La legge di stabilità e la precarietà del lavoro
di MICROMEGA (Guglielmo Forges Davanzati)
Come rilevato da alcuni commentatori, la Legge di Stabilità 2017 risente della campagna referendaria e alcune disposizioni lì contenute sono state pensate per acquisire immediato consenso in vista della consultazione dello scorso 4 dicembre[1].
Al netto di queste misure, i principali assi di intervento nel documento approvato sono sostanzialmente tre e presentano rilevanti elementi di criticità.
1. Risulta confermata, per quanto attiene alla ripartizione dell’onere fiscale, la linea seguita negli ultimi anni con misure di ulteriore detassazione per favorire gli investimenti, questa volta soprattutto nei settori ad alta intensità tecnologica (la c.d. Industria 4.0). Si tratta della reiterazione di interventi inefficaci dal momento che gli investimenti privati non aumentano via sgravi fiscali, come non sono aumentati negli ultimi anni, per la banalissima ragione per la quale se le aspettative sono pessimistiche, anche rilevanti sgravi fiscali si rilevano del tutto efficaci per incentivare la spesa privata. Ovviamente si tratta di misure che vanno bene a Confindustria e, non a caso, salutate con estremo favore dai suoi rappresentanti e dal quotidiano che ne rappresenta gli interessi. In sostanza, la detassazione, nelle condizioni date, ha il solo effetto di far crescere i profitti e/o di tenere in vita imprese altrimenti destinate al fallimento. Se non altro per questa ragione, la Legge di Stabilità mantiene l’impianto redistributivo a vantaggio delle imprese che ha caratterizzato le politiche economiche degli ultimi anni.
2. Risultano anche confermati gli sgravi fiscali per le assunzioni con le nuove tipologie contrattuali istituite dal Jobs Act. Su questo aspetto, dovrebbe essere ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere l’occupazione stabile), il Jobs Act si è rivelato fallimentare[2]. In sintesi, l’operazione si è risolta in questo. Sono stati accordati sgravi contributivi alle imprese, sulla base del c.d. decreto Poletti del 2014, per un ammontare stimato su fonte INPS di circa 20 miliardi per l’assunzione di lavoratori con contratti a tempo indeterminato (a tutele crescenti). Le imprese hanno risposto inizialmente trasformando i contratti precari in contratti più stabili – o assumendo – per l’ovvio obiettivo di avvalersi delle decontribuzioni, con un picco di riformulazione dei contratti a fine 2015. La riduzione dei fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle imprese, che evidentemente non potevano avere durata infinita, ha generato, come molti si aspettavano, una repentina inversione di tendenza: l’aumento del tasso di disoccupazione e la riformulazione dei contratti nella direzione di tipologie sempre più precarie. In particolare, nei primi sei mesi del 2016, le cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato superano le nuove assunzioni facendo registrare un saldo negativo di 120.253 unità, a fronte di quanto accaduto nello stesso periodo del 2015, in cui i nuovi contratti a tempo indeterminato erano 131.502. Il dato dipende esclusivamente dalla riduzione delle assunzioni, -33% rispetto al 2015; le cessazioni quest’anno non superano quelle del primo semestre dell’anno appena trascorso. In sostanza, il mercato del lavoro italiano è stato “drogato” per un paio d’anni, tornando alla sua condizione ’fisiologica’ una volta esauriti gli incentivi. Un provvedimento, quindi, non solo inutile per la ripresa dell’occupazione ma anche controproducente per lo spreco di denaro pubblico a favore delle imprese. In più, la fine della stagione delle decontribuzioni ha anche contribuito ad accentuare ulteriormente il tasso di precarietà. Si fa qui riferimento, in particolare, all’esplosione del voucher, pensati come remunerazione per lavori accessori (p.e. lavori domestici) e invece oggi sempre più utilizzati nel settore privato e nel settore pubblico per mansioni che nulla hanno di accessorio. Fra gennaio e giugno del 2016 ne sono stati venduti 69.899.824, in aumento del 40% rispetto a un anno fa e del 145% rispetto al 2014.
3. Risulta incentivata la contrattazione di secondo livello, attraverso agevolazioni fiscali per il potenziamento del welfare aziendale e dei premi di produttività. L’obiettivo è legare più strettamente gli andamenti della produttività del lavoro con le dinamiche salariali. La logica che è alla base di queste misure risiede nella convinzione che è efficiente e giusto pagare i lavoratori sulla base del loro contributo alla produzione e, dunque, si presume, in base al loro merito. E’ una condizione di efficienza dal momento che – in questa logica – si ritiene che un mercato del lavoro deregolamentato produca spontaneamente la più efficiente allocazione delle risorse. In tal senso, la disintermediazione del sindacato è una strategia efficace per impostare le relazioni industriali in modo ‘atomistico’, ovvero creando le condizioni per una contrattazione diretta fra singolo lavoratore e singolo datore di lavoro. E’ poi anche, o almeno si ritiene, una condizione di equità distributiva, dal momento che commisurare il salario alla produttività premia/premierebbe il merito.
Sebbene si tratti dell’impostazione teorica e politica dominante, essa si presta a non poche obiezioni teoriche e fattuali, fra le quali.
a) Non disponiamo di nessun criterio di misurazione oggettiva del merito individuale e, conseguentemente, non è affatto scontato che la commisurazione del salario alla produttività garantisca un assetto distributivo meritocratico. Il contributo alla produzione del singolo lavoratore è influenzato da numerose variabili, la gran parte delle quali non attiene alla sua personale bravura, o al suo personale impegno. E’ sufficiente considerare che la principale determinante della produttività del lavoro è l’accumulazione di capitale, la cui entità prescinde del tutto dall’impegno dei lavoratori, essendo il risultato di scelte delle imprese[3].
b) L’attuazione di misure che spostino o incentivino la contrattazione aziendale rischia di riportare il mercato del lavoro nel Mezzogiorno a una condizione simile a quella di cinquanta anni fa, epoca nella quale erano vigenti le c.d. gabbie salariali (meccanismi di adeguamento dei salari monetari al tasso di inflazione). Non è uno scenario desiderabile, sia perché è oggettivamente regressivo, sia soprattutto perché se si va in questa direzione è ovvio che, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici e privati, si riduce ulteriormente la domanda aggregata nel Mezzogiorno, ovvero nell’area del Paese che ha maggiormente risentito e maggiormente risente gli effetti della crisi. E la riduzione della domanda, nel Mezzogiorno, non può che accentuare i divari regionali, in un contesto nel quale questi sono in continuo aumento da quasi un decennio, rendendo il Paese sempre più dualistico. L’effetto recessivo sarebbe peraltro accentuato dal fatto che le imprese meridionali sono, in media, di dimensioni notevolmente inferiori a quelle del Centro-Nord e, in molti casi, al loro interno non esistono neppure organizzazioni sindacali che possano contrattare salari e condizioni di lavoro, con la conseguenza che la ulteriore moderazione salariale al Sud configurerebbe una inutile e dannosa politica punitiva per i lavoratori meridionali.
NOTE
[1] Si veda: http://sbilanciamoci.info/legge-bilancio-referendaria-2/. Ci si riferisce, in particolare, alla c.d. rottamazione di Equitalia. Si può osservare, a riguardo, che Equitalia non scompare affatto, ma cambia nome (Agenzia delle Entrate – Riscossione) e, soprattutto, che volendo incidere in modo significativo sulla riscossione delle imposte, sarebbe stato semmai opportuno limitare le regole vessatorie utilizzate, agendo sulle regole d’azione non sulla denominazione.
[2] Per una efficace critica di ordine giuridico a questo provvedimento, si rinvia a Giorgio Fontana, La riforma del lavoro, i licenziamenti e la Costituzione, “Costituzionalismo”, dicembre dicembre onalismo”oro, i licenziamenti e la Costituzioneovvedimento, si veda Giorgio Fontana, 2016.
[3] Sul tema si rinvia a Sebastiano Fadda: http://www.sbilanciamoci.info/content/pdf/1817, Paolo Pini, (2013).What Europe needs to be European, “EconomiaPolitica – Journal of Analytical and Institutional Economics”, vol.30, n.1, pp. 3-11; Leonello Tronti. (2010). The Italian productivity slow-down: The role of the bargaining model, “International Journal of Manpower”, vol.31, n.7.
fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-legge-di-stabilita-e-la-precarieta-del-lavoro/
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