Una sommessa difesa del liceo classico
da LE PAROLE E LE COSE (Claudio Giunta)
Finite le scuole medie, una cara amica si sentì fare dal padre questo discorso: «Tu sei libera, puoi fare quello che ti pare, scegliere la scuola che vuoi. Dunque scegli: Tasso o Mamiani?». Il Tasso e il Mamiani sono due celebri licei classici di Roma, una volta andava così. Anche adesso, trent’anni dopo, va così, almeno per la mia amica (che si è laureata in Storia, non in Ingegneria), che non imporrà niente, si capisce, ai suoi figli, ma sarà lieta se vorranno anche loro scegliere, liberamente, tra il Tasso e il Mamiani; e va così anche per me (che mi sono laureato in Lettere, non in Ingegneria), che non imporrei niente ai miei figli, ma sarei lieto se anche loro, come me, decidessero di passare qualche anno della loro vita in compagnia dell’Eneide, degli aoristi, del locativo e di Baruch Spinoza.
Buttarla sul personale, parlando di scelte scolastiche, è la prima cosa da fare, perché si tratta sempre di preferenze, inclinazioni personali, si tratta di scelte di vita, e pretendere di guardare dall’alto, da un punto di vista che si presume oggettivo, queste scelte di vita, e dire cos’è meglio e cos’è peggio non per sé o i propri figli ma in generale è ridicolo prima che sbagliato.
Ciò premesso, è chiaro che i casi personali sono infiniti, e che un assetto all’istruzione bisogna darlo e si dà (che cosa insegnare a scuola? Come organizzare i curriculum? Quali discipline privilegiare e quali no?), quindi è del tutto legittimo domandarsi, per esempio, e lo si sta facendo in queste settimane, che destino può e deve toccare al liceo classico. Nei trent’anni che sono passati dal mio ingresso al liceo classico, infatti, il mondo è cambiato, forse più ancora di quanto fosse cambiato nei sessant’anni che separavano i miei anni Ottanta dalla riforma Gentile. Cambiamenti strutturali, nel modo in cui viviamo, comunichiamo, ci spostiamo; e cambiamenti culturali, in parte conseguenza di quelli strutturali, e che hanno intaccato quel complesso di idee e valori che sono il fondamento della pedagogia del liceo classico. Umanesimo/tecnologia, lingue morte/vive, tradizione/innovazione, conoscenza/competenza, teoria/pratica – tutti i termini sui quali il mondo di ieri metteva un segno più, i primi di ciascuna coppia, adesso hanno un segno meno: non che il mondo di oggi li snobbi del tutto, questo non si può dire, ma preferisce i secondi.
Conseguenza pratica: se nel mondo di appena ieri frequentare il liceo classico era il modo migliore per cominciare a farsi strada nella vita, oggi molti pensano che non sia più così, e le iscrizioni al classico calano, rischiano di prosciugarsi. In un libro aureo e dimenticato, Scuola sotto inchiesta, Guido Calogero osservava: «Abbiamo ancora tutti moltissimo da trarre, dalla frequentazione della saggezza e della bellezza antica. Perché dunque pensare di volerci togliere l’uso di questo formidabile strumento di vita?». Semplice: perché (parlano sempre i molti, s’intende) ogni ora in più dedicata al latino e al greco è un’ora in meno dedicata all’inglese e all’informatica, che come strumenti per la vita odierna sono decisamente più utili.
E che importa – commenta qualcuno – la crisi del liceo classico? È calato anche il numero di quelli che tirano di scherma, e il mondo ha continuato a girare. Osservazione sciocca, perché, dato che viviamo in Italia e non in Congo, liquidare il liceo classico significa anche liquidare, col latino e il greco, un pezzo sostanziale della nostra storia e della nostra cultura: l’una e l’altra anche economicamente molto produttive, dato che i turisti non vengono a trovarci soltanto per il mare e la cucina. Dunque la cosa importa, non solo a livello individuale, ed è bene che se ne discuta, e la parola difesa (‘difesa del liceo classico’), che ai liberali può suonare stridula, si adopera invece con pieno diritto. Tutto sta a intendersi sui modi.
Intanto: è chiaro che il classico non è e non sarà più la scuola dell’élite, il vertice del triangolo alla cui base stanno le scuole professionali, i tecnici eccetera, o, come purtroppo ancora leggo in giro, il liceo d’eccellenza (uno non fa il classico proprio per imparare ad astenersi da parole del genere?). È e sarà un liceo come gli altri, ma calibrato su quei giovani che, per un pezzo della loro vita o per tutta, vogliono imparare molte cose sul passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica. Può sembrare una cattiva notizia a quelli che vaneggiano della speciale apertura mentale conferita dallo studio del latino, o della Grande Bellezza che si dischiude solo ai classicisti, o di Zuckerberg che ha inventato Facebook perché ha letto l’Eneide. Ma non è necessariamente un brutta notizia. Un tempo si faceva il classico perché quella era la scuola di chi andava a comandare, o di chi ci provava: il latino e il greco erano una metonimia: averli studiati voleva dire appartenere a un piccolo club di privilegiati (quelli che l’irriflessività di alcuni tra i fautori del liceo classico scambia per ‘migliori’: ma se il fulcro della riforma Gentile fossero stati gli istituti tecnici è chiaro che i ‘migliori’, in quanto privilegiati, sarebbero stati i ragionieri). Adesso è e sarà la scuola di quelli che hanno un reale, non metonimico interesse per quelle discipline. Che il numero degli iscritti cali mi pare a questo punto inevitabile, e forse persino auspicabile. Le strade d’accesso all’élite si sono moltiplicate e diversificate, ed è bene che chi ha altri interessi li soddisfi attraverso altri indirizzi di studio. Questo dovrà forse avere qualche riflesso anche sulla prassi scolastica. Quando andavo a scuola io le bocciature fioccavano sin dalla quarta ginnasio perché, più che insegnare il latino e il greco, bisognava scremare chi era ‘da liceo classico’ e chi non lo era. Adesso servirà, se non davvero più gentilezza, più pazienza, e applicazione anche con i non predestinati.
Questa scuola di non-élite conserverà il suo solido impianto umanistico, ma non potrà non adeguarsi ai tempi. Di fatto, mi pare che lo abbia già fatto e lo stia facendo: integrando al curriculum ore di scienze, portando la lingua straniera fino alla quinta, dando la possibilità a chi vuole di studiarne una seconda. Una buona preparazione umanistica e scientifica insieme non è una chimera, tant’è vero che molti ottimi scienziati hanno fatto il classico, specializzandosi poi all’università. Ricordo questo fatto ovvio solo perché mi pare invece che nel dibattito affiori ogni tanto una retorica scientista piuttosto rozza, e simmetrica a quella umanista: come se la scuola dovesse formare dei piccoli ingegneri o dei piccoli informatici, e tutto il tempo passato a far altro fosse tempo speso invano. Ma il liceo cura la formazione, non la professionalizzazione, e la formazione deve fondarsi su un novero di discipline ragionevolmente ampio, salvo produrre dei monomaniaci.
Come fare spazio, al classico, alle nuove discipline (e alle nuove esigenze di vita: è ovvio che oggi lo sport ha un’importanza molto più grande di quella che aveva ai miei tempi, e chi lo pratica dev’essere incoraggiato a farlo)? Aumentare il monte ore? Non sarebbe uno scandalo, salvo però diminuire la quantità dei compiti a casa, lavorando di più in classe insieme all’insegnante (mentre mi pare prevalga ancora un approccio ‘universitario’, di fiduciosa delega allo studente, che non funziona più nemmeno all’università, e che insomma fa la fortuna del CEPU). Sacrificare qualche ora di greco, latino o italiano alle nuove discipline? La sola ipotesi sembra blasfema, dato che già con le ore a disposizione (gite e scioperi ed elezioni e feste nazionali aiutando) non si riesce mai a finire il programma. Ma qui allora, perché l’ipotesi non sia blasfema, il discorso deve prendere una piega diversa e riguardare non l’impianto disciplinare del liceo classico bensì i suoi contenuti.
Nella discussione (semplifico) pro o contro la traduzione dalle lingue classiche io sto molto decisamente coi pro. Si cominci a tradurre, imparando il rigore, la precisione, la logica, la buona lingua e il resto (le idee sul mondo antico, i miti, l’antropologia eccetera) verrà di riflesso. Salvo errore, però, negli ultimi tre anni di liceo il tempo dedicato a leggere e tradurre i testi si riduce molto per lasciare spazio alla storia della letteratura. Vale per il greco e il latino e vale, con le differenze del caso, per l’italiano. Ebbene, è qui – su questa enciclopedia che va da Livio Andronico a Claudiano, da Esiodo a Nonno di Panopoli, dai trovatori a Zanzotto – che a mio avviso bisogna sfrondare, potare. L’obiettivo non è insegnare la genealogia, che impareranno, in pochi, all’università, ma il gusto e la capacità della lettura, capacità che la gran parte dei diplomati al classico, dopo tre anni di ‘autori’, non ha: provate a fargli leggere non dico Cicerone ma la lapide di un cimitero. Non c’è da abolire la storia, ma neppure da farne un feticcio; e c’è da abolire il mito della completezza, e i programmi sesquipedali pieni di nomi e di chiacchiere attorno ai nomi.
Infine, adeguarsi ai tempi significa anche non ignorare il tempo presente. Gli studi classici nacquero e prosperarono in un mondo in cui l’offerta di novità culturali era scarsa e omogenea, un mondo nel quale esisteva un nesso di quasi naturale continuità con il mondo antico: i miti e gli eroi dell’epica tenevano nelle menti il posto che oggi è occupato dai personaggi dei film. Questo nesso non esiste più, questa famigliarità si è dissolta. Allo stesso tempo, l’offerta di novità culturali (libri, film, canzoni, giochi) si è dilatata all’infinito: sono ovunque e sono, spesso, meravigliose, e capaci di parlare a un adolescente con un’immediatezza che nessun classico può avere. Spalancare loro le porte significherebbe aumentare la confusione in un’età in cui serve invece soprattutto ordine; ma escluderle da un’istruzione che si definisce ‘umanistica’ è sbagliato, perché rischia di produrre dei mostriciattoli antipatici e reazionari, e patetiche torri d’avorio. Non si tratta di attualizzare i classici, sollecitando a collegamenti spericolati; si tratta di insegnare agli studenti a conoscere e a interessarsi anche a questo mondo, dato che è quello in cui devono vivere. Che una scuola in cui si insegnano cose vecchie di duemila anni trasmetta un’idea museale della cultura è perfettamente normale, e va benissimo; ma qualche correttivo sembra opportuno.
Fonte:http://www.leparoleelecose.it
“Quando andavo a scuola io le bocciature fioccavano sin dalla quarta ginnasio perché, più che insegnare il latino e il greco, bisognava scremare chi era ‘da liceo classico’ e chi non lo era. Adesso servirà, se non davvero più gentilezza, più pazienza, e applicazione anche con i non predestinati.”
Le bocciature fioccavano anche sin dal primo ragioneria o industriale. Se in una classe di quarto ginnasio erano bocciati 7 studenti in una di primo ragioneria ne erano bocciati 8 e in una di primo industriale anche 10.
Prima o poi capiremo che serve una (poco) sommessa difesa della (minaccia di) bocciatura. Con la minaccia di bocciatura e quindi con la bocciatura lo Stato tornerebbe a stabilire cosa è importante e quanto lo è e a pretendere dai giovani l’adempimento dei doveri, ossia tornerebbe a formare uomini. Altrimenti, ci pensa il mercato a stabilire gerarchie di valori e di produttori-consumatori.
Per il resto concordo, persino con il tono sommesso.
A parte un uso del termine ‘metonimia’ e suoi derivati alquanto disinvolto per un ex-studente di Liceo Classico, l’articolo contiene una sequenza di punti disarmanti: il mondo è cambiato – come se la norma sia che rimanga fermo, come se fosse cambiato nella sua totalità. Oppure che se si dedicano ore a latino e a greco le si tolgono all’inglese e all’informatica – come se non si potesse fare questo e quello (e che si possa fare questo e quello, la scarsa coerenza dell’articolista lo consente più sotto). Oppure che il liceo classico non ha utilità pratica – come se l’utilità pratica non fosse proprietà delle applicazioni, anziché delle teorie, e le applicazioni fossero disponibili senza teorie. Oppure che si debba aumentare il monte-ore per fare posto a nuove materie, salvo lavorare più in classe ed avere meno compiti casa – come se il lavoro a casa fosse sostituibile dal lavoro in classe. Oppure che la letteratura antica sia equivalente al cinema moderno – come se leggere l’Iliade nella sua lingua equivalesse a guardare ‘Troy’. Oppure che”si tratta di insegnare agli studenti a conoscere e a interessarsi anche a questo mondo, dato che è quello in cui devono vivere” – come se gli studenti non fossero già interessati a questo mondo, come se una preparazione severa non fosse una condizione imprescindibile della sua conoscenza. Non una parola sull’altezza della cultura classica, sull’acquisizione delle competenze grammaticali e logiche legate alle lingue dotte. Non a caso le chiama ‘lingue morte’.
Hai ragione Paolo.
Io ero stato (molto) meno severo, avendo in certo senso apprezzato, sotto il profilo della utilità politica, che a fianco alle difese “forti” si diffondessero anche difese “deboli”. Se invece entriamo nel merito della difesa debole, alle tue osservazioni si aggiunge anche una considerazione preliminare.
Infatti, è la stessa idea che, siccome diminuiscano gli iscritti, una scuola debba essere soppressa o anche soltanto modificata, ad essere insensata.
Se il liceo classico deve morire, deve morire perché gli studenti non vi si iscrivono più: seppure rimanesse soltanto un liceo classico in Italia, ubicato a Roma, dove andassero a studiare un centinaio di studenti ogni anno da tutta Italia, non vi sarebbe nessuna ragione logica per sopprimerlo.
Modificarlo per non far ad esso perdere gli iscritti, invece, è apparentemente frutto della stessa logica perversa che caratterizza le trasformazioni dei partiti politici che non vogliono decadere e poi morire.
Quando i partiti si trasformano, quelli che nascono sono sempre peggiori degli originari (PDS rispetto al PCI, Partito Popolare o UDC o CCD rispetto alla DC, SEL rispetto a Rifondazione; gruppetti socialisti rispetto al PSI).
Peraltro, la similitudine è apparente, perché la trasformazione di un partito serve almeno (purtroppo) a salvare una classe dirigente decadente. La trasformazione di una istituzione, che vive di domanda, eventualmente calante, dei cittadini, che funzione avrebbe?
In Italia, chiunque si trova ad occupare un posto in una commissione di nomina ministeriale o è chiamato da un ministro come consulente, propone una “riforma”, probabilmente credendo che sia stato chiamato per assolvere questo compito. Alla radice di simili proposte c’è l’esigenza di dare una funzione a personaggi modesti ai quali è stato dato un ruolo. E niente altro.