Perché le multinazionali vogliono riformare la scuola?
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
La riforma della scuola italiana si inserisce in un contesto ben più ampio e complesso di quanto non lascino trasparire la cronaca politica e la costante opera di disinformazione messa in atto dai mass-media. In un’epoca nella quale le onnipervasive strategie di dominio flessibile delle major relegano ministri, tecnici, sindacalisti “di regime” al ruolo di comparse in un gioco che non ha proprio nulla di reale e democratico, chi sia interessato a comprendere la visione della scuola e della società propria della riforma può tranquillamente fare a meno di leggersi i documenti del ministero (di una istruzione, peraltro, che ormai ufficialmente non è neppure più pubblica) e consultare piuttosto, per citare solo una fonte fra le varie disponibili, l’agile rapporto di una trentina di pagine elaborato dalla Tavola Rotonda Europea degli Industriali (European Rounde Table of Industrialists, ERT: fanno parte di questo club esclusivo colossi economici come Nestlé, Total, Siemens, Nokia, Renault, Deutsche Telekom, Fiat, Philips, Olivetti, Volkswagen, insieme a molti altri) con il titolo di Education for Europeans.
Towards the Learning Society (Educare gli europei. Verso la società dell’apprendimento). Pubblicato nel 1995, il rapporto dettava le due linee-guida della riforma scolastica europea: 1) l’industria deve stabilire i modi, i tempi e gli strumenti della formazione; 2) l’istruzione è una funzione dell’economia. We have no time to lose, avvertono gli industriali: si avvicina l’epoca «in cui la vita quotidiana sarà immersa nella nuova tecnologia e dovremo affrontare un’intensa competizione che richiederà accresciute abilità».
In questa cupa atmosfera di lotta per la sopravvivenza, e a dispetto di certe preoccupazioni umanitarie ostentate con una notevole dose di ipocrisia, la potente lobby ritiene che in futuro ogni cittadino europeo, resistendo alla «propaganda estremista», dovrà interpretare al meglio, cioè «dalla culla alla tomba», le esigenze dell’economia di mercato e della competizione globale più feroci.
L’istruzione, che l’ERT considera un «servizio utile» (proprio come la fornitura dell’acqua, dell’elettricità o del gas) offerto a studenti, società e mondo degli affari, andrà valutata e certificata, esattamente come avviene per i prodotti commerciali, con un marchio di qualità di cui è evidente l’ispirazione tayloristica così cara alla “filosofia del lavoro” statunitense e giapponese.
Ma il compito principale della scuola sarà quello di abituare gli studenti alla mobilità, fisica e soprattutto “ontologica”. Come si evince dal titolo, il messaggio fondamentale del rapporto è che gli europei dovranno prepararsi a imparare per tutta la vita: un eufemismo per dire che il mercato li costringerà a cambiare continuamente lavoro/sede e a rimanere in eterno precari flessibili, polivalenti, autodisciplinati. Ma l’ultima frontiera dell’istruzione che il rapporto dell’ERT prospetta è rappresentata, per i giovani e per gli adulti, dall’insegnamento a distanza (ODL: open and distance learning), impartito ovviamente a pagamento.
Le nuove tecnologie (computer, sistemi di comunicazione satellitare e via cavo, reti interattive di scambio di informazioni, simulatori, sistemi multimediali e di realtà virtuale) perdono di colpo ogni potenzialità emancipatrice per subire una netta strumentalizzazione in senso aziendalistico: l’ODL assicurerebbe, infatti, enormi proventi alle compagnie telefoniche e alle aziende fornitrici dei software didattici, penalizzando pesantemente gli studenti meno abbienti, impossibilitati a pagarsi le video-lezioni trasmesse via internet, e disintegrando il “gruppo classe”, essenziale per imparare a convivere al di là delle differenze di censo o di appartenenza etnico-religiosa.
Nessuno, in tutta serietà, può credere che una tecnocrazia (post)totalitaria, nella quale ogni fase dell’esistenza individuale viene finalizzata in modo organico al potenziamento della competitività e dell’efficienza di sistema, possa favorire sia la libera crescita degli alunni, del resto considerati dai PTOF (i Piani triennali di offerta formativa dei singoli istituti) come utenti/clienti, sia la libertà dell’insegnamento sancita dall’art. 33 della Costituzione.
La più disastrosa conseguenza della “modernizzazione” non consisterà soltanto nella mercificazione del sapere ma nell’azzeramento delle disobbedienze creative, nell’esilio della cultura perpetrato in nome di un utilitarismo brutale e intollerante (ideologia egemone dell’Età Teocratica paventata dal grande critico letterario americano Harold Bloom?) che ne mette a rischio la ricezione e diffusione presso le nuove generazioni.
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