In bilico tra Congresso e Pentagono
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Andrea Muratore)
Ce la farà il pragmatico Donald J.Trump a districarsi fra i palazzi della burocrazia a stelle e strisce?
Quando, nella giornata oramai imminente del 20 gennaio, Donald J. Trump si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America, sarà definitivamente conclusa l’onda lunga della campagna elettorale e verrà, finalmente, il momento di testare l’amministrazione entrante alla prova dei fatti. Sarà dunque l’ora di verificare se le supposizioni scatenatesi in queste intense settimane seguite all’affermazione del tycoon newyorkese nelle elezioni dell’8 novembre saranno suffragate alla prova dei fatti e per comprendere l’effettiva agenda programmatica di Trump e del suo entourage. Dopo una campagna elettorale a tratti estenuante, personalizzata sino alle estreme conseguenze da entrambi i candidati e trasformatasi in un confronto individuale che ha lasciato poco spazio ai programmi concreti, è infatti ora di comprendere in che misura l’azione di Trump sarà influenzata dagli altri importanti apparati che detengono consistenti fette di potere negli USA: tra questi, oltre al gabinetto in via di costituzione, si segnalano per preminenza il Congresso e importanti burocrazie come quella militare che fa capo al Pentagono, oltre che i membri di quello “Stato profondo” rappresentato dai diversi apparati di intelligence a stelle e strisce.
Le nomine che sinora stanno contribuendo a delineare il cabinet dell’amministrazione Trump sono state il frutto di un compromesso tra le posizioni decisamente anticonvenzionali del Presidente eletto, la volontà di premiare in maniera adeguata frange del Partito Repubblicano o specifici blocchi sociali rivelatisi importanti per la sua vittoria, delle scelte di Realpolitik di natura principalmente economica e il desiderio, mai nascosto da Trump, di trasformarsi nel federatore del Grand Old Party ritrovatosi scosso dopo la sua repentina ascesa. Gerald Seib ha scritto sul Wall Street Journal che, in linea di principio, “è quasi impossibile definire una chiara linea di tendenza ideologica nelle nomine dei membri del gabinetto compiute da Trump”: tale posizione appare condivisibile e in linea di principio logica, dato che Trump ha dimostrato nel corso di tutta la campagna elettorale di preferire un sostanziale pragmatismo a qualsivoglia ideologia. Una notevole eccezione potrebbe essere considerata la nomina del Senatore dell’Alabama Jeff Sessions ad Attorney General: ma non bisogna dimenticare che l’ultraconservatore Sessions è stato un sostenitore della prima ora di Trumpe che, al tempo stesso, egli rappresenta un punto di riferimento per l’elettorato della Bible Belt che in massa ha premiato la candidatura del tycoon repubblicano.
Decisamente peculiari sono invece le scelte che hanno portato numerosi dirigenti d’impresa o facoltosi imprenditori in posizioni primarie dell’amministrazione: Betsy DeVos, moglie del miliardario Dick DeVos, è stata infatti scelta quale Segretario all’Educazione; Andrew Puzder, CEO di CKE Restaurant, dirigerà il dicastero del Lavoro, mentre Steven Mnuchin, fondatore e manovratore di numerosi hedge funds, e Rex Tillerson, CEO di Exxon Mobil, sono stati nominati rispettivamente al Dipartimento del Lavoro e al Dipartimento di Stato. Tali nomine sono state compiute sul solco di diverse prese di posizione di Trump, altamente favorevole a un coinvolgimento sempre maggiore di uomini d’affari e imprenditori nella politica statunitense, ma non preconizzano affatto l’instaurazione di un governo “tecnico”: esse sono piuttosto il frutto della volontà di Trump di superare lo scontro tra correnti interno al Grand Old Party e di cooperare con personalità in grado di comunicare sulla sua stessa lunghezza d’onda, essendo necessario ricordare che prima del Trump istituzionale esiste sempre un uomo Trump, il quale è rimasto l’uomo d’affari di sempre prima ancora di trasformarsi in politico. Chiaramente, su alcune posizioni governative il tradizionale apparato del Partito Repubblicano continuerà ad esercitare una forte influenza; tuttavia, Trump ha voluto contraddire le aspettative dell’establishment del Grand Old Party negando a un suo rappresentante la caldissima poltrona di Segretario di Stato, da lui affidata a un outsider come Rex Tillerson.
La scelta del CEO di Exxon in un ruolo tanto delicato è giustificabile constatando numerose qualità personali del sessantaquattrenne nativo di Watacha Falls, Texas: Tillerson è stimato nel settore dell’industria petrolifera per essere una “persona riflessiva e di grande esperienza, un grande negoziatore”, come sottolineato dall’amministratore delegato di ENI Claudio Descalzi, ed è noto per avere una forte apertura mentale che l’ha portato, nella sua precedente esperienza di Eagle Scout d’America, ad ammettere nel movimento scoutista americano anche ragazze e ragazzi dichiaratamente omosessuali. Qualità che sono state sicuramente apprezzate dal Presidente che si appresta a guidare gli Stati Uniti nel mondo multipolare e che ha visto nel Dipartimento di Stato uno dei principali “apparati” che avrebbero potuto frenare la sua strategia, rivolta principalmente alla distensione con la Russia: la scelta di Tillerson è risultata preferibile a Trump rispetto alla nomina di esponenti repubblicani di spicco come Romney in quanto il Presidente eletto si aspetta che il CEO di Exxon sappia rimediare con la sua capacità dialogante, l’assenza di pregiudizi ideologici e la grande intelligenza personale alla carenza di esperienza politica diretta. Inoltre, la scelta fortemente personale di Trump rompe una tradizione che vede l’instaurazione di due “diplomazie parallele” da parte della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, manifestatasi apertamente ai tempi della coabitazione Obama-Clinton, e potrebbe nel lungo termine portare alla fine della “guerra” tra le due istituzioni descritta da Joseph Cassidy in un articolo pubblicato su Limes di dicembre.
Sempre su Limes, Federico Petroni ha definito il Pentagono “la necessità dell’impero istituzionalizzata”. Anche l’apparato militare statunitense è depositario di una sua specifica visione geopolitica, che allo stato attuale delle cose diverge notevolmente da quella del futuro Commander-in-Chief, dato che il Pentagono, argomenta Petroni, tende a mantenere nel mirino “la Cina come rivale strategico […], la Russia come nemico per antonomasia”. Nella prossima amministrazione statunitense, la burocrazia dell’apparato militare statunitense potrebbe opporsi in maniera ostile ai progetti geopolitici di Trump, che a sua volta potrebbe barattare una sorta di tregua col Pentagono portando avanti un programma di espansione delle strutture militari e dei fondi ad esso destinate in cambio di una maggiore mano libera in campo internazionale, al fine di evitare che generali e ammiragli forzino la mano del Presidente come più volte è accaduto nell’era Obama. Il conflitto tra “carisma e burocrazia” di cui parla Petroni potrà essere evitato solo se Trump riuscirà a quantificare la dimensione del ruolo che il Pentagono è destinato a giocare nei piani che dovranno concretizzare il motto della sua campagna, Make America Great Again! Il più importante conflitto di poteri che Trump rischia di ritrovarsi a gestire, in ogni caso, è quello tra la Presidenza e il Congresso. Questo dato potrebbe sembrare apparentemente paradossale considerando lo strapotere goduto dal Partito Repubblicano nelle istituzioni federali statunitensi: per la prima volta dal 1928, infatti, lo stendardo repubblicano sventola contemporaneamente sul Campidoglio e sulla Casa Bianca, essendo il Grand Old Party in maggioranza in entrambi i rami del Congresso.
Tuttavia, le grandi fratture che negli ultimi anni hanno lacerato la formazione conservatrice al suo interno, il ruolo avuto da Trump nel fomentarle e nel cavalcarle per metter fuori gioco tutti i suoi avversari nel corso delle primarie e la conclamata ostilità di buona parte della leadership repubblicana verso il Presidente eletto potrebbero causare non pochi grattacapi all’amministrazione guidata dal magnate newyorkese. Il Congresso, storicamente, alla pari del Pentagono evolve nel corso del tempo una sua personale “visione del mondo” e del contesto interno ed esterno agli Stati Uniti che non necessariamente combacia con quella propria del Presidente in carica. Lo scontro tra il Congresso e Trump verificatosi nei giorni scorsi sulla questione dei presunti hacker russi che avrebbero interferito con le ultime elezioni testimonia eloquentemente quanto detto: per Rappresentanti e Senatori, la Russia rappresenta un rivale di primo piano, e avversari di Trump in campo repubblicano come il deus ex machina John McCain non hanno tardato a rimarcarlo. Soprattutto sulla politica estera, il Congresso ha sempre indirizzato in maniera notevole l’operato degli Stati Uniti d’America: il caso più emblematico risale al 1919, quando la decisione del Senato di bocciare il Trattato di Versaillesimpedì la partecipazione di Washington alla Società delle Nazioni proposta da Woodrow Wilson.
Se da un lato le relazioni tra Trump e lo Speaker della Camera Paul Ryan non sono delle migliori, dall’altro l’ultima cosa di cui oggigiorno il Partito Repubblicano ha bisogno è il proseguimento delle sue aspre lotte intestine. Se tanto Trump quanto i congressmen repubblicani riusciranno a proseguire sulla strada del pragmatismo, si eviterà una paralisi istituzionale che oggigiorno sarebbe deleteria per gli Stati Uniti. Certamente, per Trump la partita più delicata si gioca proprio a Capitol Hill: nei prossimi quattro anni, il Presidente dovrà infatti condurre una continua mediazione per portare avanti le sue proposte e necessiterà del supporto di tutta la sua amministrazione, mentre al tempo stesso il Congresso dovrà ritornare ad essere un punto di riferimento nell’universo legislativo americano, recuperando la sua funzione di controllore dell’esecutivo senza limitarsi ad essere un suo semplice fustigatore.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/79373/
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