Produttività e occupazione
di GENNARO ZEZZA
Come sa chi segue il mio lavoro, negli ultimi anni non mi sono occupato nei dettagli dell’andamento dell’economia italiana (anche se prevedo di farlo nei prossimi mesi…).
Mi ha però stimolato il lavoro di Jacob Assa sulla “finanziarizzazione” del PIL.
In estrema sintesi, l’idea è che alcune componenti del PIL che sono in gran parte imputate, andrebbero eliminate, in particolare se si intende avere una misura della produzione più correlelata alla dinamica dell’occupazione. Queste componenti si riferiscono alla finanza e ai servizi abitativi (in inglese FIRE: Finance, Insurance and Real Estate). Jacob riprende il lavoro di Duncan Foley, che suggeriva di togliere dal PIL il valore aggiunto dei settori FIRE, calcolando in questo modo il NFVA (Non-Financial Value Added, o “Valore aggiunto non finanziario”). Jacob va oltre, e ritiene che queste misure imputate nel calcolo del PIL non solo non vanno imputate, ma andrebbero sottratte dal valore aggiunto degli altri settori, perché rappresentano un costo, più che un valore aggiunto. J. Assa chiama questa misura FGDP.
(Per inciso, una discussione tecnica sui dettagli della costruzione del PIL si trova in Capitalism: Competition, Conflict, Crises di Anwar Shaikh).
Ho così scaricato dal database dell’Istat le serie storiche del valore aggiunto e dell’occupazione per l’Italia, e dal database dell’Eurostat alcuni dati per la Germania.
Per l’Italia, uno dei risultati di Jacob trova conferma: una parte non piccola della “crescita” recente del PIL è dovuta ai settori FIRE (Figura 1): fatto 100 il valore aggiunto al 2007, la produzione dei settori Non-FIRE è caduta di più del valore aggiunto totale (tutti i valori sono misurati a prezzi 2010).
Passando ai dati sull’occupazione, per l’Italia nel periodo 1996-2016 non ho trovato conferma ai risultati di Jacob. Per cominciare, i risultati sono piuttosto diversi se si considera il numero degli occupati, o il numero delle “unità di lavoro”. Queste ultime sono calcolate dall’Istat come posizioni lavorative a tempo pieno: in sintesi, due lavoratori con un contratto part-time al 50% contano come una sola unità di lavoro.
In Figura 2 si nota come le unità di lavoro siano cadute molto più del numero degli occupati, e stiano oggi aumentando più lentamente del numero degli occupati. Evidentemente, con la crisi è aumentato il numero di lavoratori a tempo pieno sostituiti (quando va bene!) da lavoratori a tempo parziale.
La correlazione tra il livello delle unità di lavoro e le misure di produzione di Figura 1 in Italia è massima quando si usa il NFVA. Se guardiamo invece ai tassi di crescita, la correlazione rimane più significativa tra unità di lavoro e valore aggiunto totale.
Esaurita la mia curiosità sulla applicabilità del lavoro di Assa per l’Italia, una nuova curiosità è emersa dal confronto tra i due grafici. Se l’occupazione sta crescendo, ma il valore aggiunto ristagna, ciò vuol dire che il prodotto per addetto sta diminuendo.
E’ facile verificare, dai dati aggregati, che è effettivamente così. Ma a cosa è dovuto il calo di produttività? Siamo meno bravi dei tedeschi?
n Figura 3 ho calcolato il valore aggiunto per addetto, usando i dati dell’occupazione, e non quelli relativi alle unità di lavoro. Effettivamente il prodotto per addetto nel manufatturiero tedesco è aumentato di 3,4 punti (secondo trimestre 2016) rispetto al 2007, e quello italiano solo di 1,8 punti, ma le due serie si muovono in modo piuttosto simile: non sembra esserci un abisso nella dinamica della produttività.
Se guardiamo allora a come si è modificata la composizione del PIL, notiamo che la Germania ha aumentato, dal 1999 ad oggi, la quota del valore aggiunto manifatturiero (settore ad alta crescita della produttività), mentre per l’Italia questa quota si è ridotta, ed è aumentata la quota del valore aggiunto dei servizi (settore a bassa crescita della produttività).
Per concludere, l’aumento recente nelle unità di lavoro in Italia non è un segnale molto positivo (anche se è meglio di niente!) se è il risultato di uno spostamento da lavori a tempo pieno in settori a forte crescita della produttività verso lavori precari nei servizi, a basso valore aggiunto e con una dinamica negativa della produttività.
Come scrivevo all’inizio, questo post è il risultato di poche ore di lavoro: un’indagine più approfondita è necessaria, ma mi sembra che fornisca comunque qualche risultato utile alla discussione pubblica sull’efficacia del Jobs Act, ecc.
Fonti:http://gennaro.zezza.it
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