Il referendum sull’Euro è una pazzia
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gianmaria Vianova)
Solo una parziale e sintetica disamina dei costi di un’eventuale consultazione popolare sulla permanenza della moneta unica: l’atto suicida di un incosciente.
Quanto costerebbe indire un referendum sull’Euro? 300 milioni, risponderebbe la Ragioneria dello Stato: il costo di una elezione o di un qualsiasi altro referendum. Piccolo particolare: c’è un pianeta di soggetti e agenti economici là fuori (e tra noi) che non affronterebbero serenamente un referendum di questa portata. Ce ne sarebbe un altro, di piccolo particolare. La nostra Costituzione non contempla la possibilità di indire un referendum di tipo consultivo, bensì solo abrogativo (es. trivelle) e confermativo (es. costituzionale). Come se non bastasse, l’articolo 75 della nostra Carta proibisce tassativamente che una consultazione popolare, anche di natura abrogativa, possa vertere sulla ratifica dei trattati internazionali: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. La ratifica degli stessi è disciplinata invece dall’articolo 80: “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”. Insomma, allo stato dell’arte, la proposta di un referendum sull’Euro è totalmente inconcepibile.
Eppure il precedente c’è e le forze politiche che hanno a cuore il referendum vogliono sfruttarlo appieno: lalegge costituzionale del 3 aprile 1989, n° 2. Senza perdersi in lunghi excursus, si tratta di quella legge costituzionale ad hoc approvata plebiscitariamente dal Parlamento per autorizzare il referendum consultivo, celebratosi il 18 giugno 1989, avente per oggetto la “trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione” e l’affidamento al Parlamento Europeo del mandato di redazione di un progetto di Costituzione Europea. I più attenti tra coloro che sono nati prima del 18 giugno 1971 (ma non solo) ricorderanno che, lo stesso giorno, avvenne per la prima volta l’elezione diretta dei componenti del Parlamento Europeo, ad oggi (checché ci si inoltri in retoriche trite e ritrite sul Trattato di Lisbona) l’unico parlamento al mondo che non può proporre leggi, ma solo approvarle a mo’ di timbracarte. Questa, comunque, è un’altra storia. I partiti politici/movimenti che vorrebbero percorrere la strada del referendum consultivo sulla moneta unica intendono, quindi, seguire il sentiero tracciato dal 1989. Costoro evidentemente ignorano il procedimento di approvazione aggravato che i costituenti hanno ideato per garantire la rigidità della Costituzione (disciplinato dall’art. 138). Per giungere alla promulgazione definitiva da parte del Presidente della Repubblica di una legge costituzionale, anche se ad hoc, il Parlamento deve in prima lettura approvare la stessa a maggioranza assoluta in entrambe le Camere. A distanza non inferiore di tre mesi, il Parlamento deve approvare in seconda lettura l’identico testo a maggioranza qualificata (i due terzi dei componenti): se la maggioranza deliberante non si rivelasse di tale entità (scenario altamente probabile) la legge costituzionale verrebbe pubblicata ma rimarrebbe idealmente congelata per altri tre mesi. In quell’intervallo di tempo 500000 cittadini ovvero cinque consigli regionali ovvero un quinto dei membri di una delle due Camere possono proporre un referendum confermativo. Trattandosi di un referendum consultivo sulla permanenza nell’Euro ed essendo consapevoli della forte presenza di partiti ciecamente europeisti all’interno delle nostre istituzioni pare ovvio che gli stessi intraprenderanno ogni strada possibile per evitare l’eventualità antieuropeista, quindi il referendum confermativo.
Se anche i promotori della consultazione popolare sull’Euro dovessero riuscire a far passare la legge costituzionale ad hoc, l’Italia si troverebbe sotto stretta osservazione di media, mercati e Bruxelles per diversi mesi, se non per un anno. Quando si dice “stretta osservazione” si utilizza volutamente la neolingua dell’informazione mainstream che, tradotta in italiano, significa forte speculazione, minacce, ricatti e ultimatum dell’Unione Europea. Una bufera che, senza sovranità monetaria e banca centrale nazionale, larghissimo consenso e sovranità fiscale, non manterrebbe in sella neanche un premier incollato con Attak e Vinavil allo scranno di Palazzo Chigi. Qualcuno ricorda il 2011? In pochi mesi lo spread BTP-Bund salì a 574 punti base: i titoli di Stato italiani venivano svenduti a man bassa da investitori privati e istituti di credito. In contemporanea la BCE cessò di colpo l’acquisto di BTP italiani assecondando le pressioni al rialzo sui tassi. Si giunse nel novembre nero nella piena incapacità di fare prezzo, costringendo Silvio Berlusconi alle dimissioni e spianando la strada al “rassicurante” Mario Monti. Essendo i titoli di Stato la fonte di sostentamento dello Stato (e non le tasse, come erroneamente si tende a credere) è cristallina l’importanza di riuscire a collocare all’asta tutti i titoli di debito.
Traslate quella situazione ai lunghi mesi di iter che dovrebbero portare al referendum sull’Euro e capiretel’impossibilità di restare vivi sino a tale evento. Non per altro si tratterebbe di una consultazione che realmente, non come quella del 4 dicembre, potrebbe portare al break-up pressoché immediato della moneta unica europea. L’emorragia di capitali, attivata dal terrore derivante da una più che certa svalutazione della “nuova Lira” del 20/30%, non farebbe che indurre all’implosione il tessuto finanziario del Paese, con ovvie conseguenze sulle piazze borsistiche. Nell’attesa del referendum poi, naturalmente, l’Unione Europea, la BCE e il FMI imporrebbero degli ultimatum categorici al nostro governo, spingendolo a rinunciare all’intento. Se verba volant, banche chiuse manent, e il tragico precedente è sotto agli occhi di tutti. Il 5 luglio 2015, infatti, si svolse in Grecia la consultazione popolare sul nuovo pacchetto di misure d’austerità imposte agli ellenici dall’UE: vinse il NO (OXI in greco). Durante la decina di giorni che precedettero il voto, banche e borsa in Grecia rimasero chiuse: la BCE sigillò i rubinetti monetari lasciando invariata a 87 miliardi la liquidità a disposizione del Governo Tsipras. Questo costrinse cittadini e imprese greche a vivere una spiacevole situazione, compromettendo la vita delle famiglie e la capacità delle aziende di concludere transazioni: un ultimatum, un assaggio di apocalisse, un disagio provocato esogenamente. I rendimenti dei titoli di Stato ellenici a 10 anni passarono da poco più del 10% di fine giugno a oltre il 19% nei giorni successivi al referendum. Tsipras ebbe quindi di fronte due possibilità: uscire dall’Euro o approvare comunque il pacchetto di austerità. Cosa fece? In preda al panico e tra le dimissioni di un intransigente Varoufakis approvò il programma di Bruxelles. Probabilmente non aveva in mente un piano per l’uscita e ancor più probabilmente non ebbe il coraggio di prendersi questa responsabilità storica.
Il fatto è che la stessa (e in misura esponenzialmente maggiore) situazione incomberebbe certamente anche all’Italia, terza economia dell’Eurozona. Di fronte ad un tale caos difficilmente i cittadini italiani minacciati da spread alle stelle, fuga di capitali, banche chiuse, minaccia di default, ultimatum dalla BCE e terrorismo mediatico voteranno a favore dell’uscita dall’Euro. Pare chiaro che, di fronte ad un NO all’Italexit, il ritorno alla sovranità monetaria in Italia potrà solo essere subìto passivamente con un break-up dell’Eurozona che avverrà per conto suo, in quanto nessuno a livello nazionale, ma proprio nessuno, si riprenderà la responsabilità di mettere in discussione la sopravvivenza della moneta unica. E anche se, nella più lontana delle ipotesi, gli italiani decidessero di uscire, come verrà gestito il post-voto? La forza politica in questione avrà pronto un piano d’uscita unilaterale efficiente? Non si tratterebbe esattamente di una passeggiata e affrontare impreparati il ritorno alla Lira significherebbe compiere un gesto suicida: Banca d’Italia dovrebbe, tra le altre cose, tornare pubblica ed essere adeguatamente preparata, procedimento che necessita non pochi giorni di preparazione. No, il referendum sull’Euro non è una buona idea: è una pessima idea. Una consultazione di questa portata non può essere paragonata alla seppur epocale Brexit: la Bank of England intervenne per assorbire lo shock, la Sterlina venne sostenuta ma inizialmente svalutò, scaricando il terrore degli investitori senza troppi crucci. I britannici non hanno adottato la moneta unica e sono stati da sempre con un piede già fuori dall’Unione. Erano nelle condizioni, insomma, di poter affrontare un referendum sull’articolo 50 del TUE. L’Italia non essendo più in possesso di alcuna politica monetaria, fiscale ed economica non avrebbe gli strumenti necessari a combattere le turbolenze e a gestire l’uscita in maniera adeguata. In questo caso ha ragione Claudio Borghi (Lega Nord): l’eventuale uscita deve essere legittimata dalle elezioni, dopo che una forza politica ha inserito nel proprio programma l’Italexit e preso precedentemente accordi con le forze politiche degli altri Paesi dell’Eurozona. E quello che avete appena letto è solo un assaggio di tutto ciò che concerne uno scenario che contempli un referendum sull’Euro: una pazzia bella e buona, un lancio suicida, un’utopica incoscienza. Che la moneta unica sia irriformabile e vada superata è ormai cosa certa, il “come” però è fondamentale, e va organizzato millimetricamente. Il referendum, ad oggi, non è nemmeno lontanamente ragionevole: figuriamoci concepibile.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/il-referendum-sulleuro-e-una-pazzia/
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