una persona (il “caso Palamara”), ma un “contesto”, rivelativo di un sistema. Di quelle cose bisogna parlare apertamente, scavarvi e trovare delle soluzioni, altrimenti poi non ci si può lamentare se altri, proditoriamente, le strumentalizzano. Perché non si trattava di una “mela marcia”.





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