Perry Anderson sulla crisi in Brasile (parte 1)
di PERRY ANDERSON
I Paesi BRICS [Brasile Russia India Cina Sudafrica] sono nei guai. Per un certo periodo di tempo sono stati le locomotive della crescita globale, mentre l’Occidente si trovava immerso nella peggiore crisi finanziaria e recessione economica dai tempi della Grande Depressione; ora però sono diventati il primo motivo di preoccupazione ai piani alti del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale. La Cina, innanzi tutto, a causa del suo peso nell’economia globale: produzione in decelerazione e una montagna di debiti. La Russia: sotto assedio, con il prezzo del petrolio in forte calo e le conseguenze delle sanzioni. L’India: quella che se la cava meno peggio, ma con preoccupanti indicatori statistici. Il Sudafrica: in caduta libera. Tensioni politiche si manifestano in ciascuno di essi: Xi e Putin vi rispondono ricorrendo alla forza, mentre [l’indiano] Modi sprofonda nei sondaggi e [il sudafricano] Zuma e il suo partito ne escono a pezzi. Tuttavia, in nessuno di questi Paesi crisi politica e crisi economica si sono fuse in modo esplosivo come in Brasile, le cui piazze nello scorso anno sono state riempite da un numero di manifestanti superiore a quello di tutti gli altri Paesi del mondo messi assieme.
Scelta da Lula per la sua successione, Dilma Rousseff, l’ex guerrigliera diventata capo di Stato, aveva vinto le elezioni presidenziali del 2010 con una schiacciante maggioranza. Quattro anni dopo era stata rieletta, ma questa volta con un margine molto ristretto, un 3 % in più del suo competitore Aécio Neves, governatore di Minas Gerais, e in uno scontro caratterizzato da una polarizzazione territoriale mai vista prima: con il Sud-Sudest industrializzato contro di lei e il Nordest che le regalava un vantaggio maggiore di quello del 2010, con un 72 % dei voti. Anche così, comunque, si trattò di una vittoria indiscutibile, paragonabile a quella di Mitterrand contro Giscard e più netta, nonché più pulita, di quella di Kennedy contro Nixon. Nel gennaio 2015, Dilma – e d’ora in avanti tralasceremo i cognomi, secondo l’uso brasiliano – inaugurò la sua seconda presidenza.
Nel giro di tre mesi grandi manifestazioni hanno riempito le piazze delle principali città del Paese, con almeno due milioni di persone che volevano le sue dimissioni. Nel Congresso dei deputati, il Partito della socialdemocrazia brasiliana (PSDB) di Neves e i suoi alleati, imbaldanziti dai sondaggi che indicavano una vertiginosa caduta della popolarità di Dilma, cominciarono a lavorare per ottenerne l’impeachment. Il 1° maggio Dilma non fu nemmeno in grado di trasmettere per televisione al Paese il tradizionale discorso: quando, l’8 marzo, nella giornata internazionale della donna, lo aveva fatto, la gente aveva cominciato a far baccano con le pentole e a suonare il clacson, in una forma di protesta diventata famosa come O panelaço. Nel giro di ventiquattro ore il Partito dei lavoratori (PT), che aveva goduto del maggiore e più prolungato sostegno in Brasile, era diventato il partito più impopolare del Paese. In privato, Lula avrebbe detto: «Abbiamo vinto le elezioni per poi perderle il giorno dopo». Molti militanti si domandavano se il partito sarebbe riuscito a sopravvivere.
Ma come si era arrivati a questo punto? Nell’ultimo anno del governo Lula, mentre l’economia globale stava appena riprendendosi dalla prima scossa del crack finanziario del 2008, l’economia brasiliana era cresciuta del 7,5 %. Arrivata al governo, Dilma inaugurò una politica di contenimento dei rischi di surriscaldamento dell’economia, con grande soddisfazione della stampa finanziaria: appariva una linea politica simile a quella applicata da Lula all’inizio del suo primo mandato. Molto presto però, dato che la crescita rallentava vertiginosamente e l’orizzonte della finanza mondiale andava oscurandosi di nuovo, il governo invertì la rotta, con un pacchetto di provvedimenti orientati a privilegiare gli investimenti nello sviluppo sostenibile. I tassi di interesse vennero abbassati, si ridussero le trattenute fiscali, i costi dell’energia elettrica vennero ridotti, la moneta venne svalutata e si impose un limitato controllo sui movimenti di capitale [1].
Sull’onda di questi provvedimenti, nella prima metà del suo mandato Dilma godette di un tasso d’approvazione del 75 %.
Tuttavia, lungi dall’accelerare, l’economia rallentò, passando da un modesto aumento del 2,72 % nel 2011 a un insignificante 1 % nel 2012. Nell’aprile 2013, inoltre, con una inflazione ormai superiore al 6 %, la Banca centrale innalzò bruscamente i tassi di interesse, minando così le basi della “new economic matrix” del ministro delle Finanze Guido Mantega. Due mesi dopo nel Paese si scatenò un’ondata di proteste di massa, alla cui origine stava l’aumento del prezzo dei biglietti degli autobus a São Paulo e a Rio de Janeiro, che però rapidamente crebbe di dimensioni, trasformandosi in una espressione generalizzata di malcontento per la qualità dei servizi pubblici e – sotto lo stimolo dei mass media – in ostilità verso uno Stato incompetente. Bruscamente, il gradimento del governo si dimezzò. Como risposta a tutto ciò si fece marcia indietro, dando inizio a una riduzione della spesa pubblica e consentendo ai tassi di interesse di riprendere ad aumentare. La crescita diminuì ulteriormente – nel 2014 arriverà praticamente a zero -, ma disoccupazione e salari si mantennero stabili. Alla fine del suo primo mandato, Dilma animò una audace campagna per essere rieletta promettendo ai suoi elettori di voler continuare a dare la priorità al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, accusando il suo avversario del PSDB di voler intaccare le conquiste sociali conseguite dal governo del PT, colpendo così i più poveri. E nonostante gli insistenti attacchi ideologici da parte della stampa, riuscì comunque a vincere.
La svolta di Dilma
Prima ancora però di iniziare formalmente il suo secondo mandato, Dilma invertì la rotta. Si rendeva necessario, dichiarò di punto in bianco, un po’ di austerità. L’architetto della “nuova matrice economica” venne licenziato e al ministero delle Finanze venne installato il direttore della divisione del risparmio gestito della seconda banca privata brasiliana per dimensioni – un seguace della scuola di Chicago -, con il mandato di ridurre l’inflazione e ripristinare la fiducia. Gli imperativi, ora, erano il taglio della spesa sociale, la riduzione del credito delle banche pubbliche, la vendita all’asta delle proprietà dello Stato e l’aumento delle tasse per ricondurre il bilancio in attivo. Nel giro di pochissimo tempo la Banca centrale innalzò il suo tasso di interesse al 14,25 %. Ma poiché l’economia continuava a stagnare, gli effetti di questo pacchetto di misure prociclo furono quelli di precipitare il Paese in una recessione generalizzata: crollo degli investimenti, taglio dei salari e raddoppio della disoccupazione. Con la contrazione del Prodotto interno lordo (PIL) le entrate fiscali diminuirono, aggravando il deficit e il debito pubblico. Nessun indice di gradimento del governo avrebbe potuto reggere alla rapidità del processo di deterioramento economico. La popolarità di Dilma non precipitò però solo e prevedibilmente in seguito al peggioramento del tenore di vita del popolo. Venne anche determinata, anche se fa male riconoscerlo, dal fatto di aver disatteso le promesse alla base della sua elezione. La reazione dei suoi elettori, in linea generale fu quella di ritenere che la sua vittoria poteva essere definita come un “estelionato”: aveva ingannato coloro che l’avevano appoggiata, adottando il programma elettorale dei suoi avversari [2]. Ne derivarono non solo delusione, ma anche rabbia.
Anche se poco visibili, le cause di questa sconfitta risiedono proprio nel modello di crescita del PT. All’inizio, il suo successo era dipeso da due condizioni: un superciclo nel prezzo delle materie prime e un boom dei consumi domestici. Tra il 2005 e il 2011 il positivo del bilancio commerciale brasiliano aumentò di oltre un terzo, poiché la domanda di materie prime da parte della Cina e di altri Paesi incrementò il valore delle sue esportazioni principali e il volume degli introiti fiscali per spese sociali. Alla fine del secondo mandato di Lula, nelle esportazioni brasiliane la percentuale corrispondente a beni primari era passata dal 28 % al 41 %, mentre quella relativa ai beni manifatturati era scesa dal 55 % al 44 %; alla fine del primo mandato di Dilma le materie prime rappresentavano oltre la metà del valore delle esportazioni. Dal 2011 in poi, però, i prezzi delle principali merci commercializzate dal Paese collassarono: i minerali di ferro scesero da 180 a 55 dollari la tonnellata, la soia da circa 40 a 18 dollari lo staio, il petrolio greggio da 140 a 50 dollari il barile. In reazione alla fine della bonaccia commerciale, anche il consumo domestico entrò in declino. Durante il suo governo, la principale strategia del PT consisté nell’espandere la domanda interna incrementando il potere d’acquisto delle classi popolari. Ciò fu reso possibile non solo mediante l’innalzamento del salario minimo e aiuti diretti ai poveri – la “Bolsa Família” [Borsa famiglia]-, ma anche con una massiccia iniezione di credito al consumo. Nel decennio 2005-2015 il totale dei debiti nel settore privato crebbe dal 43 % del PIL al 93 %: i prestiti ai consumatori arrivarono al doppio del livello di quelli dei Paesi circostanti. Quando Dilma venne rieletta, verso la fine del 2014, il pagamento degli interessi del debito domestico assorbiva oltre un quinto del reddito medio dei brasiliani. Con la fine del boom delle materie prime, anche la febbre consumistica volgeva alla fine. I due principali motori della crescita s’erano bloccati.
Nel 2011 l’obiettivo della nuova matrice economica di Mantega era stato quello di stimolare l’economia con una intensificazione degli investimenti. Ma le risorse per poterlo fare erano diminuite. Dal 2006 le banche dello Stato cominciarono gradualmente ad aumentare la quantità dei prestiti, passando da un terzo alla metà del credito globale: il portafoglio della governativa Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale (BNDES) dopo il 2007 si moltiplicò per sette. Proponendo alle grandi compagnie trattamenti di favore per un ammontare molto superiore a quello destinato al sostegno delle famiglie povere, la “Bolsa Empresarial” finì col costare al tesoro nazionale il doppio della “Bolsa Família”. Questo ampliamento del finanziamento pubblico a favore dell’agrocommercio e della costruzione rappresentò la goccia che fece traboccare il vaso per la classe media urbana, che finì con l’opporsi sempre più violentemente al PT, con i media locali – ripresi e amplificati dalla stampa finanziaria di New York e di Londra – che tuonavano contro i pericoli dello statalismo. Pertanto, invertendo la rotta, Mantega sperava di riuscire a stimolare gli investimenti privati con concessioni tributarie e la riduzione dei tassi di interesse – a scapito di una contrazione degli investimenti pubblici nelle infrastrutture – e di favorire l’esportazione dell’industria manifatturiera svalutando il real. Tutti questi favori all’industria brasiliana risultarono inefficaci. Dal punto di vista strutturale, nel Paese è la finanza la forza principale. La capitalizzazione combinata delle due maggiori banche private brasiliane, Itaú e Bradesco, è oggi due volte superiore a quella della Petrobas e della Vale, le due principali e solide industrie estrattive. La fortuna di queste e di altre banche è dovuta a un regime di interessi a lunga scadenza che non ha eguali al mondo – un incubo per gli investitori, una manna per i redditieri – e a un abissale squilibrio fra depositi e prestiti, con rimborsi che variano da cinque a venti volte l’ammontare del prestito. Si aggiunga a tutto ciò la presenza di un blocco di fondi mutualistici e pensionistici che è il sesto per importanza nel mondo, per non parlare della maggior banca d’investimento dell’America latina e di una miriade di private equity e di fondi speculativi [hedge fund].
L’“ingratitudine” dei capitalisti
Verso la fine del 2012, nella speranza di conquistare il favore del settore industriale, il governo andò allo scontro con le banche, costringendole ad abbassare i tassi di interesse al 2 %, un livello mai raggiunto in precedenza. La Federazione delle industrie dello Stato di São Paulo (FIESP) espresse sul momento la propria soddisfazione, ma dopo non molto, nel giugno 2013, non esitò ad appoggiare le manifestazioni antistataliste. Gli industriali erano stati ben felici dei loro alti profitti durante il periodo di crescita del governo Lula, quando praticamente tutti i gruppi sociali avevano migliorato le proprie condizioni. Quando però, con Dilma, questa fase ebbe termine e ripresero gli scioperi, non mostrarono alcun riconoscimento per chi prima li aveva favoriti. Non si trattava solo delle grandi compagnie industriali che – similmente alle loro consorelle del Nord del mondo – erano sempre più intrecciate a holding finanziarie danneggiate dalle politiche di restrizione dei profitti da rendita, e pertanto non facilmente separabili da banche e fondi di investimento: ma in quanto gruppo sociale molti industriali facevano parte di una classe medio-alta molto più numerosa e politicizzata del settore industriale in senso stretto, con una maggiore capacità di coesione ideologica e di comunicazione nell’ambito della società. La rabbiosa ostilità nei confronti del PT di questo strato sociale venne inevitabilmente fatta propria anche dagli industriali. Tanto i banchieri dei piani alti quanto i professionisti dei piani bassi si trovarono uniti nel tentativo di abbattere un regime che ora minacciava i loro comuni interessi: gli industriali avevano perso ogni significativa autonomia.
Contro questo fronte, su chi e che cosa poteva contare il PT? I sindacati, per quanto fattisi più attivi con il governo di Dilma, erano ormai l’ombra di se stessi. I poveri continuavano a essere passivi beneficiari del governo PT, che mai aveva voluto formarli od organizzarli, e tanto meno mobilitarli come forza collettiva. I movimenti sociali – i Sem Terra e gli homeless – erano stati mantenuti a distanza. Gli intellettuali erano stati emarginati. Ma non v’era stata solo una totale assenza di valorizzazione politica delle energie di base: il modo stesso del regime di accordare benefici materiali non generava che un minimo di sentimento di solidarietà.
Non vi fu nemmeno un’autentica politica di redistribuzione della ricchezza o dei redditi: l’infame e regressiva struttura tributaria lasciata in eredità da[l precedente presidente Fernando Henrique] Cardoso a Lula, che penalizzava i poveri e favoriva i ricchi, non venne toccata. Vi furono, è vero, alcune redistribuzioni che migliorarono sensibilmente le condizioni di vita dei più poveri, ma si trattò di provvedimenti isolati. Con una “Bolsa Família” sotto forma di sovvenzioni alle madri con figli in età scolare non poteva essere altrimenti. L’aumento del salario minimo comportò anche un aumento del numero di lavoratori con la carteria assinada [3], che estendeva a loro i diritti formali al lavoro; ma non aumentò, e anzi forse diminuì, il tasso di sindacalizzazione. Ma soprattutto, con l’introduzione del crédito consignado – prestiti bancari con interessi alti dedotti direttamente dalla busta paga – il consumo privato crebbe senza più limiti, a spese dei servizi pubblici, il cui miglioramento per stimolare l’economia sarebbe risultato più costoso. Venne così incentivato l’acquisto di strumenti elettronici, di beni di consumo e di autovetture (quest’ultime con facilitazioni fiscali), mentre si trascurarono l’approvvigionamento idraulico, la pavimentazione stradale, l’efficienza degli autobus, lo smaltimento delle acque di scarico, la funzionalità di scuole e ospedali. I beni collettivi non erano considerati, né in teoria né in pratica, come prioritari. E così, parallelamente a molti necessari e concreti miglioramenti delle condizioni di vita quotidiana, nelle classi popolari si diffondeva il consumismo nella sua forma peggiore, veicolato verso il basso della scala sociale da una classe media ipnotizzata da certi standard di vita internazionali e ispirata da riviste e centri commerciali.
Quanto pregiudiziale sia stato tutto ciò per il PT lo si può comprendere esaminando il problema della casa, in cui più chiaramente si ha l’intreccio fra bisogni individuali e collettivi. Assieme alla bolla consumistica arrivò una ben più drammatica bolla immobiliaria: mentre le agenzie del settore e le imprese di costruzione accumulavano grandi fortune, i prezzi degli immobili salivano alle stelle, diventando proibitivi per la maggior parte delle persone che vivevano nelle grandi città: circa un decimo della popolazione non disponeva di un’abitazione adeguata. Fra il 2005 e il 2014 il credito per la speculazione immobiliaria e la costruzione crebbe di venti volte: a São Paulo e a Rio de Janeiro il prezzo al metro quadro quadruplicò. Solo nel 2010, gli affitti a São Paulo aumentarono del 146 %. E in questo stesso periodo gli appartamenti vuoti erano circa sei milioni, mentre le famiglie senza una casa decente erano sette milioni. Invece di aumentare l’offerta di case popolari, il governo finanziò gli imprenditori privati affinché edificassero complessi abitativi in aree periferiche, con affitti superiori a quelli che i più poveri potevano sopportare; e contemporaneamente spalleggiava le autorità locali nello sgombero delle case occupate. Di fronte a questa situazione, andarono formandosi movimenti fra gli homeless, che ora costituiscono una delle principali forze sociali brasiliane: movimenti che non fiancheggiano il PT, ma lo combattono.
Sprovvista di un qualsiasi contropotere popolare in grado di contrastare la crescente pressione esercitata dalle élites del Paese, Dilma, dopo la sua striminzita rielezione, con una retromarcia sul piano economico e l’adozione di una politica simile a quella di Lula nei primi anni del suo governo – quella di stringere la cinghia -, senza dubbio sperava di poter conseguire risultati simili. Ma le condizioni esterne non erano più le stesse. La pacchia delle materie prime è finita e una ripresa economica appare più che problematica. Si potrebbe osservare, guardando al contesto, che il prolungamento nel tempo delle attuali difficoltà non deve essere esagerato. Il Paese è certamente immerso in una severa recessione, con un PIL diminuito del 3,7 % l’anno scorso e con un probabile risultato simile quest’anno. D’altro canto, la disoccupazione è lungi dal toccare i livelli che ha in Francia, per non parlare di quelli della Spagna. L’inflazione è ancora più bassa di quella degli anni di presidenza di Cardoso e il Paese dispone di maggiori riserve. Il deficit pubblico è la metà di quello italiano, benché, dati i tassi di interesse brasiliani, il costo del suo ammortamento risulti molto maggiore. Il deficit fiscale è ancora al di sotto della media degli Stati Uniti. Tutti questi dati tendono però a peggiorare. E tuttavia, la gravità della situazione economica è sovrastata dal clamore ideologico: l’opposizione partitica e l’idea fissa neoliberale hanno tutto l’interesse ad aggravare la situazione critica del Paese. Tutto ciò, però, non riduce le responsabilità del PT per la crisi in cui si trova, che non è solo una crisi economica, ma anche politica.
Vizi e (nessuna) virtù del sistema politico brasiliano
Le radici di questa situazione affondano nella Costituzione brasiliana. Praticamente ovunque in America latina sistemi presidenziali ispirati al modello statunitense coesistono con sistemi parlamentari di tipo europeo: e cioè, da un lato poteri esecutivi molto forti, dall’altro poteri legislativi eletti con un sistema proporzionale e non con il sistema distorcente del past-the-post [collegi uninominali a maggioranza semplice] del mondo anglosassone. Il tipico – anche se non unico – risultato di questo modello consiste in una presidenza dotata di enormi poteri amministrativi la cui debolezza risiede nel fatto che nessun partito riesce a conseguire la maggioranza in un Parlamento dotato di significativi poteri legislativi. Tuttavia, in nessun altro luogo si riscontra, come in Brasile, una così marcata divaricazione fra esecutivo e legislativo. Ciò dipende, soprattutto, dal fatto che questo Paese possiede il più fragile sistema partitico del continente. La rappresentanza proporzionale in Brasile si esprime attraverso un sistema di liste aperte, fra le quali si può scegliere un candidato fra i tanti che nominalmente fanno parte della stessa lista, in circoscrizione che spesso hanno un milione o più di elettori. [4] Le conseguenze di ciò sono duplici. Nella maggior parte dei casi gli elettori votano per un politico che conoscono – o credono di conoscere – invece di scegliere un partito del quale sanno poco o niente; mentre, d’altra parte, i politici hanno bisogno di grandi quantità di denaro per finanziare la propria campagna elettorale. La stragrande maggioranza dei partiti, il cui numero aumenta a ogni elezione (nell’attuale Congresso ne sono rappresentati 28) non è provvista della benché minima coerenza politica, per non parlare di disciplina interna. Il loro obiettivo è semplicemente quello di garantirsi, in cambio di un voto a favore del governo, i favori dell’esecutivo, per potersi riempire le tasche e concedere qualcosa alla propria circoscrizione per assicurarsi la rielezione.
Quando alla metà degli anni Ottanta il Brasile uscì da una dittatura ventennale, la classe politica che ne disegnò il sistema politico ne portava ancora tutte le stigmate. Di fatto, la funzione di quel sistema era, ed è tuttora, quella di scongiurare la possibilità che la democrazia portasse alla formazione di un qualche tipo di volontà popolare che potesse mettere in discussione le enormi diseguaglianze brasiliane, grazie alla cloroformizzazione del voto di preferenza avvolto nel miasma di dispute subpolitiche per vantaggi venali. I difetti di questo sistema sono ulteriormente aggravati dalle enormi sproporzioni geografiche. Tutti i sistemi federali richiedono un qualche tipo di equiparazione nel peso di ciascuna regione, di solito assegnando una sovrarappresentazione nella Camera Alta alle zone più piccole e rurali, a scapito delle aree maggiori e urbanizzate: come nel caso del Senato negli Stati Uniti. Pochi sono i Paesi, però, che arrivano al grado di distorsione dell’ingegneria elettorale brasiliana, dove il rapporto di sovrarrappresentazione fra Stati piccoli e grandi è, nel Senato, di 88 a 1 (negli Stati Uniti è di circa 65 a 1). [5] Il problema non sta solo nel fatto che le tre macroregioni più povere e arretrate (regno dei cacicchi più tradizionali, che imperano su clientele sottomesse) con i due quinti della popolazione controllino i tre quarti dei seggi del Senato: ma nel fatto che, caso unico, controllino anche la Camera Bassa. E tuttavia, lungi dal correggere questa distorsione conservatrice del sistema, la democratizzazione l’ha aggravato, istituendo nuovi Stati sottopopolati, squilibrando così ancor più la situazione.
In questo scenario, e al contrario di altri Paesi latinoamericani usciti dal dominio militare in quegli anni Ottanta, non è sopravvissuto alcun significativo partito del periodo precedente la dittatura. Il palcoscenico spettò dapprima a due forze frutto dell’inventiva dei generali: il Movimento democratico brasiliano (MDB), nominalmente d’opposizione, e la governativa Alleanza rinnovatrice nazionale (Arena): motteggiati, al tempo, come il partito del “sim” e del “sim, senhor” [sì, e sissignore]. Il primo di questi adottò successivamente la denominazione di Partito del Movimento democratico brasiliano (PMDB), mentre buona parte del secondo si trasformò nel Partito del Fronte liberale (PFL). Con l’uscita di scena dei militari, il primo governo stabile si ebbe con la presidenza di Cardoso, nel 1994, frutto di un patto fra una scissione del PMDB da lui favorita, nominalmente socialdemocratica ma in effetti social-liberale (il Partito della socialdemocrazia brasiliana, PSDB), il cui elettorato era concentrato negli industrializzati Sud e Sudest, e il nominalmente liberale ma in realtà conservatore, PFL, la cui base si trovava negli arretrati Nord e Nordest. Si trattò di un patto fra l’opposizione moderata e i tradizionali vessilliferi della dittatura, che assicurò all’esecutivo una larga maggioranza congressuale, al servizio di quel che sarebbe diventato un programma neoliberale, in linea a quel tempo con i desideri di Washington. Come candidato alla presidenza, Cardoso – ritenuto dal grande capitale una garanzia contro la radicalizzazione – ricevette un’enorme quantità di denaro: i ricchi riconoscono al volo chi gli è amico. Il costo della sua campagna elettorale, svoltasi in un Paese ben più povero degli Stati Uniti, fu addirittura superiore a quello sostenuto da Clinton. Lula, che correva contro di lui, fu travolto da quella montagna di denaro. Una volta insediatosi nella carica, però, in linea generale Cardoso non ebbe bisogno di denaro – con un’unica significativa eccezione – per comprarsi i voti del Congresso: la sua alleanza con i clan oligarchici del Nordest, anche se soggetta a periodici scontri per le prebende, non si basava su banali convenienze, ma sulla convergenza di alleati naturali su obiettivi comuni. L’accordo si rivelò stabile, e in anni recenti è stato esaltato da ammiratori brasiliani e anglofoni di Cardoso come un modello di “presidenzialismo di coalizione”, e giudicato come un brillante esempio per buona parte di questo nostro mondo in cui le forme di governo europee o americane stentano ad affermarsi.
Inoltre, nonostante la campagna elettorale di Cardoso fosse «pulita» – secondo i criteri di finanziamento politico degli Stati Uniti, dove i Super PAC comprano i voti [6] – e la sua coalizione fosse ideologicamente salda, una volta eletto né i suoi obiettivi né quelli dei suoi alleati potevano essere conseguiti senza il ricorso ad altri metodi. Il suo vicepresidente Marco Maciel e il suo più potente alleato nel Congresso Antônio Carlos Magalhães erano i principali artefici della politica repressiva nel Nordest – entrambi vi erano stati collocati dalla dittatura come governatori, il primo nel Pernambuco, il secondo a Bahía, dopo aver appoggiato la distruzione della democrazia nel 1964 -, e non avevano alcuna intenzione di cambiar metodo. «Io vinco le elezioni con un pacco di soldi in una mano e la frusta nell’altra», si vantava ACM, come Magalhães amava essere chiamato. Suo figlio, Luis Eduardo, era il congressista favorito da Cardoso, il delfino designato a succedergli: e sarebbe andata proprio così se non fosse morto precocemente. Quanto a Cardoso, che aveva sempre sostenuto che la riforma del sistema partitico brasiliano rappresentava una priorità, promettendo di realizzarla, non appena si fu installato nel Planalto, il palazzo presidenziale, scoprì che la priorità era invece una revisione della Costituzione che gli avrebbe permesso di presentarsi per un secondo mandato. Rinunciando a ogni velleità di razionalizzazione o democratizzazione dell’ordinamento politico, si pose alla testa – e questa volta non poté farne a meno – di una “campagna acquisti” di deputati, per assicurarsi nel Congresso quella super maggioranza necessaria a varare la modifica della Costituzione.
Lula nella palude
Quando Lula venne finalmente eletto, nel 2002, il PT si trovava in una situazione diversa. Non appena ebbe garantito che non le avrebbe attaccate e la sua vittoria cominciò ad apparire certa, banche e compagnie finanziarono la sua campagna elettorale, anche se in misura minore di quanto avevano fatto con il suo predecessore. Nel Congresso, però, Lula non poteva contare su alleati naturali di una qualche importanza. Il PT, nonostante la moderazione dimostrata nella campagna presidenziale, era considerato – e continua a esserlo – come un partito radicale, saldamente collocato a sinistra della palude formata dalla stragrande maggioranza dei deputati. Il PT aveva ottenuto meno di un quinto dei seggi, con una quantità di voti inferiore a un terzo di quelli andati a Lula. Come garantire a quest’ultimo una maggioranza sufficiente a sostenerlo a galla in questo autentica palude? Il metodo tradizionale, quello praticato su grande scala dal primo presidente post-dittatura, José Sarney – altro vecchio lacchè dei generali – era quello di offrire ministeri e sinecure a tutti coloro che li appetivano e potevano garantire in cambio la maggiore quantità di voti: a partire, innanzi tutto, dalle frazioni contrapposte del suo stesso partito piglia-tutto, il PMDB, la maggiore e meno definita organizzazione politica del Paese, che, un decennio dopo, si sarebbe trasformata nel pozzo nero in cui sarebbero confluiti tutti gli scarichi della corruzione politica. La soluzione classica per il PT sarebbe stata quella di arrivare a un accordo con questa creatura, assegnandole buona parte dei ministeri e delle agenzie statali. E tuttavia il partito la rifiutò – non c’è accordo su chi era favorevole e chi contrario nella sua direzione -, poiché si temeva che ne sarebbe derivata un tale annacquamento ideologico del governo che avrebbe neutralizzato qualunque tipo di spinta progressista. E così, si decise di confezionare una sorta di patchwork con una fitta schiera di piccoli partiti, senza conceder loro molto spazio nel governo, ma compensandoli sull’unghia, cash,a mo’ di consolazione. Il PT, insomma, cercò di ovviare alla mancanza di alleati naturali – sui quali invece Cardoso aveva potuto contare – e al rifiuto di adottare lo spoil-system [7] messo in opera da Sarney, con una serie di incentivi materiali di minor conio per assicurarsi cooperazione nel Congresso: bustarelle mensili invece di importanti incarichi.
Quando, nel 2005, scoppiò lo scandalo del Mensalão (le bustarelle mensili), Lula cominciò a perdere il sostegno elettorale della classe media e corse il rischio di dover interrompere il suo primo mandato come presidente. Scampato il pericolo e rieletto trionfalmente Lula l’anno successivo, il PT non trovò altra via d’uscita che far marcia indietro e ripiegare sulla soluzione prima rifiutata: il PMDB entrò in blocco nel governo, con una lunga lista di ministri e di posti chiave nel Congresso, rimanendovi per tutto il primo mandato di Dilma e nel primo anno del secondo. Lungi dall’attenuarsi, tuttavia, la corruzione sistematica crebbe ulteriormente. Non solo perché il PMDB era da tempo sinonimo di saccheggio delle pubbliche risorse nelle sue roccheforti a livello municipale e di Stato federale (da decenni aveva rinunciato alle competizioni per la presidenza), ma anche e soprattutto perché, oltre tutte le previsioni, stava materializzandosi una torta gigantesca da spartire: la crescita di Petrobras, la compagnia petrolifera pubblica, le cui attività contribuivano per il 10 % al PIL e che in seguito alla capitalizzazione era diventata la quarta impresa più importante al mondo. La costruzione di nuove raffinerie, petroliere, impianti di perforazione, piattaforme offshore e complessi petrolchimici garantiva nuove ampie occasioni di riscuotere tangenti, e ben presto si arrivò a mettere in piedi un sistema ad hoc. Le gare d’appalto furono dominate da un vero e proprio cartello formato dalle più importanti imprese di costruzione del Paese, con contratti sovrafatturati che permettevano ai dirigenti della Petrobras e ai partiti cui questi dovevano la loro carica di intascare ingenti somme di denaro: tangenti dell’ordine dei tre miliardi di dollari. La malversazione non era certo una novità nella storia della Petrobras – Cardoso a suo tempo aveva preferito guardare da un’altra parte – e fino all’estate del 2013 la compagnia godette dell’impunità tradizionalmente associata alla ricchezza e al potere.
Ciò che modificò questo andazzo furono tre sottoprodotti del Mensalão: in Brasile venne introdotto il patteggiamento – il suo termine portoghese, delação premiada [delazione premiata] è troppo eufemistico -; la prisão cautelar [carcerazione preventiva], un antico potere giudiziario cui si ricorreva per riempire le carceri di declassati, divenne ora uno strumento per colpire anche coloro che stavano “in alto”; le sentenze di primo grado cessarono di poter essere sospese in attesa di un’ulteriore conferma, permettendo così di procedere più facilmente all’incarcerazione. I primi due strumenti erano quelli che avevano consentito alla magistratura italiana, al tempo degli scandali di Tangentopoli negli anni Novanta, di porre sotto assedio la classe politica ed economica; del terzo invece essi non avevano potuto disporre. In Brasile si individuò un’ulteriore misura per far confessare chi si trovava in carcere preventivo: la minaccia di trattare allo stesso modo mogli e figli. Nel 2013, poi, controlli effettuati sulla cassa automatica di un autolavaggio (un Lava Jato) di Brasilia, condussero all’arresto di un borsanerista con una lunga fedina penale. Custodito a Curitiba, nel profondo Sud, per proteggerne la famiglia, questo doleiro [cambiavalute clandestino] cominciò a rivelare la portata del sistema corruttivo Petrobras, all’interno del quale era stato uno dei principali intermediari per il trasferimento di denaro, dentro e fuori dal Paese, fra costruttori, dirigenti e politici. In un primo momento le imputazioni coinvolsero nove delle principali compagnie del Paese – i loro ultranoti boss vennero arrestati e anche tre direttori di Petrobras finirono in cella -, poi l’inchiesta investì oltre una cinquantina di politici tra membri del Congresso e governatori di Stati federali.
Dei sette partiti coinvolti, i tre più importanti erano il PMDB, il Partito progressista (un sottoprodotto della dittatura) e il PT. Chi dei tre abbia incassato di più non è ancora stato stabilito. Poiché però ben pochi s’erano illusi sul conto dei primi due, fu il coinvolgimento del terzo che ebbe rilevanza politica. A confronto con l’enormità del Petrolão, il Mensalão assomigliava ora al furto di un salvadanaio: mentre nel caso di quest’ultimo era evidente che gli appartenenti al PT non ne avevano ricavato alcun beneficio personale, nel seconda caso era stata superata la linea di demarcazione fra fondi per il partito e arricchimento privato. Fra l’altro, si scoprì che lo stesso dirigente dello staff di Lula, José Dirceu, l’architetto del PT come partito e che era stato sollevato dall’incarico per le sue responsabilità nel Mensalão, aveva in seguito insistito perché una parte del Petrolão venisse versato sul suo conto bancario. Se è vero che la maggior parte di queste tangenti venivano impiegate per sostenere le campagne elettorali e l’apparato del partito, è anche vero che il continuo contatto con ingenti somme di denaro “sporco” non poteva non corrompere coloro che avevano a che farci. L’avvertimento che il sociologo Chico de Oliveira aveva lanciato ben prima della scoperta del Petrolão, secondo il quale il PT stava trasformandosi in una aberrante specie tassonomica di animale politico non può più essere considerato una semplice metafora.
I componenti della squadra di Curitiba che investigava sul Petrolão divennero, com’era avvenuto al pool milanese che li aveva ispirati, autentiche celebrità mediatiche. Giovani, aspetto curato, mascelle squadrate, accompagnati dal prestigio degli studi legali a Harvard, il giudice Sérgio Moro e il pubblico accusatore Deltan Dallagnol sembravano uscire direttamente da una serie televisiva americana di legal thriller. Non vi possono essere dubbi sullo zelo con cui si batterono contro la corruzione e sull’entità del colpo che ricevettero le élites politiche e imprenditoriali del Paese. Però, come in Italia, non sempre obiettivi e metodi furono coerenti fra loro. Il patteggiamento e il carcere preventivo in assenza di accusa mettevano assieme induzione e intimidazione: strumenti “pesanti” per la ricerca della verità e della giustizia, che però in Brasile erano legali. Ma la fuga di informazioni in teoria riservate – e a volte anche di semplici sospetti – a favore della stampa non lo era: qui si entrava nettamente nell’illegalità. In Italia era stata regolarmente usata dal pool di Milano: e ancor più sistematicamente lo fu da quello di Curitiba. Fin dall’inizio fu chiaro che si trattava di una fuga selettiva: l’obiettivo era sistematicamente il PT, e in modo persistente – anche se non esclusivo: i bocconcini più prelibati avevano un’altra destinazione – comparivano sui più violenti media d’assalto anti-PT, come il settimanale Veja, che dopo settimane di campagna poche ore prima delle elezioni del 2014 uscì con un numero che recava in copertina le foto di Lula e di Dilma, immerse in una sinistra penombra – lividi rossi e neri tenebrosi – e accompagnate dal titolo: “Loro sapevano!”, indicando così agli elettori quali erano le vere menti criminali del Petrolão.
La filtrazione di notizie ai media da parte dei magistrati significa forse che avevano obiettivi comuni, e cioè che tutto ciò era il risultato – come sostenne il PT – di un’operazione concordata? Si può certo sostenere che i giudici brasiliani, così come i loro colleghi procuratori e della Polizia federale hanno molto in comune con la classe media, alla quale i loro strati più agiati appartengono, con i tipici pregiudizi di classe e inclinazioni che ne derivano. Nessun partito operaio, per quanto ammorbidito sia, ottiene particolari simpatie in questo ambiente. Ma non può essere che le fughe di notizie contro il PT dipendessero meno da un’ostilità di parte, quanto piuttosto dal calcolo che non c’era modo migliore di sottolineare i disastri della corruzione che prendere di mira quella che da oltre un decennio è la principale forza politica del Paese, e che appunto è anche quella sulla quale i media, per ragioni loro proprie, sono più disposti a pubblicare rivelazioni? Le storie riguardo il PMDB sarebbero risultate scontate e il PSDB avrebbe potuto essere risparmiato poiché, stando all’opposizione a livello nazionale, ha un più difficile accesso alle casse federali, qualunque cosa combini a livello degli Stati federati.
Lo scandalo del Lava Jato scoppiò nella primavera 2014 e le incriminazioni e incarcerazioni che ne seguirono occuparono le prime pagine dei quotidiani durante tutta la campagna presidenziale d’autunno. Il dietrofront in campo economico di Dilma non appena eletta può essere in parte interpretato come dettato dalla speranza di placare l’opinione pubblica neoliberale quel tanto che era necessario affinché i media moderassero i toni nei confronti del PT, trattato alla stregua di una banda di ladri. Se però questa era la speranza, andò del tutto delusa. Surclassando lo stesso PSDB nella virulenza degli attacchi, una nuova destra cominciò a egemonizzare le manifestazioni di massa contro Dilma del marzo 2015. In Brasile, lo slogan tradizionale della destra è sempre stato quello di “Dio, Famiglia e Libertà”, autentica bandiera del conservatorismo che aveva invocato l’instaurazione della dittatura militare nel 1964. Mezzo secolo dopo, gli slogan dei manifestanti erano altri. Alimentandosi di una nuova e giovane generazione di militanti della classe media, la nuova destra –spesso orgogliosa di questa definizione – cominciò a parlare meno di religione e ancor meno di famiglia, reinterpretando a suo modo il concetto di libertà. Per essa, il libero mercato è la base necessaria per tutte le altre forme di libertà e lo Stato il nemico, una sorta di idra dalle molte teste. Non è nata nelle istituzioni di un regime decadente, ma nelle strade e nelle piazze, dove i cittadini potevano riunirsi contro un governo di parassiti e di ladri. Cavalcando l’onda delle manifestazioni di massa contro Dilma, i due principali gruppi di questa destra radicale – Vem Pra Rua [Scendi in strada] e Movimento Brasil Livre [MBL, Movimento Brasile libero] – affinarono le proprie tattiche, adottandone anche alcune del Movimento Passe Livre (MPL) [8], di estrema sinistra, che aveva dato inizio alle proteste del 2013: il MBL arrivando addirittura a dotarsi di un acronimo che richiama quello del MPL. Queste organizzazioni di destra erano entrambe piccole, ma s’erano formate mediante un intenso lavoro di mobilitazione di massa attraverso Internet. Il Brasile ha il maggior numero al mondo di utenti di Facebook dopo gli Stati Uniti, e tanto Vem Pra Rua quanto il MBL e altri network di destra – Revoltados On-Line (ROL) è un altro attore con una certa importanza – stanno riuscendo (senza alcun dubbio in modo prevedibile, dato il profilo di classe dei seguaci di Zuckerberg) a mobilitare la popolazione con molto più successo di quanto faccia la sinistra. A tutt’oggi, la nuova destra ha goduto di un effetto moltiplicatore molto maggiore.
Oltre a tutto ciò, c’è da tener conto anche dell’ambigua nebulosa di una nuova religione. Oltre un quinto della popolazione brasiliana appartiene a una delle varianti dell’evangelismo protestante. Sull’esempio della Chiesa dell’Unificazione del Reverendo Moon molte di queste – e sicuramente le più grandi – sono in realtà dei rackets che mungono denaro ai propri fedeli con cui costruiscono imperi finanziari di proprietà dei fondatori. La fortuna di Edir Macedo supera il miliardo di dollari: è il capo della Chiesa Universale del Regno di Dio, nel cui enorme e kitsch Tempio di Salomone nel quartiere di Bras a São Paulo – proprio di fronte all’appena più piccolo edificio della rivale Asambleia de Deus, formando così assieme una sorta di Wall Street religiosa – vengono proiettati su schermi giganti melodrammatici esorcismi per fedeli che, immersi nel buio più totale, alternano canti a profondi silenzi. Macedo controlla anche la seconda per importanza rete televisiva del Paese. Attualmente egemonica, l’organizzazione di Macedo predica una “teologia della prosperità”, promettendo il successo materiale in questo mondo piuttosto che la salvezza nell’altro. A differenza degli evangelici statunitensi, le Chiese brasiliane non hanno profili ideologici molto precisi, a parte alcune questioni specifiche come l’aborto o il matrimonio gay. Macedo appoggiò Cardoso in quanto argine rispetto al comunismo, poi si è allineato a Lula, e da allora ha formato una propria organizzazione politica. Molte di queste Chiese preferiscono però lavorare nel sottobosco dei partiti politici: sono strumenti per fare assunzioni, dare voti in cambio di favori, con la particolarità che appoggiano candidati di qualunque tendenza: la “frazione” evangelica nel Congresso raggruppa il 18 % dei deputati, appartenenti a 22 partiti. Le loro principali preoccupazioni sono quelle di procacciarsi licenze per le loro stazioni radiofoniche e televisive, ottenere l’esenzione fiscale per i propri affari e avere la possibilità di costruire monumenti faraonici a se stessi.
[Continua. La seconda parte sarà presumibilmente pubblicata tra una settimana).
- Perry Anderson (nato nel 1938) è un noto storico britannico d’orientamento marxista, che attualmente insegna Storia e Sociologia alla UCLA (University of California, Los Angeles). Ha diretto a lungo la «New Left Review», del quale Comitato editoriale fa tuttora parte. In italiano, oltre a numerosi saggi comparsi su riviste, sono stati tradotti svariati suoi libri, fra i quali ricordiamo Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Bari 1977; Ambiguità di Gramsci, Laterza, Bari 1978; Dall’antichità al feudalesimo. Alle origini dell’Europa, Mondadori, Milano 1978, poi Il Saggiatore, Milano 2016; Lo Stato assoluto. Origini e sviluppo delle monarchie assolute europee, Mondadori 1980, poi Il Saggiatore 2014; Spectrum. Da destra a sinistra nel mondo delle idee, Baldini Castoldi Dalai 2008; L’Italia dopo l’Italia. Verso la Terza Repubblica, Castelvecchi, Roma 2014. Ha inoltre progettato e diretto la Storia d’Europa pubblicata in sei tomi da Einaudi fra il 1993 e il 1996.
Note
[1] Su questo insieme di misure e i loro effetti l’analisi più importante è quella di André Singer nell’articolo Cutucando onças con varas cortas («Nuevos Estudios», 102, luglio 2015), un saggio che può essere letto come un epilogo del suo studio sulla traiettoria del PT, Os sentidos do Lulismo: Reforma gradual e pacto conservador (2012): un’indagine sul mutamento del suo elettorato a partire dal 2005, quando cominciò a perdere il sostegno delle classi medie e ad assicurarsi la fiducia dei poveri, che precedentemente, per timore di disordini, gli votavano contro. Combinando una critica sobria e una lealtà verso il PT, Singer è probabilmente il suo migliore intellettuale, e forse si può anche sostenere che è il più notevole teorico sociale della sua generazione latinoamericana. Addetto stampa di Lula nel suo primo mandato, quando divenne professore universitario venne accantonato dal PT, che non dimostrò mai alcun interesse per il suo lavoro. [NdA]
[2] Più propriamente il reato di estelionato, previsto dal Codice penale brasiliano, è quello che si commette quando si ottiene un «vantaggio illecito, a danno di altri, inducendo […] in errore mediante […] qualunque artificio fraudolento». [Ndt]
[3] Alla lettera: libretto firmato. Un tipo particolare di libretto di lavoro, distinto da quello normale (carteira de trabalho). [Ndt]
[4] Qui l’autore descrive il funzionamento di un sistema elettorale proporzionale con liste aperte, e cioè con possibilità di esprimere una preferenza, ben noto ai lettori italiani ma pressoché “incomprensibile” per il pubblico prevalentemente anglosassone cui si rivolge. [Ndt]
[5] In Brasile i Senatori rappresentano i 26 Stati federali e la capitale federale, nella ragione di tre senatori per Stato, a prescindere dal peso demografico. Anderson dice dunque che il senatore del più piccolo Stato brasiliano (Roraima, circa 500.000 abitanti) “costa”, in numero di voti, ottantotto volte meno del senatore dello Stato più popolato (São Paulo, circa 44 milioni di abitanti). [Ndt]
[6] Comitati d’azione politica: Political Action Committees. Negli Stati Uniti, organizzazioni che s’incaricano di raccogliere fondi (e voti) per i candidati. Non è superfluo ricordare che dietro questi comitati si trovano i principali gruppi d’interesse economico. [Ndt]
[7] Il noto sistema di distribuzione delle cariche fra il vincitore e gli eventuali suoi alleati. [Ndt]
[8] Alla lettera: Movimento biglietto gratis. Il Passe livre è il biglietto che consente di viaggiare gratuitamente sui trasporti pubblici cittadini. [Ndt]
Titolo originale: Crisis in Brazil, datato 8 aprile 2016 e pubblicato sulla «London Review of Book» il 21 aprile [http://www.lrb.co.uk/v38/n08/perry-…]. La traduzione è stata fatta da Cristiano Dan a partire dalla versione castigliana comparsa sul sito di Viento Sur e controllata sull’originale inglese. I titoletti sono redazionali.
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