La libertà come specchio della banalizzazione surrettizia della complessità democratica
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Sofia Dalla Pozza)

Il concetto di libertà democratica viene sempre più messo al centro di discussioni e sermoni di rappresentanti della classe politica nazionale ed internazionale, i quali si servono dell’equivocità insita del primo termine e del blasone popolare di cui si fregia il secondo per mistificarne il significato generale. Riflettere sui pensieri che Alexis de Tocqueville ha elaborato e maturato può fornirci delle coordinate utili a considerare il tema e a leggere la realtà con maggior contezza della complessità delle dinamiche del mondo in cui stentiamo ad orientarci.
La libertà è di certo uno dei tratti precipui della democrazia: infatti, in essa non vi è (o meglio, non vi dovrebbe essere) la presenza di alcuna entità politica potenzialmente oppressiva e asservente, come è invece possibile che accada in uno Stato guidato da un uomo solo, da una cerchia ristretta di privilegiati o da un partito unico, la cui volontà può risultare facilmente svincolata da quella della massa popolare. E proprio l’argomento della libertà, così complesso da trattare senza scivolare nei terreni opposti ma speculari dell’anarchia e del dispotismo, ricorre sempre più frequentemente nei discorsi degli oratori che, con il proposito di far attecchire sulla coscienza collettiva il loro messaggio e accattivarsi il consenso di determinate categorie sociali, ne denunciano la violazione o la invocano facendo ricorso ad artefici retorici efficaci nel mascherare una inconsistenza argomentativa di fondo oppure nel celare un sottotesto che non si intende esprimere esplicitamente (e spesso le due eventualità non si escludono a vicenda).
Secondo costoro non vi è più libertà di opinione perché non possono esprimersi in modo fortemente discriminatorio verso le diverse minoranze senza essere criticati e tacciati di intolleranza, a dir loro immotivatamente. Costoro pretendono, in nome delle libertà di pensiero e di espressione, che le loro idee, chiaramente finalizzate alla disinformazione e alla propaganda partitica, vengano diffuse e riconosciute dell’indiscutibile autorevolezza che spetta ad una fonte affidabile ed incontestabile. Sostengono che la libertà di vivere in un Paese sicuro rende legittima la repressione del dissenso, a prescindere dalla modalità con cui questo dissenso si manifesta, e la censura della stampa che potrebbe turbare la quiete delle coscienze. Si ergono a difesa dell’identità nazionale invocando a gran voce (praticamente urlando) la libertà di disfarci di tutte le politiche che, contaminando le nostre tradizioni e i nostri valori con sistemi culturali a noi lontani, ci starebbero conducendo ineluttabilmente alla sostituzione etnica. Sono sostenitori di una libertà di mercato e d’impresa che non deve sottostare ad alcun regolamento, favorendo un’economia i cui numeri sono gli unici a poter dettar legge e che non tiene conto delle ripercussioni sociali che comporta. Vi è poi un fortissimo richiamo alla libertà di governo, intesa come il diritto della classe dirigente dello Stato di poter prendere provvedimenti che essa riconduce all’adempimento della volontà della Nazione tutta, dato che dal popolo è essa stata eletta – non importa in che percentuale rispetto gli aventi diritto al voto –, talvolta ammantando presumibili tentativi di violazione alla Costituzione (democratica!) del sacro e inviolabile diritto della sovranità popolare.
Questi sarebbero i segnali allarmanti della crisi della moderna democrazia, la quale risulta di conseguenza un sistema fondamentalmente inutile, se non un vero e proprio ostacolo alle libertà di ciascun individuo. Tuttavia, questa tesi non sussiste dal momento che le categorie di libertà citate poc’anzi, declinate come pura attuazione dell’arbitrio, non sono riconducibili ad un legittimo esercizio di diritto in un sistema democratico che si intende preservare dalla degenerazione in regime dispotico.
Per meglio comprendere cosa significhi il concetto di libertà democratica, possiamo fare riferimento ad uno dei più acuti uomini politici e pensatori della prima metà dell’Ottocento: Alexis de Tocqueville.

Nato in Francia nel 1805, tra il 1831 e il 1832 compie un viaggio negli Stati Uniti che gli permette di cogliere i tratti politici, sociali e culturali caratteristici di quella che, al tempo, risultava essere il miglior esempio di democrazia esistente e di metterla a confronto con la situazione politica europea, in particolare con gli eventi che si sono susseguiti sul suolo francese dalla Rivoluzione del 1789. L’analisi di Tocqueville è preziosa in quanto non si tratta di un elogio sperticato a questa tipologia di governo, ma del risultato articolato di un’attenta e accurata osservazione dei tratti fondamentali delle società democratiche, riconoscendone gli innegabili pregi come i pericoli sempre incombenti.
Lorenzo Caboara nel suo saggio intitolato Democrazia e libertà nel pensiero di Alexis De Tocqueville mette bene in evidenza tre capisaldi del sistema democratico: libertà, uguaglianza e indipendenza. Non è però sufficiente la mera presenza di questi concetti, perché essi devono essere legati tra loro da una relazione di interdipendenza tale che l’implementazione di ciascuno contribuisca alla formazione e al mantenimento di un virtuoso governo democratico.
La libertà che non risponde alla legge del più forte
Interpretare il concetto di libertà democratica semplicemente come la determinazione della volontà del popolo, ricorrendo ad un acritico e volutamente equivocabile accostamento dei significati dei termini, funge da espediente per riproporre alla società la validazione della legge del più forte.
In una democrazia infatti chiunque, inteso come singolo o associazione di cittadini, viene considerato come membro del popolo sovrano e deve essere quindi tutelato nell’esercizio delle proprie facoltà. Secondo la linea di logica distorta che si vuol propugnare, però, ciò dovrebbe accadere a prescindere da qualsiasi ente regolatore della vita pubblica e individuale, strumenti liberticidi ed antidemocratici. La libertà viene così fatta coincidere con la manifestazione sfrenata e non mediata della volontà della massa, risultando con questo ragionamento sempre giustificata, legittimata dalla provenienza popolare dell’istanza e bastevole della superiorità della forza – di persuasione, di mezzi, di potere economico – per potersi affermare. In questo modo viene a crearsi una frattura tra coloro che questa libertà la detengono e quelli che, dovendo sottostare in condizione di subalternità ai primi, non solo ne sono sprovvisti ma non hanno la possibilità di conquistarla se non utilizzando mezzi di forza ancor maggiore di quella con cui si è imposto chi si trova nella posizione di predominio.
Si verrebbe quindi a creare un ordine sociale fondato su una libertà senza restrizioni a tutto ciò che si desideri e il cui solo limite è la forza che si possiede. Non di certo una buona premessa per favorire la costruzione di una società democratica che vive della forza del diritto, non del diritto della forza.
L’uguaglianza che non annichilisce le identità particolari
Il principio di uguaglianza riveste un ruolo di rilevanza tale da poter affermare che « non si può riconoscere come democratico nessun raggruppamento sociale se non vi si ritrova questa condizione affermata come essenziale e fondamentale per la vita sociale » (Lorenzo Caboara, Democrazia e libertà nel pensiero di Alexis De Tocqueville). Anche qui, però, c’è il forte rischio della distorsione del significato di questo termine in funzione di una voluta manipolazione del discorso pubblico in prospettiva propagandistica.
Tocqueville riconosce all’interno della democrazia americana il valore costitutivo di una sostanziale eguaglianza di condizioni, ma evidenzia al contempo i forti rischi che la deriva di un’idea esasperata di uguaglianza nasconde. Anche ipotizzando di riuscire a giungere a una condizione di assoluta equità riguardo i beni materiali – obiettivo pressoché irrealizzabile se non attraverso un’assai stringente limitazione delle libertà individuali –, si arriverebbe a voler cancellare allo stesso modo le disuguaglianze connaturate nel genere umano, prima tra tutte la disuguaglianza delle intelligenze, dal momento che qualsivoglia tratto specifico di un individuo fungerebbe da pretesto per la denuncia di un trattamento speciale o di un privilegio riservato a lui solo. Il clima di insofferenza che verrebbe a generarsi nella società non solo impedirebbe una pacifica convivenza, ma porterebbe inevitabilmente a considerare questo ideale come un ostacolo alla realizzazione personale di ciascuno. Una situazione particolarmente favorevole per chi voglia cavalcare l’onda del diffuso malcontento a proprio vantaggio.
« Un despota moderno, subdolo, raffinato, che ami più essere che apparire tiranno, trova perciò nel gusto democratico per l’eguaglianza, e nell’invidia, che pone i cittadini del suo Stato uno contro l’altro e fa sì che costoro da se stessi si chiudano e si imprigionino nell’angusta sfera dei propri egoismi e interessi particolari, dei formidabili alleati. Il tiranno intelligente coltiva questi vizi con perizia con pazienza e con metodo. » (Ivi)
Il principio di uguaglianza in una democrazia non è mai da intendersi banalmente come livellamento assoluto delle condizioni materiali, irrealistico e controproducente, né come omologazione dei cittadini nell’espressione della propria personalità, dei propri talenti, della propria unicità. Essa trova il suo inveramento in un assetto sociale, politico, economico e culturale costruito sull’assunto che ogni essere umano gode degli stessi diritti nella stessa misura, nel rifiuto di una categorizzazione discriminatoria della massa che preclude ad alcuni le possibilità di perseguire gli obiettivi che per altri sono agevolmente raggiungibili e che assegna diverse dignità umane in base a criteri arbitrari esclusivi. Si tratta di garantire a tutti l’esercizio della propria libertà; una libertà che non è determinata dalla forza che si possiede e che vede dei vincitori e dei vinti, ma una libertà tutelata dai diritti e limitata dalla legge, universalmente valida.
L’ Articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana racchiude al suo interno l’essenza di questo principio espressa con chiarezza:
« Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. »
L’indipendenza che non mina la coesione sociale
Nell’Articolo appena citato emerge lo stretto legame tra uguaglianza, libertà e indipendenza, il terzo principio che ci siamo proposti di prendere in considerazione.
In uno Stato in cui vi siano riscontrabili effettive disuguaglianze non sono presenti i presupposti affinché ciascun individuo possa anzitutto realizzarsi, e poi esercitare la sovranità che di diritto gli spetta.
Una situazione di povertà e indigenza non garantisce il soddisfacimento dei bisogni primari, tantomeno il perseguimento di obiettivi di affermazione personale, e chi la subisce spesso è costretto a cedere parte della propria indipendenza, ad esempio accettando condizioni lavorative non a norma di legge, insostenibili, sottopagate. Una sanità pubblica che non rende universalmente accessibili le cure inasprisce un clima di incertezza che infonde nella popolazione sentimenti di esclusione, abbandono, sfiducia e diffidenza nei confronti delle istituzioni chiamate a farsi carico della salute di tutti, alimentando un senso di precarietà che priva chi necessita di cure dell’autonomia e della prospettiva a lungo termine. Una formazione scolastica parziale e non sufficientemente finanziata, la diffusione di un’informazione di scarsa qualità e attendibilità, unitamente ad un forte incoraggiamento alla perdita di dimestichezza con il pensiero critico, non rendono fattibile l’emancipazione a cittadino consapevole di quello che è destinato a rimanere una vittima di una determinata narrazione. Una gerarchia sociale che non prevede alcuna possibilità di ascesa per chi nasce all’infuori della classe elitaria condanna sul nascere qualsivoglia ambizione personale o comunitaria. Un governo che disincentiva la partecipazione dei cittadini, che rifugge il confronto per zittire le critiche, che non tollera il dissenso espresso in maniera civile e non violenta, che non promuove un discorso pubblico che veda dibattersi punti di vista diversi ma parimenti orientati al bene comune, un governo tale uccide la democrazia alla fonte, cioè nella partecipazione libera e consapevole della collettività alla vita politica del proprio Paese.
Come per il concetto di uguaglianza, Tocqueville ravvisa un pericolo anche in una società in cui l’indipendenza assume un carattere talmente radicale da sfociare in un dilagare di individualismo. Questo sentimento porta le persone a chiudersi nel loro mondo, a tutelare solamente gli interessi (soprattutto materiali) propri o della cerchia a cui appartengono, annichilisce il senso di solidarietà umana che rende perseguibile la conquista del bene comune, genera un’apatica indifferenza nella gestione della cosa pubblica. Strade diverse, stesso risultato: dissoluzione dello Stato democratico e terreno fertile per anarchia o regimi dispotici.
Un equilibrio complesso che richiede partecipazione attiva
La complessità democratica è ben evidente in questo delicato equilibrio che libertà, uguaglianza e indipendenza devono mantenere affinché una non provochi l’annullamento delle altre, in un legame così riassumibile:
« Quando l’uomo di massa riconosce che tutti i singoli individui che compongono la collettività – anche se diversi per capacità fisiche e intellettuali – sono tutti fratelli, perchè tutti formati di un’unica sostanza, che è la spiritualità; che questa sostanza sul terreno politico si traduce nell’idea della libertà; che la libertà politica non può vivere se non in regime di indipendenza, proprio come la libertà morale non può vivere sotto la tirannide delle passioni, e che per tutelare questa indipendenza è necessaria l’attiva partecipazione di tutti alla vita dello Stato, cioè l’interesse attivo di tutti agli affari che interessano la collettività; quando l’uomo di massa riconosce tutto questo, il dispotismo è finito. » (Lorenzo Caboara, Democrazia e libertà nel pensiero di Alexis De Tocqueville)
L’impegno che è incessantemente richiesto a ciascun cittadino è notevole. Forse è proprio questo il motivo per cui sta aumentando sempre più la propensione per l’uomo o la donna forte al governo, per una figura autoritaria che si prende la briga di pensare per tutti. Peccato che in questo modo non abbiamo più gli strumenti per comprendere se chi dichiara di voler rafforzare le fondamenta del grande edificio democratico ci stia invece piazzando dell’esplosivo.





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