Mentre il mondo è in fiamme, consulenti cinesi chiedono l’amicizia su LinkedIn a politici britannici. Londra nel panico!!!
DA OTTOLINATV (Di Il Marru)

La bolla dell’AI segna una significativa battuta d’arresto: Ieri il NASDAQ ha perso un punto percentuale, trasformando novembre nel peggior mese da marzo 2025; come ricorda il Financial Times, “Secondo i calcoli della Bank of America, da settembre Amazon, Alphabet, Meta e Oracle hanno emesso un debito complessivo di 81 miliardi di dollari per finanziare la realizzazione di data center dedicati all’intelligenza artificiale”, “Ma i trader sono sempre più cauti riguardo alla corsa agli investimenti delle Big Tech e non ricompensano più ciecamente gli enormi impegni di spesa degli hyperscaler, ha affermato Charlie McElligott, stratega di Nomura”. “L’hedge fund di Peter Thiel, Thiel Macro, ha ridotto l’intera esposizione a NVIDIA nel terzo trimestre, secondo recenti documenti che fornivano un’istantanea delle partecipazioni a fine settembre”, e oggi sono tutti in attesa dei nuovi dati del colosso dei microchip; e non è solo questione di AI:

Le criptovalute hanno ottenuto tutto ciò che volevano, titola ancora l’Economist; Ora stanno affondando: i Bitcoin sono passati dai 126 mila dollari di inizio ottobre, a meno di 90 (al momento sono intorno a quota 91 mila).

Il problema, come sottolinea il Wall Street Journal, è che “Il rialzo dei prezzi delle criptovalute quest’anno è stato alimentato da un ingente accumulo di debito, con i trader che hanno utilizzato la leva finanziaria per amplificare i loro guadagni. Ora, dopo le vendite punitive delle ultime due settimane, i pericoli di queste scommesse stanno diventando evidenti”.
Uno dei luoghi dove era più facile recuperare denaro a basso prezzo da investire “a leva” era il Giappone: è il famoso carry trade, che si fondava sulla politica decennale dei tassi zero di Tokyo, ma anche lui potrebbe ormai appartenere al passato.

I rendimenti dei titoli del debito giapponese a 10 anni raggiungono il massimo degli ultimi 17 anni: i capitali fuggono dal piano della Lady di Ferro del Sol Levante, fatto di riarmo e di provocazioni contro Pechino.
Intanto, a Washington va in scena il grande trionfo di Bin Salman: l’Arabia Saudita sta ottenendo tutto quello che gli era stato promesso da Forrest Trump già nel 2018; allora, però, in cambio avrebbe dovuto riconoscere Israele e firmare gli accordi di Abramo. Non più:

L’Arabia Saudita non ha fretta di aderire agli accordi di Abramo, titola l’Economist; Bin Salman non ha più bisogno di riconoscere Israele per corteggiare l’America: “Il 6 novembre, Steve Witkoff, inviato di Donald Trump in Medio Oriente, ha annunciato che un nuovo Paese era pronto a firmare. Alcuni si sono chiesti se potesse essere la Siria, il cui presidente avrebbe dovuto visitare la Casa Bianca quattro giorni dopo. Altri hanno chiesto se potesse essere l’Arabia Saudita”. “Alla fine, però, non è stato né l’uno né l’altro: è stato il Kazakistan, che intrattiene relazioni con Israele dal 1992”; “I sauditi hanno chiarito che non normalizzeranno i rapporti finché Israele non perseguirà un autentico processo di pace con i palestinesi. In pubblico, Trump li convincerà a riconsiderare la questione. In privato, tuttavia, alcuni repubblicani affermano che il presidente tollera la riluttanza del regno, almeno per ora”.
Un tempo paria, il principe saudita reimposta le relazioni con gli Stati Uniti alle sue condizioni, titola il New York Times : “Sette anni fa”, sottolinea l’articolo, “Bin Salman non poteva visitare Washington. Quando è arrivato alla Casa Bianca martedì, ha ricevuto gli F-35, i chip più veloci al mondo, e un ruolo centrale nella ricostruzione del Medio Oriente”
Intanto, il fondo sovrano dell’Arabia Saudita ha tenuto colloqui con David Ellison della Paramount; l’obiettivo è ottenere un sostegno finanziario per l’acquisto di Warner Bros: “L’acquisizione di Warner Bros Discovery, proprietaria del leggendario studio cinematografico, di HBO, CNN e di franchise che vanno da Harry Potter a Batman, aiuterebbe la Paramount a competere con i rivali più grandi Netflix e Comcast”. I sauditi continuano, così, la loro scalata ai mezzi di produzione del consenso del centro imperiale; l’ultima tappa era stata la clamorosa acquisizione da 55 miliardi di Electronic Arts, insieme al genero di Forrest Trump, Jared Kushner.
Il Soddu
Cina vs Giappone: è tutto un cinema. La sequenza di mosse delle ultime ore mostra un irrigidimento evidente nei rapporti tra Pechino e Tokyo: la Cina ha deciso di sospendere l’uscita dei nuovi film giapponesi sul proprio mercato, un atto che non pesa enormemente sul piano economico, ma che ha un valore simbolico molto forte; è una leva culturale usata con la stessa logica con cui, negli ultimi mesi, Pechino ha politicizzato quasi tutti gli ambiti di frizione con il Giappone. Lo stop arriva mentre la disputa su Taiwan continua a essere usata come metro di giudizio sulla affidabilità politica e storica del Giappone. Questo tipo di misure serve più a mandare messaggi che a colpire realmente un settore: parallelamente, Pechino ha infatti anche comunicato a Tokyo che sospenderà le importazioni di pesce giapponese; qui l’impatto è più concreto perché la questione legata al rilascio delle acque trattate di Fukushima ha già spaccato opinioni pubbliche e mercati. La Cina sta trasformando questo dossier in una pressione commerciale diretta, sfruttando la sensibilità della propria popolazione al tema della sicurezza alimentare; è una mossa che non nasce solo dalla chimica delle acque: è parte di un gioco più ampio in cui Pechino fa capire che su ogni fronte può far pesare la propria scala. Il terzo elemento arriva dalle dichiarazioni di Xinhua: oggi, secondo il portavoce degli Esteri cinesi, il Giappone “non è qualificato” per diventare membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; è un colpo frontale alla legittimità diplomatica di Tokyo che, da anni, cerca un ruolo più forte nella governance mondiale. Pechino lega la sua opposizione sia al passato storico del Giappone sia a quello che considera un riarmo ambiguo; letti insieme, questi tre episodi compongono un unico scenario: la Cina sta usando tutti i livelli della relazione (culturale, commerciale e diplomatica), per ridurre lo spazio di manovra del Giappone. Tokyo è più assertiva sul piano militare, più allineata agli Stati Uniti e più coinvolta nell’Indo-Pacifico: la risposta cinese è una pressione a 360 gradi che non supera mai la soglia di crisi formale, ma che la sfiora continuamente. Qui gli approfondimenti di Bloomberg, del South China Morning Post e di Xinhua.
Materie prime e carburanti. La paura delle industrie occidentali, all’ombra del decoupling dei prestiti. La denuncia dell’azienda europea produttrice di magneti Vacuumschmelze GmbH, con sede in Germania, non è un allarme generico: è una fotografia dello squilibrio sistemico del mercato delle terre rare: l’Europa dipende dalla Cina per l’estrazione, la raffinazione e spesso anche per la fabbricazione dei componenti magnetici necessari a turbine, motori elettrici, elettronica e sistemi militari; se Pechino rallenta, l’industria europea si ferma. Il fatto che un produttore lanci l’allarme apertamente indica che la tensione sulle forniture sta già arrivando alle fabbriche e non è più solo un discorso strategico. In parallelo, la Cina sta rivoluzionando il proprio parco mezzi pesanti: i camion diesel stanno passando all’elettrico molto più velocemente del previsto; è un cambio che può trasformare la domanda mondiale di diesel e GNL, spingendo i prezzi verso nuove dinamiche e alterando gli equilibri delle rotte energetiche. Se la Cina riduce massicciamente il proprio consumo di carburanti fossili per il trasporto industriale, sarà l’intero sistema energetico globale a dover ricalcolare domanda e investimenti. La sorpresa più grande è che, mentre gli Stati Uniti avvertono i Paesi partner di evitare i prestiti delle banche statali cinesi, sono proprio queste banche a risultare le più attive nei finanziamenti infrastrutturali globali; l’avvertimento americano, più che cambiare i flussi finanziari, sta mostrando quanto limitata sia la capacità occidentale di offrire alternative competitive alle condizioni cinesi: questi elementi compongono un quadro in cui la Cina non è più solo un fornitore o un produttore, ma un attore che riscrive le condizioni materiali dell’economia globale. L’Occidente parla di derisking, ma, nei fatti, continua a dipendere da Pechino nei settori chiave della transizione energetica: ogni movimento cinese crea onde d’urto perché tocca la struttura stessa della manifattura e della finanza internazionale. L’approfondimento di Bloomberg qui e quelli del Washington Post qui e qui.
Sicurezza digitale e ancora spauracchi di spie cinesi in UK. L’allarme lanciato dall’MI5 sull’uso di LinkedIn da parte dell’intelligence cinese per avvicinare parlamentari britannici è diventato, nelle ultime ore, ancora più serio dopo la pubblicazione dell’inchiesta del Financial Times secondo cui Londra ha formalmente avvertito Pechino contro attività di spionaggio diretto; se, nei giorni precedenti, la notizia sembrava concentrarsi soprattutto sulle dinamiche di reclutamento tramite piattaforme professionali, il FT aggiunge una dimensione politica: il governo britannico ritiene che ci sia una campagna sistematica in corso, abbastanza strutturata da meritare una protesta diplomatica ufficiale. Il quadro che emerge è quello di un ecosistema vulnerabile, in cui piattaforme nate per il networking professionale vengono trasformate in terreno di caccia per servizi segreti che sfruttano la fiducia tipica del contesto lavorativo: l’MI5 ha spiegato che molti dei profili usati per contattare parlamentari e funzionari si presentavano come consulenti, ricercatori, addetti alle relazioni istituzionali. La tecnica è semplice: offrire rapporti di collaborazione, retribuzioni, viaggi, opportunità business; l’intelligence si lamenta del fatto che tali proposte vengono accettate anche dai parlamentari, quasi come se non avessero una coscienza propria nel poter declinare un invito a un forum o non stringere un rapporto di collaborazione. Il Financial Times rincara la dose: Downing Street considera la manovra cinese uno dei tentativi più aggressivi degli ultimi anni di infiltrare l’ambiente politico britannico; beh, se basta solo una richiesta di amicizia su LinkedIn, stanno freschi… Il governo ha dichiarato che verranno introdotte nuove misure contro l’interferenza straniera, compreso un rafforzamento del Foreign Influence Registration Scheme. Il Regno Unito non sa che pesci pigliare perché queste pericolose operazioni sfruttano strumenti impossibili da “chiudere”: alcuni social sono indispensabili ai parlamentari, ai consulenti, ai funzionari, ai diplomatici; qualsiasi misura di controllo rischia di minare le normali dinamiche politiche, ma chissà che, alla fine, le libertà democratiche non possano essere sospese per un bene superiore. Ancora una volta. Qui gli approfondimenti del New York Times e del Financial Times.





Commenti recenti