Out of the blue
di Gianluca Freda
fonte blogghete
Esistono film dalla visione dei quali si esce più intelligenti. Avatar di James Cameron non è tra questi. Potrei anzi sostenere che Avatar dona allo spettatore di qualunque livello intellettivo una sostanziosa dose omaggio di rimbecillimento supplementare. Una persona di media stupidità lascia il locale barcollando sotto il peso dell’idiozia aggiuntiva accumulata nel corso dello spettacolo e non riesce più a pensare a nulla di intellettualmente rilevante. Cito il mio caso: mentre mi dirigevo verso casa dopo la fine dello spettacolo, ho cercato disperatamente di elucubrare un pensiero critico sulla pellicola, ma mi venivano in mente solo cretinate. Pensavo alle barzellette su Toro Seduto che mi raccontavano da bambino, frasi nominali come “Augh, grande capo bianco” interferivano con le facoltà razionali, canticchiavo canzonette come “blululù-le-mille-bolle-blu” e se mi costringevo a smettere il cervello continuava a salmodiarle da solo e non c’era verso di fermarlo. E’ stato orribile. Giunto a casa esanime, mi sono aggrappato a “La conquista dell’America” di Zvetan Todorov e solo così ho avuto salva la vita. Sconsiglio vivamente la visione del film alle persone già completamente idiote. L’overdose sarebbe loro fatale.
Ero andato a vedere Avatar su suggerimento di un collega, il quale mi aveva consigliato di farlo senza aspettarmi nulla di particolare. In questo modo, egli sosteneva, sarei uscito dal cinema piacevolmente sorpreso. Ho seguito alla lettera la parte metodologica della sua raccomandazione, che si è rivelata molto efficace. E’ la parte profetica che necessita di una drastica messa a punto. So che esprimendo queste opinioni impietose mi attirerò accuse di snobismo intellettualoide, nonché l’ira di coloro che mi faranno notare – giustamente – le meraviglie dell’animazione computerizzata, la perfezione delle ricostruzioni paesaggistiche, la sottigliezza delle citazioni fumettistiche e cinematografiche (e meno male che sarei io l’intellettualoide). Tutto vero. Infatti non dico che il film sia brutto. Non dico nemmeno che chi lo ha realizzato sia un completo idiota, tutt’altro. Dico solo che è stato studiato e accuratamente cesellato per rendere idiota chi lo guarda e che ci riesce benissimo. Sostengo ormai da tempo che l’intero apparato di ciò che chiamiamo informazione, spettacolo, perfino letteratura o arte o scienza nella più recente declinazione estetica di queste categorie, non sia altro che uno strumento di propaganda pervasiva il cui scopo ultimo è quello di ridurre ai minimi termini i nostri modelli interpretativi della realtà, costringendoci a racchiudere il mondo, tutto intero, in uno schema rarefatto e impoverito. Il fine è insomma quello che Orwell aveva ben intuito nella sua descrizione operativa del Newspeak: toglierci il maggior numero possibile degli elementi segnici con cui rappresentiamo il mondo a noi stessi, in modo tale che il mondo, ricco e complesso com’è sempre stato per diritto di nascita, ci escluda con sdegno dalla sua reggia, come da un cocktail party del Bilderberg si escluderebbe un accattone analfabeta con le toppe al culo, lasciandolo fuori al freddo a biascicare da solo le sue incomprensibili e irrilevanti maledizioni. Tutto questo, in gergo filosofico, si potrebbe chiamare “rarefazione delle categorie del pensiero”. Io lo chiamo, più cordialmente, rimbecillimento collettivo mediaticamente indotto. Avatar di James Cameron è uno degli induttori di dabbenaggine percettiva più poderosi che mi sia mai capitato di sperimentare sulla mia pelle. Ed è progettato, con straordinaria intelligenza, per produrre proprio questo effetto.
La realtà che Avatar offre ai nostri occhi è, secondo una consuetudine ormai rodata dai progettisti del pensiero di Hollywood, drasticamente binomiale, dozzinalmente manichea. Il mondo è integralmente suddiviso in distici etici, estetici, ermeneutici, epistemologici, a beneficio di una popolazione che, per la tutela dei privilegi dei suoi mandriani, non dovrà mai imparare a contare oltre il numero due. Ci sono il solito bene e il solito male, nitidamente ritagliati ed isolati in campane di vetro per scongiurarne ogni contaminazione; c’è il buon selvaggio di Montaigne contrapposto allo spietato predatore coloniale di Las Casas; l’uno è blu e l’altro e bianco, per rendere a prova di idiota la loro immediata identificazione visiva (con le videopecore, non si sa mai); ci sono la ripresa dal vivo e quella in digitale, che, a differenza che in altre pellicole, non si amalgamano affatto, sventando così il rischio di attivare inauspicabili connessioni neurali, di maggiore complessità, tra differenti universi stilistici; c’è l’interpretazione letterale e quella banalmente metaforica (un antibellicismo d’accatto che sa di plastica lontano un chilometro), senza che sia possibile nessun altro tipo di lettura a differenti livelli.
Il film ha mandato in sollucchero molte sue vittime che, debitamente rintontite dai suoi ben oliati meccanismi, vi hanno visto una vibrante condanna dell’imperialismo occidentale, particolarmente quello americano. Naturalmente non è così. Il film, al contrario, esalta l’ideologia militarista, camuffandola astutamente sotto le carcasse digitali dei Na’vi, nei quali possiamo continuare a vedere placidamente riflesso il nostro ideale di “guerra giusta”, senza doverci prendere il disturbo di guardarci allo specchio, cosa che ultimamente non facciamo più con piacere. Soprattutto, il film esalta e fornisce nuova linfa alle consunte parole d’ordine su cui si fonda l’asfittica mitologia della globalizzazione, accuratamente elaborata per fungere da propellente ideologico agli affari delle multinazionali. Tutte le chiacchiere sull’”incontro tra culture”, tutte le ciarle sulla “diversità”, tutte le fanfaluche ecologiste sul “pianeta incontaminato” da difendere contro il riscaldamento globale, tutte le miserabili bugie sulla possibilità dei popoli di conquistare un’indipendenza politica prescindendo dal discorso economico, fanno continuamente capolino dal grande schermo e, come la progenie di Alien, si iniettano a sorpresa nel sistema circolatorio di chi si era da esse, con grande fatica, purificato. Il tutto frullato in una repellente salsina di ammiccamenti new age, che è sempre un perfetto composto di amalgama per tenere insieme tutta questa robaccia. Non c’è – inutile dirlo – neanche l’ombra di una raffigurazione realistica delle concrete dinamiche del potere e della guerra; che è per tre quarti diplomazia, covert operations, propaganda, progettazione geostrategica, investimento economico, e solo per un quarto utilizzo della pura forza militare. Nel film, la guerra viene scatenata da un bieco e antipaticissimo colonnello impazzito, perché è così che funziona, no? Un giorno un alto ufficiale dell’esercito impazzisce e, per pura malvagità, fa a pezzi qualche regione del mondo. Ma la responsabilità è solo sua. L’Occidente è fondamentalmente buono e inoffensivo (come l’insopportabile paraplegico guerriero che fa da protagonista) e per merito suo la giustizia, alla fine, trionfa.
Si potrà obiettare che questa banalizzazione ideologica, questa riconversione binaria delle categorie interpretative che ci costringe a sognare in tre dimensioni mentre ci relega al bi o monodimensionale, è propria della narrativa eroica di ogni luogo e di ogni epoca. Il che è anche vero, ma con una importante differenza: l’epica eroica aveva la funzione di costruire un’identità storica e sociale, non di mandarla in cortocircuito. I manicheismi, i miti, le falsificazioni degli eventi passati, servivano all’epica per ripristinare il legame di una società con la sua storia, non per annullare la storia schiacciando la società sulla sola dimensione del presente. L’epica mirava a imporre alla massa i valori (poco importa se autentici o artificialmente cesellati) della casta dominante, non a relativizzare ogni valore per creare il deserto dei punti di riferimento. In poche parole: la narrazione epica tradizionale mirava a costruire o ricostruire una percezione del mondo che tornasse utile, sul lungo periodo, alle categorie sociali dominanti; l’epica digitale di Avatar ha lo scopo dichiarato di distruggere periodicamente, relativizzandolo, ogni schema interpretativo, proiettando l’uomo-massa in una “tabula rasa” di riferimenti culturali da cui gli sarà impossibile nuocere. Cercherò di spiegarmi meglio mettendo in parallelo (mi scuso dell’avventatezza) alcuni aspetti della pellicola di Cameron con alcuni caratteri della medievale “Chanson de Roland”.
La “Chanson” ricostruiva, a circa tre secoli di distanza dalle vicende narrate, un Carlo Magno e una Francia che esistevano solo nella fantasia. Carlo Magno non si era mai curato molto di combattere i musulmani di Spagna, preferendo (come ogni politico di razza) stringere accordi diplomatici; la religione cristiana gli interessava il minimo indispensabile, soprattutto come elemento di legittimazione del proprio potere; e quando il debole, screditato e sfregiato papa Leone III insistette per deporgli di persona la corona sulla testa, lo prese come un insulto (si riteneva già imperatore per diritto di conquista) e fece scrivere al suo cronista, Eginardo, una versione dell’incoronazione molto diversa da quella propagandata dalla Chiesa. Lo scontro di Roncisvalle, che viene celebrato nella Chanson come evento epocale ed eroico, fu in realtà una miserabile scaramuccia tra le truppe franche ed alcuni guerrieri baschi, di nessuna rilevanza strategica. Eccetera eccetera.
Tutta questa poderosa macchina di banalizzazione e falsificazione storica era messa in moto allo scopo di fornire all’Europa un’identità precisa. Un’identità fondata su connotati cristiani, che si delineava per contrapposizione al pericolo musulmano, in un’epoca (quella a cavallo tra XI e XII secolo) in cui la prima crociata rileggeva tutta la storia passata alla luce dei valori religiosi e feudali che si andavano affermando sulla scia delle esigenze politiche. Gli stravolgimenti delle meccaniche del potere compiuti da Avatar hanno, al contrario, lo scopo di privare gli spettatori di ogni concreta identità culturale. L’ideologia appropriativa, colonialista e stragista dell’occidente contemporaneo, l’unica che sia ben conosciuta e riconoscibile dallo spettatore, viene esorcizzata ponendo i suoi propugnatori nella parte dei “cattivi”, in modo che ogni identificazione con ciò che sta alla base della nostra vita sociale sia impossibile. Al suo posto, viene imposta l’immedesimazione forzata con un’ideologia aliena, vagamente naturalista, priva di ogni attinenza con la realtà storica corrente. Laddove la Chanson ricostruiva, attraverso la mitizzazione degli eventi, un contatto tra il presente e il passato, Avatar ignora e spegne la memoria storica, proiettando lo spettatore in una dimensione alternativa, in cui il passato non esiste se non sotto forma di un vago e decontestualizzato sentimento di colpa per i trascorsi e correnti genocidi. Se la Chanson cantava la fierezza e l’orgoglio dell’appartenenza ad una civiltà e ai suoi valori, Avatar propone l’impresentabilità di ogni valore, il rimorso e l’orrore per ciò che siamo stati e continuiamo ad essere, senza proporre peraltro nessun percorso di espiazione. Avatar è un’epica che non ci spiega ciò che siamo, se non per invitarci a fuggire da ciò che siamo, qualunque cosa sia. Ci pone di fronte alla nostra cattiva coscienza per trasformarla in fantasticheria narrativa, non in processo di riflessione, da cui ogni identità scaturisce. René Girard poneva all’origine delle società umane un assassinio sacrificale attraverso il quale alla vittima sacrificale venivano riconosciuti attributi sacrali affinchè la sua uccisione fungesse da mezzo per sopire la violenza. Ma in Avatar non ci sono vittime sacrificali da erigere a fondamento di una palingenesi sociale. I Na’vi vincono e scacciano gli invasori, esorcizzando la violenza nell’immaginario affinché essa possa proseguire indisturbata nel corpo della nazione.
Nella Chanson, Orlando rappresentava i valori feudali con cui l’uomo dell’XI-XII secolo era a contatto quotidiano: la fedeltà al proprio signore, il coraggio guerriero, la religione, la difesa della sicurezza civica contro le scorribande barbariche. Il film di Cameron propone eroi che rappresentano valori virtuali e artificiali, costringendoci, per poterli condividere, ad una completa alienazione dalla realtà. Gli stessi eroi del film sono virtuali, digitali, antiumani: il processo di astrazione dilania non solo il senso di condivisione di una storia comune, ma anche quello di appartenenza alla medesima specie. L’unica identificazione consentita è, appunto, quella con un “avatar” del genere umano, idealizzato ed estetizzato fino all’irriconoscibilità, all’estraniazione biologica. Lo stesso protagonista del film è privo di un’identificabilità precisa, umano e alieno, disabile ed atletico, militare e antimilitarista, minuscolo e colossale, analogico e digitale, tutto allo stesso tempo. La disarticolazione identitaria che il film sottolinea e contemporaneamente ricerca trova nella straniante figura del soldato pacifista il suo simbolo migliore.
La Chanson definiva una mappa mentale, sia pur trasfigurata dal mito, della geografia europea: Saragozza, i Pirenei, l’Ebro, la corte di Aquisgrana. In punto di morte, Orlando passa in rassegna le conquiste territoriali compiute a favore del sovrano, con un’elencazione che, pur nella sua natura leggendaria, fornisce all’ascoltatore una mappatura del mondo conosciuto, dotandolo di una precisa identità geografica. Avatar, con i suoi paesaggi alieni digitalizzati, priva lo spettatore di ogni riferimento cardinale e territoriale, lo lascia alla mercé di un ambiente in cui ogni relazione con la spazialità conosciuta è stata stravolta e trasfigurata. Avatar simboleggia ed al tempo stesso incoraggia l’esilio dell’uomo moderno dalla propria storia, dal proprio tempo, dal proprio spazio, dalla propria etica, dalla propria coscienza e dalla propria specie. Non è affatto, come qualcuno ha scritto, un apologo sull’incontro con l’altro da sé. E’ l’”altro da sé” che diviene l’unica dimensione possibile, dove il concetto stesso di “altro” viene annichilito dalla cancellazione di ogni “sé” con cui confrontarsi.
Più che un apologo è un epilogo: Avatar ci parla del definitivo trasferimento della cultura occidentale in un paradiso lisergico che rinnega un passato e un presente impossibili da abitare, per i quali ogni schema di rappresentazione è divenuto obsoleto e inadeguato. Ci parla di un futuro uguale al presente, annullando ogni prospettiva di cambiamento, anche sul lungo periodo. E si ha la netta impressione che questo straniamento dalla storia e dalle idee, che rende inattuabile ogni azione per la latitanza di direttrici e punti di riferimento, rappresenti più una finalità premeditata dagli astuti pianificatori hollywoodiani del pensiero che un emblema della nostra condizione mentre affrontiamo il presente declino. Orlando, il coraggioso, il migliore di noi, il paladino della giovinezza dell’ovest, giace nel gelo della sua tomba a Roncisvalle, mentre l’Europa sogna, ormai scialba e impotente, un improbabile riscatto per interposta persona, affidato ad un invincibile ed immaginifico avatar dalla pelle azzurra. Qui finisce la storia che Turoldo mise in poesia.
Un lettore ha sollevato critiche acute a Gianluca Freda, relativamente alla recensione ad Avatar. E Gianluca Freda ha risposto.
Inserisco in questo commento sia la critica del lettore che la risposta di Freda
di Gianluca Freda – 21/02/2010
Fonte: Blogghete!
Il lettore Daniele Boscaro mi scrive nei commenti:
Questa volta voglio intervenire e dirti la mia su Avatar, perchè mi sembra, Gianluca, che qui si abbia tutti un po' di confusione in testa. Certo che Avatar proietta quel poco di consapevolezza presente nei nostri simili (d'altronde la consapevolezza "profonda" mica la si più raggiungere al cinema, per quella bisogna sbattersi un po' di più) in una dimensione immaginaria… è un film!!! non stiamo parlando di un documentario, ma cosa vorresti dire, che siccome la trama di significato trascende uno scenario reale, allora "uga uga…" facciamo fatica a capire a cosa si riferisce? boh, non riesco a seguirti. Altra cosa, gradirei un chiarimento (in "out of blue" non l'hai fatto) rispetto alla tua posizione sulla "guerra giusta" dei na'vi, che non sembra andarti tanto a genio: cos'è, dovevano organizzare una protesta in piazza? dovevano presentare le loro "istanze" alle ambasciate americane su pandora? dovevano leggersi Ghandi e imparare l'opposizione non violenta? Caro vecchio e saggio Gianluca, te lo dico con i Prodigy: "Invaders must die", anche troppo che è una guerra giusta quella, perchè dagli invasori (di quel tipo, non leggerla come un'apologia leghista) ci si protegge, non si negozia. Punto. Che tu possa interpretarla come una furba riabilitazione delle attuali occupazioni americane mi trova perplesso: Camerun nel film nobilità gli invasi, non gli invasori, quindi mi sembra che tu stia forzando la mano. Un altro punto di cui volevo parlare è il discorso un po' troppo superficiale con cui cassi gli ideali che il film sembra veicolare: che siano rappresentati in modo banalotto e ipersemplificato sono d'accordo, ma allora cosa facciamo, non si può parlare di indipendenza a meno che non si citi qualche filosofo? non si può parlare di liberazione della donna senza tenere un seminario? concludendo, mi sembra che tu, assieme a qualche intellettuale un po' pieno di se, sia andato a vedere e ad analizzare questo film con un potentissimo pregiudizio, che alla fine della fiera ha orientato e predefinito il quadro critico nella direzione di una bocciatura inevitabile, d'altronde come potrebbe il regista di titanic fare un film decente? Io non sono sicuramente un buzzurro, o comunque sto lavorando per non esserlo, e sono il primo a rovinarmi quotidianamente il fegato con una visione ipercritica della nostra società, con la sua superficialità, il vuoto culturale e la "rarefazione delle categorie di pensiero" o rincoglionimento cronico/indotto che dir si voglia, parole SANTE. Ma sai cosa ti dico, che è più formativo un film come avatar che dieci film di Almodovar o woody Allen… si, perchè ognuno è figlio del proprio tempo, Gianluca, e la mia generazione non ne può più di assorbire i modelli dell'imperfezione, del "peccato inevitabile" delle "umane contraddizioni" e delle mezze virtù. Ci hanno convinti che le sozzerie e le menzogne più schifose facciano parte della nostra natura, senza scampo. Ne siamo saturi, ma non è così. Abbiamo bisogno di modelli aurei, di racconti epici, di modelli cazzuti, con i cattivi che sono cattivi, ed i buoni che sono buoni. Anche banali, perchè, ripeto, sicuramente non pretendo di acculturarmi al cinema, ma non si può vivere solo di libri di filosofia. A complessificare ed a relativizzare le categorie di analisi ci penseremo in seguito, intanto ai ragazzini delle medie facciamo vedere Avatar. Saluti sinceri da un tuo estimatore.
Caro Daniele, in “Out of the blue” parlavo soprattutto degli effetti che Avatar intende produrre sul rapporto del pubblico occidentale con il proprio stesso habitat identitario (passività, straniamento, sradicamento dalla nostra cultura e dalla nostra storia). Riguardo invece ai suoi risvolti strategico-propagandistici la mia modesta idea in proposito può essere così riassunta: ciò che vediamo in Avatar non ha niente a che vedere con i problemi o con la cultura delle popolazioni occupate e sterminate dagli occidentali nel passato o nel presente. Ciò che vediamo esaltato in Avatar è, al contrario, il nostro ideale di “guerra giusta”, di ribellione al tiranno, di contrapposizione armata e violenta contro tutto ciò che ostacola l’affermazione dei “valori” occidentali (che sono contingenti e variano di epoca in epoca, a seconda delle parole d’ordine). I Na’vi non rappresentano le ragioni dei popoli che l’occidente ha cancellato nel corso della sua espansione. Rappresentano l’occidente stesso e servono a giustificare i suoi massacri, a esemplificare le ragioni per cui l’esportazione dei suoi valori a suon di spada e mitraglia deve essere ritenuta accettabile. Il film si serve di un astuto camuffamento, trasponendo su una popolazione indigena fittizia una prospettiva sul mondo che è nostra e solo nostra. E’ nel nostro immaginario che le donne devono essere forti ed emancipate come la protagonista digitale del film, non certo in quello di una tribù Navajo. E’ nel nostro immaginario che la guerra serve a conquistare risorse e territori o ad emanciparsi da una tirannia, non in quello dei Povos o degli Amarakaeri. Per fare un esempio di quanto questa rappresentazione mentale del conflitto sia solo nostra, basti pensare che le popolazioni azteche dell’epoca di Cortés furono sterminate anche perché non riuscivano minimamente a comprendere questa concezione della guerra, la quale per loro era più che altro un mezzo per procurarsi prigionieri da sacrificare agli déi. Gli stessi ideali di “libertà” e “giustizia” implicano una forma di pensiero astratto e simbolico che è nostro, e non appartiene necessariamente alle popolazioni indigene del passato o del presente, per le quali simbolo e simboleggiato tendono a coincidere (credo si chiami “pensiero mitico”, è quello che troviamo alla base della letteratura epica di ogni tempo). Sempre per fare un esempio, presso le popolazioni native americane, le donne venivano spesso scuoiate durante i riti della fertilità, per poi permettere agli uomini senza figli di rivestirsi della loro pelle. L’idea di “fertilità” e il suo oggetto materiale (la donna) non erano separate, erano la stessa cosa. E’ nella cultura europea che è nata e prosperata la scissione tra rappresentante e rappresentato, il “pensiero simbolico”. Avatar non ci parla dunque delle ragioni o della visione del mondo degli indigeni, ma delle NOSTRE ragioni e del nostro mondo, sfruttando un rovesciamento prospettico che rende più difficile (ma poi neanche tanto) identificare l’antichissimo meccanismo di propaganda culturale, già in opera all’epoca delle prime spedizioni di Colombo. La cultura indigena non è minimamente presa in considerazione, se non per rappresentare gli indigeni come noi vorremmo che fossero, e cioè corrispondenti in tutto e per tutto ai modelli sociali del nostro tempo. E’ ciò che l’occidente ha sempre fatto: il contatto tra culture diverse viene gestito con la negazione delle diversità inaccettabili e con l’assimilazione del diverso ai nostri modelli, imposta prima con la propaganda, poi con la forza. Storia vecchissima. Perfino per i “difensori” storici dei nativi americani, come Bartolomé de Las Casas, le popolazioni indigene erano tutte “dolci e pacifiche”, già dotate per natura di caratteristiche cristiane e non aspiranti ad altro che a ricevere la dottrina della Chiesa. Las Casas, per quanto animato da ottime intenzioni, non parlava degli indigeni, parlava di se stesso e della necessità di ridurre ogni cultura alla sua personale prospettiva. Ciò che nella cultura indigena non corrispondeva agli ideali europei veniva semplicemente negato. Avatar fa esattamente la stessa cosa, con l’unica differenza che le sue intenzioni mi sembrano molto meno nobili di quelle del vescovo spagnolo. L’assimilazione culturale cui Las Casas offriva il suo contributo era inconsapevole, quella di Avatar è consapevole e studiata a tavolino. Mutatis mutandis, Avatar ci spiega come noi dobbiamo fare la guerra (con coraggio ed eroica disposizione al sacrificio), per quali motivi noi dobbiamo combattere (la libertà, la giustizia, la “convivenza culturale”, che si realizza ovviamente solo a patto che gli altri si conformino a noi), in nome di quale religione (quella ecologista e new age, visto che il cristianesimo, dai tempi di Las Casas, ha perduto un bel po’ della sua forza identitaria), contro quali persone (tutti coloro che non accettano questa visione del mondo, occidentali come il “cattivo” del film o no). Soprattutto, Avatar ci spiega – con un’ideologia che dovremmo ben conoscere – che lo scontro violento è l’unico modo di affrontare queste questioni. Cosa su cui, essendo anch’io occidentale, tenderei ad essere d’accordo. Anch’io, come te e come i Prodigy, di fronte alla brutalità dei colonizzatori penso istintivamente: “Invaders must die”. Solo che, al di fuori dei cinema e del pianeta Pandora, la lotta armata contro gli eserciti delle multinazionali non rappresenta affatto una possibilità di riscatto, ma una garanzia di sterminio. Sterminio che soddisfa non solo i colonizzatori, ma anche i Prodigy: i quali non pensano realmente al diritto delle popolazioni di vivere secondo il proprio spirito e le proprie tradizioni (che troverebbero spesso mostruose e inconciliabili con il proprio immaginario etico, se davvero le conoscessero), ma aspirano a veder realizzato quell’”ideale di sé”, tutto occidentale, che trova nella risposta armata alla violenza coloniale una sorta di catarsi consolatoria del proprio inespresso senso di colpa. Nella realtà le cose vanno diversamente. Cortés riuscì a conquistare l’enorme impero azteco con poche decine di uomini perché comprese che l’astuzia, la tattica, la conoscenza del nemico, la manipolazione delle informazioni, la diplomazia, sono gli strumenti più idonei a conseguire la vittoria. Sfruttò le rivalità tra le popolazioni locali, imparò la lingua nahuatl per essere in grado di comunicare con i nativi, utilizzò spie, traduttori e informatori, curò l’immagine del proprio esercito per farlo apparire divino e invincibile, mise a punto un sistema informativo efficientissimo che gli consentiva di conoscere in modo rapido e circostanziato ogni forma di dissenso esistente tra i nativi, studiò i meccanismi sociali e culturali degli aztechi per individuarne i punti deboli e poterli sfruttare a proprio vantaggio. E’ così che gli occidentali hanno sempre fatto la guerra, è così che hanno sempre vinto, non con la pura forza bruta. La forza bruta è solo il mito che la propaganda semplificatrice del colonialismo è felice di diffondere presso i propri sudditi, interni ed esterni, affinché siano sempre sconfitti. Per vincere ocorre invece una strategi
a, occorre conoscere a fondo i meccanismi del sistema d’informazione, imparare a inserirsi in essi, a manipolarli ed eventualmente a ritorcerli contro i loro ideatori. Proprio l’evenienza che l’apparato di rincoglionimento globale – cui credo che Avatar appartenga a pieno titolo – cerca di scongiurare.