Amato l’ordoliberale
di CARLO CLERICETTI
E’ raro ascoltare qualcuno che si definisca “ordoliberale”. L’ha fatto Giuliano Amato, nel corso di un convegno in cui si discuteva di un libro che contiene vari saggi di autorevoli studiosi sul rapporto tra Stato e mercato (Il sistema imperfetto, a cura di Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu, Luiss University press). L’ordoliberismo, ha aggiunto Amato, non ha nulla a che fare con le teorizzazioni delle politiche di austerità: affermazione su cui si può discutere, ma anche se si sottoscrivesse senza riserve questo non ne farebbe una teoria adatta ad accordarsi con una visione progressista della società.
L’ordoliberismo prende il nome dal gruppo raccolto dall’economista tedesco Walter Eucken attorno alla rivista Ordo da lui fondata. Chi volesse conoscerne meglio le origini e le caratteristiche troverebbe un’analisi approfondita in un saggio di Alessandro Somma dell’Università di Ferrara (La dittatura dello spread, ed. DeriveApprodi). Rispetto ad altre forme di liberismo si caratterizza per il fatto che non auspica uno Stato debole, ma proprio il contrario. Lo Stato deve essere forte per imporre le regole che facciano funzionare correttamente il mercato, in base al principio-cardine della concorrenza. E’ forse per questo che Amato, che è stato presidente dell’Antitrust dal ’94 al ’97, ha sposato questa dottrina, che non ha davvero nulla a che fare con le sue precedenti esperienze politiche di socialista. Per il resto, lo Stato non si deve immischiare, gli ordoliberali sono ferocemente anti-keynesiani (e anti-molte altre cose: persino Roosevelt era loro inviso).
I fondatori dell’ordoliberismo erano in prevalenza cattolici e cristiani, e parecchi di loro non si ritrarranno dal ricoprire incarichi anche di un certo rilievo nell’amministrazione nazista. Era per esempio anche iscritto al partito Alfred Müller-Armack, colui che coniò la definizione di “economia sociale di mercato”. Non che la dottrina possa essere assimilata al regime hitleriano, ma si può anche dire che i suoi esponenti non erano tifosi sfegatati della democrazia e che, a parte la contrarietà sulla questione razziale – peraltro mai sfociata in opposizione aperta – non sembra che avessero molti altri motivi di contestazione. D’altronde le loro teorie si proponevano di disegnare l’ordine economico europeo per il giorno in cui i tedeschi avrebbero vinto la guerra. L’economia di guerra del regime, a cui gli ordoliberali fornirono la loro collaborazione, era considerata tra le eccezioni al principio di non intervento diretto dello Stato, che era invece ammesso nei casi in cui si ritenessero necessarie delle leggi che riproducessero quelle “naturali” del mercato.
Gli ordoliberali hanno una visione organicistica della società e rifiutano l’idea del conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, che devono invece collaborare per il bene comune. E’ Eucken che giunge alla conclusione che l’obiettivo primario da perseguire è la stabilità dei prezzi (garantita da una banca centrale indipendente), che dovrà avere la prevalenza su qualsiasi altro (per esempio la piena occupazione). Dell’armamentario ordoliberale fanno parte anche il bilancio pubblico tendenzialmente in pareggio e la privatizzazione dei servizi pubblici.
Le idee di questo gruppo avranno un ruolo fondamentale nel post-nazismo, con il quale affermeranno di aver lavorato solo per cercare di contrastarne gli aspetti peggiori. Non riusciranno a realizzare completamente il loro modello, nonostante che il ministro dell’Economia Ludwig Erhardt fosse dei loro, per l’opposizione tanto dei grandi gruppi industriali che dei sindacati (naturalmente su aspetti e con motivi diversi), ma certamente la loro impronta risulta ben chiara. L'”economia sociale di mercato” assumerà poi un aspetto sostanzialmente diverso da come loro la intendevano con l’andata al potere dei socialdemocratici, Willy Brandt e poi Helmut Schmidt, che favorirono l’espansione del welfare e – specie il secondo – la famosa “cogestione” delle imprese. E’ quel modello che è rimasto legato alla definizione fino ad oggi, ma quella interpretazione è solo di un periodo circoscritto nel tempo, e già con i governi socialdemocratici successivi, in particolare quello di Gerhard Schröder, si è tornati verso l’idea originaria.
Nei principi sommariamente descritti si può riconoscere l’attuale costruzione europea. E d’altronde lo stesso Amato è stato vice presidente della Convenzione europea che doveva appunto disegnare l’architettura dell’Unione e in seguito ha presieduto il “Comitato d’azione per la democrazia europea” che ha lavorato alla riscrittura della Costituzione. Visto l’orientamento che aveva maturato, non è certo stato sgradito ai leader tedeschi.
Quando si parla di “riformare l’Europa” bisognerebbe quindi aver ben presenti le radici teoriche della sua costruzione, e anche rendersi conto che il concetto di “economia sociale di mercato” non indica una prospettiva socialdemocratica armonizzata con i principi liberali, un qualcosa di somigliante alle società scandinave, ma deriva da una dottrina che vedeva la socialdemocrazia come uno dei suoi peggiori nemici. In contrasto peraltro con lo spirito della nostra Costituzione, che fu – quello davvero – un “compromesso storico” tra le idee cristiane e quelle socialiste. Se si vuole riformare l’Europa bisognerebbe cominciare proprio da qui, dai principi fondanti. Quando si vuole andare insieme da qualche parte sarebbe bene che tutti avessero chiaro quale meta si sta scegliendo.
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/
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