Se non si smontano le cause profonde
di ALESSANDRO GILIOLI
«E una volta che avete abrogato i voucher, cosa pensate, che tutte quelle forme di lavoro si trasformino magicamente in contratti a tempo indeterminato?».
È questa la domanda che, polemicamente, viene rivolta a quanti hanno firmato il referendum abrogativo e oggi sperano che sui voucher si vada a votare.
No, nessuno si aspetta che il giorno dopo i voucheristi siano assunti con il diritto alla malattia, alle ferie, alla maternità. Ci si aspetta molto di più.
Ci si aspetta cioè che venga ascoltato il messaggio profondo che sta dietro un eventuale voto popolare contro i voucher.
Che cos’è infatti il referendum sui voucher? Che cosa direbbe, una vittoria dei Sì all’abrogazione?
Direbbe che la strada intrapresa due o tre decenni fa è sbagliata e non regge più. Non regge più in termini di sopportazione da parte delle persone, non regge più in termini di tenuta sociale.
Non regge più cioè la direzione presa: quella di una sempre maggiore rarefazione, riduzione, discontinuità e intermittenza del reddito, che riguarda sopprattutto i nuovi adulti ma, per conseguenze indirette, anche le loro famiglie – quindi una larga fetta di italiani.
È questa la grande cesura degli ultimi trent’anni. Un nuovo adulto degli anni 80 aveva la ragionevole certezza di poter godere per tutta la vita di una continuità di reddito, più o meno alto ma comunque sufficiente a soddisfare alcune ambizioni esistenziali: creare una famiglia, accendere un mutuo per la casa, garantire la salute e gli studi ai suoi eventuali figli. Un possibile aiuto della famiglia d’origine era quindi d’avviamento – nella fase iniziale della vita lavorativa – o di supporto integrativo successivo (tipicamente, l’appartamento ereditato). Ma non era la ‘condicio sine qua non’.
Per un nuovo adulto di questo decennio le condizioni di cui ha goduto la mia generazione sono invece miraggi assoluti: dico, la ragionevole certezza di un reddito non saltuario – magari coerente con gli studi fatti – e la possibilità di acquistare o affittare una casa pari a quella che acquistavamo e affittavamo noi nuovi adulti degli anni Ottanta.
E tutto ciò benché nel suo complesso il Pil reale pro capite sia cresciuto, rispetto ad allora.
In questo quadro, l’aiuto della famiglia d’origine è diventato non più integrativo, ma indispensabile: il famoso “welfare familiare”, così ben rappresentato in queste settimane dagli under 30 (ma perfino under 40) che dai genitori o dai nonni hanno ricevuto una busta di contanti.
È tutto questo che non viene più accettato.
Anche perché dopo quasi dieci anni di recessione-stagnazione, anche i risparmi familiari iniziano a battere in testa. Mentre l’occupazione giovanile diminuisce e cresce solo quella tra gli over 50 «soprattutto per effetto delle minori uscite dal mercato del lavoro per pensionamento» (Il Sole 24 Ore di oggi). In altre parole, gli occupati over 50 numericamente crescono perché in quella fascia entrano i lavoratori che hanno compiuto 50 anni, ma non escono quelli anziani. L’innalzamento dell’età pensionabile soffoca il turn over.
In questi giorni sento parlare di possibili modifiche della norma sui voucher, proprio per evitare il referendum. Si ipotizza di renderli più restrittivi, di far tornare il tetto a 5.000 euro (com’era prima del Jobs Act), di limitarli ad alcuni settori, e così via.
Lo capisco, c’è una partita politica per cui il Pd non vuole prendersi un’altra sberlona dopo quella del 4 dicembre, quindi cerca di evitare il voto popolare.
Ma chi pensa di aggirare così l’ostacolo non ha capito niente, della rivolta popolare contro i voucher.
Che è un grido di rabbia e una richiesta d’aiuto per una situazione non più sostenibile e di cui i voucher sono la punta dell’iceberg. Mentre nella parte che non affiora c’è tutto il resto del precariato acrobatico contemporaneo, dai fattorini di Foodora alla logistica dell’ecommerce, dai call center alle infinite partite Iva sotto i mille euro mese che passano le ore a spedire mail per farsi saldare fatture su cui hanno già pagato l’Iva, e chissà mai se e quando vedranno i loro soldi.
È un sistema che non regge più, che non garantisce più la tenuta sociale. Ed è il sistema che per due decenni ci è stato venduto come panacea di ogni male – siamo tutti free agent, che bello, senza lacci e laccioli l’economia decolla – e che invece ha significato solo insicurezza, paura, incertezza, spaesamento, impossibilità a programmarsi una vita.
I voucher sono una parte – e un simbolo, ormai – di quel sistema lì.
Che poi è il sistema contro cui votano tante persone quale che sia l’occasione in cui possono esprimersi, dalle amministrative alla riforma costituzionale. Votano contro quella roba lì. Chiedono che si intervenga su quella roba lì, in qualche modo, in fretta: con una qualche misura che dia continuità di reddito e possibilità di progettare un’esistenza.
Ritoccare un po’ i voucher per non far votare le persone, beh, sarebbe solo un tapparsi le orecchie per non ascoltare quel grido.
E non credo che sia il modo migliore per ridurre una carica di conflitto sociale che troverebbe comunque altri modi di esprimersi, se non se ne smontano – almeno un po’ – le cause profonde.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/12/29/se-non-si-smontano-le-cause-profonde/
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