La logica del profitto.
Siamo tendenzialmente portati a credere che, in campo economico, la convivenza tra razionalità e senso morale sia una questione piuttosto complicata. Spesso, i comportamenti assunti dagli operatori, per conseguire gli obiettivi economici, appaiono in contrasto con gli obiettivi etici e ciò può essere considerato vero se la razionalità viene utilizzata per ottenere un profitto di breve periodo, inteso come tornaconto individuale da ricercare con ogni mezzo.
Questo accade quando la razionalità è usata in modo opportunistico ed egoistico ma esiste anche il caso in cui la logica del profitto, sapientemente mediata, può diventare un occasione per mantenere vitale la società assicurando un benessere collettivo e duraturo.
Una Repubblica che per Costituzione è fondata sul lavoro, sulla tutela della retribuzione “dignitosa”, del risparmio diffuso, dell’accesso per tutti all’abitazione e all’istruzione, sul favore per l’impresa artigiana e per i coltivatori diretti obbliga le istituzioni ad attuare misure fiscali e di politica industriale che portino a rendere pienamente “spendibile”, per il bene della società stessa, il proprio patrimonio umano.
Ciò è possibile solo attraverso un’adeguata misura di spesa pubblica ed un’imposizione fiscale che non serva solo ad inseguire i parametri imposti dalla logica del profitto fine a se stessa.
Purtroppo, ad un certo punto del nostro percorso, ha cominciato a farsi strada l’idea che questo modo di fare tendesse a dispensare troppo buonismo sociale e, con giustificazioni francamente poco plausibili, si è deciso di rottamare il modello dello “Stato imprenditore” in favore di quello neoliberista per costringerci a ristabilire un contatto con la durezza del vivere.
Sotto il termine neoliberismo ricadono oggi una serie di concezioni politiche, economiche e filosofiche incentrate sull’esaltazione del libero mercato e sulla necessità di ridurre al minimo l’intervento dello Stato nella vita pubblica ma si può arrivare ad identificarlo anche nel processo che porta il potere finanziario a prendere il controllo dello stesso e dei suoi organi chiave.
L’Unione europea, organizzazione non sovrana che non persegue gli interessi del gruppo sociale degli “europei”, essendo l’esperimento più avanzato di neoliberismo, non potrà mai essere un’alternativa in grado di garantire l’applicazione di una “sana” logica del profitto poiché la sua unica vocazione è l’instaurazione di un’area di forte competizione commerciale tra Stati caratterizzata dalla “religione” della stabilità dei prezzi.
La chiamano concorrenza.
Il significato di questa parola è ritenuto scontato. C’è un mercato, dicono, e c’è la concorrenza. Il capitalismo, aggiungono, prevede l’uno e l’altra.
Eppure a pensarci bene è chiara anche un’altra cosa e cioè che l’applicazione effettiva del principio della concorrenza porterebbe a limitare i profitti.
La deriva monopolistica nasce da questa semplice constatazione ed è da sempre supportata dalla convinzione inconfessabile che la concorrenzialità sia un’ipotesi intimamente ostile al capitale.
Rispetto agli esperimenti di economia pianificata che rappresentano il tanto sbandierato nemico del capitale, la concorrenza gioca il ruolo del nemico fatto passare in sordina.
Il nemico più insidioso del capitale non sarebbe quindi il socialismo ma la minaccia sempre incombente della concorrenzialità.
La questione della concorrenza riguarda l’aspetto teorico del capitale ma il punto è che il capitale non ha bisogno di teorie.
Il capitale ha bisogno di profitto e una teoria del profitto tende a voler prolungare sempre e comunque il momento del profitto.
Questa riflessione diventa più che mai doverosa in seguito all’introduzione, in Europa, delle politiche di liberalizzazione.
Le suddette politiche si traducono in un percorso lungo il quale vengono gradualmente rimossi i divieti alla libera circolazione dei capitali favorendo le dismissioni e le svendite del patrimonio pubblico, le privatizzazioni e la creazione di oligopoli sovranazionali.
Si tratta del tentativo di estendere il principio concorrenziale anche a quelle categorie che per necessità sociale sono a regime vocazionalmente monopolistico.
Si vuole far credere che certi provvedimenti favoriranno la possibilità di razionalizzare i flussi di capitale ma razionalizzare il capitale significa anzitutto ridistribuirlo e una ridistribuzione del capitale tradisce nel modo più assoluto la logica del profitto secondo cui il denaro deve “cumularsi”.
L’aumento della disuguaglianza è quindi un fenomeno dovuto alle politiche economiche in atto:
deregulation e libero mercato hanno scatenato una corsa all’abbattimento dei costi determinando un assetto sociale in cui il mercato del lavoro deve essere necessariamente caratterizzato da una forte disoccupazione strutturale che renda naturale la flessibilità e la precarietà.
Il lavoratore da cliente viene incentivato a diventare debitore facilitando ulteriormente il processo.
Ed eccoci dunque al punto.
Per secoli si è ricavato il profitto dal lavoro e anche se c’è voluto tempo e sacrificio la logica di quel profitto alla fine si è dovuta “piegare” agli interessi della società.
Oggi il profitto ha dato il benservito al lavoro e la società si ritrova costretta a piegarsi alla logica del profitto da perseguire ad ogni costo.
Non è vero, come è stato detto, che esiste un problema nella “vecchia” concezione del lavoro; è vero piuttosto che si è creato un problema nel rapporto secolare tra lavoro e profitto. Il profitto ha “scaricato” il lavoro semplicemente perché non rende abbastanza.
La nuova frontiera del profitto è sotto i nostri occhi ed è costituita dalla crisi del lavoro che ha sostituito il lavoro come fonte del profitto. Il profitto è in crisi, cioè nella crisi e uscire dalla crisi significherebbe uscire dall’attuale logica del profitto.
L’unica via per riconciliare razionalità e senso morale è quella che riparte dalla nostra Costituzione.
Commenti recenti