Viva le casalinghe di Voghera
Una buona riflessione di Gilioli che incrocia il referendum con la questione della democrazia rappresentativa di tipo liberale. Gilioli, consapevole o meno, pone una questione decisiva: preso atto che la democrazia diretta è spesso sopravvalutata, si può concepire una rappresentatività non liberale, cioè non esclusivamente formale (il 50%+1)?
di ALESSANDRO GILIOLI
È insicura l’origine della locuzione “casalinga di Voghera”.
Alcuni la attribuiscono al Servizio Opinioni Rai, che negli anni ’60 avrebbe commissionato un sondaggio sulla percezione delle parole usate nel telegiornale trovando il tasso di comprensione più basso in quella fascia sociogeografica. Altri ne attribuiscono la paternità ad Alberto Arbasino, che la rivendicava in quanto nipote di una di esse – e avrebbe usato questa zia come emblema del Paese reale.
Altrettanto incerta è la valenza negativa o positiva della definizione: secondo alcuni, infatti, essa indica la gente ignorante, il cui pensiero si nutre di cattiva televisione e si articola per luoghi comuni; secondo altri, si riferisce al contrario alle persone non acculturate ma il cui buon senso produce spesso risultati pratici migliori delle vuote e altisonanti parole accademiche.
Oggi su Repubblica la formula “casalinga di Voghera” ritorna, in un’Amaca di Michele Serra dedicata al referendum costituzionale (ma non solo quello).
«Gli appelli a votare nel merito della riforma sono nobili e giusti ma vani», scrive Serra. «Solo una piccola minoranza di italiani avrà la competenza e la voglia per farlo. E sarebbe sbagliato biasimare chi non lo farà. (…) Chiedere alla casalinga di Voghera e al barista di Trani di pronunciarsi sul bicameralismo imperfetto puro sadismo (sì, sono un antireferendario e sempre lo fui)».
L’articolo si conclude con un «Abbasso il referendum».
L’intervento di Serra si inserisce in un dibattito esploso soprattutto dopo la Brexit, ma ancor prima dopo l’inascoltato “Oχι” greco del 2015 e più in generale è un corollario della crisi delle democrazie rappresentative basate sul suffragio universale così come le abbiamo conosciute dal Dopoguerra a oggi, nonché dell’abisso che in questi anni si è scavato tra “élite” e “non élite” (cittadini, gente, popolo, plebe, 99 per cento: scegliete il termine che più vi aggrada per definire chi è non-élite).
La questione ha molti risvolti teoretici – Scalfari e Zagrebelsky ne hanno discusso su Repubblica – ma il punto che pone Serra è molto più concreto, pratico: e investe il cuore stesso della democrazia, le sue varie possibili declinazioni. Secondo Serra «ci sono materie che competono gli esperti e i nostri rappresentanti eletti» sulle quali quindi non può essere chiamato a legiferare il popolo, almeno non in modo diretto. Tra queste materie evidentemente Serra mette anche la Costituzione (o almeno quella parte su cui voteremo il 4 dicembre) che pure gli stessi Padri costituenti avevano previsto come sottoponibile (nelle sue eventuali modifiche) a referendum popolare.
Già.
È curioso no? Nel 1948 – quando in Italia gli analfabeti erano il triplo dei laureati, la maggioranza di noi parlava solo dialetto e la terza media per tutti era un miraggio – i Costituenti ritenevano doveroso sottoporre eventuali cambiamenti della Costituzione al placet dei cittadini. Adesso invece si ritiene che siano dei minus habentes, meglio lasciar fare agli esperti e ai rappresentanti.
Evidentemente sono cambiate molte cose, nel frattempo. Specie a sinistra, direi.
Per prima cosa credo che sia venuta meno la fiducia umanistica nella possibilità che le persone possano capire, possano educarsi, studiare.
Una volta questo era quasi un mantra, per noi socialisti o comunisti. Dallo “studiate” gramsciano alle 150 ore, grandissima conquista dei primi anni ’70.
Una volta noi a sinistra si pensava che la pedagogia fosse l’epicentro di ogni conquista civile e sociale. I nostri miti erano don Milani e Paulo Freire. Il nostro obiettivo era l’educazione permanente: «La partecipazione sociale esige delle azioni collettive. Ma l’azione collettiva suppone una formazione collettiva, una formazione che si fondi sulla partecipazione di tutti e di ciascuno all’azione formativa» (Bertrand Schwartz).
Oggi sembra che abbiamo ripudiato la pedagogia, preferendo rimarcare l’alterità rispetto ai “not educated” che votano male e a volte è meglio che non votino proprio.
E pensare che ancora negli anni Settanta-Ottanta, in Italia, un paio di referendum importanti (divorzio e aborto) ci fecero dire che la “società civile” era più avanti della politica e dei partiti. Erano questioni più semplici, direbbe Serra, e probabilmente avrebbe ragione. Però è interessante il fatto che allora il popolo fosse considerato addirittura più avanti dei suoi rappresentanti, delle sue élite politiche. Oggi arriviamo a teorizzare che il popolo è talmente più indietro che deve essere tenuto lontano da molte decisioni.
E non sto parlando solo dell’Amaca di Serra, uno le cui perplessità sul presente molto spesso condivido. Sto parlando di una tendenza diffusa. Un ex presidente della Repubblica, per esempio, ha definito «un’aberrazione» il fatto che i cittadini del Regno Unito abbiano potuto esprimersi sul rimanere o no in Europa (non gli esiti di quel referendum: proprio il fatto che si sia potuto tenere un referendum sul tema, per lui era aberrante). Un ex premier ha definito quella consultazione «un abuso di democrazia». Un sindaco del Pd ha proposto di rivedere il suffragio universale.
Non credo che abbiamo fatto dei passi in avanti, in termini umanistici.
Credo ancor meno che la salvezza delle democrazie passi attraverso l’allontanamento dei cittadini dalle decisioni: anzi credo esattamente il contrario.
Credo cioè che per arrivare a una nuova relativa stabilità – dopo questa turbolenta fase di conflitto tra establishment e anti establishment – sia necessario non chiudere ma al contrario aprire di più i canali tra i cittadini e le istituzioni, tra gli elettori e le decisioni che li riguardano. Mentre nell’ultimo trentennio siamo andati nella direzione opposta: le persone hanno avuto sempre di più la sensazione non infondata di essere allontanate dalle decisioni, che venivano esternalizzate a istituzioni e poteri lontani e molto élitari. E non mi pare che la direzione presa in questo trentennio abbia finora dato buoni esiti.
Certo, lo so, si potrebbe fare una lista lunga un chilometro delle decisioni “sbagliate” che hanno preso i popoli nella storia: dal Crucifige di Gesù alla vittoria elettorale di Hitler. Temo però che sarebbe altrettanto lungo l’elenco degli errori che hanno commesso le élite, spesso neppure rappresentative di alcunché: le regole dell’Europa e l’architettura della sua moneta ne sono solo l’esempio più recente – e abbastanza deflagrante nelle sue conseguenze, direi.
E in ogni caso credo che la questione non sia nemmeno quella di misurare gli errori dei popoli – se siano più o meno gravi rispetto a quelli delle loro élite – ma di accettare o respingere il principio filosofico su cui è nato l’Occidente moderno: cioè quello in base al quale non esiste più alcun criterio ontologico o religioso per la definizione di giusto o sbagliato, sicché l’unico criterio resta quello – relativista e altrettanto fallibile – del 50 per cento più uno, con tutte le garanzie possibili per il restante 49,9.
Viva le casalinghe di Voghera, viva i referendum.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/10/16/viva-le-casalinghe-di-voghera/
Commenti recenti