Dallo stato sociale allo stato carceriere: la criminalizzazione della miseria negli Stati Uniti
di LOIC WACQUANT (sociologo; University of Californa)
Conosciamo bene i costi diretti, sul piano sociale e umano, del sistema di insicurezza sociale offerto al mondo come “modello” dagli Stati Uniti. Meno noto è il suo complemento sociologico: l’ipersviluppo delle istituzioni con le quali si cerca di rimediare alle carenze della protezione sociale (safety net) dispiegando, negli strati inferiori della società, una rete poliziesca e penale (drag net) dalle maglie sempre più fitte.
Alla deliberata atrofia dello stato sociale corrisponde l’ipertrofia dello stato penale; la miseria e il deperimento del primo hanno come contropartita diretta e necessaria l’espansione e lo sviluppo del secondo. L’evoluzione del sistema penale negli Stati uniti è caratterizzata da quattro principali fattori: l’aumento della popolazione carceraria; il controllo esercitato su un numero sempre maggiore di persone ai margini del sistema penitenziario; la spettacolare ipertrofia del settore penale nell’ambito dell’amministrazione federale e di quelle locali, e infine il costante aumento della proporzione di neri tra i detenuti. Questo processo è iniziato con l’involuzione sociale e razziale avvenuta durante gli anni 70, in risposta all’avanzata democratica prodotta dalla sollevazione nera e dai movimenti popolari di contestazione sorti sulla sua scia (studenti, donne, oppositori alla guerra del Vietnam, ecologisti).
La popolazione in stato di detenzione, ai tre livelli dell’apparato penale: carceri delle città e delle contee, reclusori dei cinquanta stati dell’Unione e penitenziari federali, è aumentata a un ritmo folgorante. Durante gli anni ’60, la demografia penitenziaria del paese presentava una tendenza decrescente: nel 1975 il numero dei detenuti era sceso a 380.000, al termine di un periodo di riduzione lenta ma costante (dell’1% circa l’anno). Si discuteva allora di “alternative al carcere”, di pene sostitutive, e si proponeva di limitare la detenzione ai soli “criminali pericolosi”, che rappresentavano il 10-15% dei delinquenti; qualcuno ha avuto addirittura l’audacia di preannunciare il tramonto dell’istituzione penitenziaria.
Ma la curva doveva rovesciarsi bruscamente e quindi impennarsi. Dieci anni dopo, il numero dei detenuti era balzato a 740.000, per superare addirittura 1,6 milioni nel 1995. Durante il decennio ’90, il ritmo di crescita è stato dell’8% l’anno. Questa triplicazione nel corso di quindici anni costituisce un fenomeno senza precedenti in una società democratica. Gli Stati Uniti sono in testa davanti alle altre nazioni più progredite, dato che il loro tasso di popolazione carceraria, di oltre 600 detenuti su 100.000 abitanti nel 1997 (quintuplicato dal 1973) è da 6 a 10 volte superiore a quelli dei paesi dell’Unione Europea.
Ma il boom delle reclusioni di questa fine secolo non dà ancora la giusta misura della straordinaria espansione dell’impero penale americano. Da un lato infatti non si tiene conto delle persone in libertà vigilata (probation) o condizionale (parole). Data l’impossibilità di aumentare la capienza delle carceri con velocità sufficiente ad assorbire l’afflusso dei condannati, il numero delle persone tenute nelle anticamere e dietro le quinte del carcere è cresciuto ancora più rapidamente di quello dei detenuti che marciscono dietro le sbarre. In sedici anni, questa cifra si è quasi quadruplicata, andando a sfiorare i 4 milioni nel 1995: 3,1 milioni “on parole” e 700.000 “on probation“. In conclusione, nell’anno citato erano 5,4 milioni gli americani sottoposti a tutela penale: una cifra che rappresenta quasi il 5% degli uomini di oltre 18 anni, e tra i neri due uomini su dieci.
D’altra parte, in aggiunta alle pene cosiddette intermedie quali gli arresti domiciliari o l’assegnazione a un centro disciplinare (boot camp), l’inserimento in un programma di “osservazione intensiva” o la sorveglianza telefonica o elettronica, (con l’aiuto di braccialetti e altri gadgets tecnici), le possibilità di controllo del sistema penale si sono considerevolmente estese grazie alla proliferazione delle banche dati in campo criminologico, con la conseguente possibilità di decuplicare i mezzi e i punti di controllo a distanza.
Negli anni ’70 e ’80, su iniziativa della Law Enforcement Administration Agency (l’organismo federale incaricato di promuovere la lotta contro la criminalità) le polizie, i tribunali e le amministrazioni penitenziarie di 50 stati hanno istituito banche dati centralizzate e informatizzate.
Come risultato della nuova sinergia tra le funzioni di “cattura” e quelle di “osservazione” dell’apparato penale, esistono ormai oltre 50 milioni di schede criminali (10 anni fa erano 35 milioni) riguardanti circa 30 milioni di individui, pari a quasi un terzo della popolazione adulta maschile del paese! Hanno accesso a queste banche dati (rap sheets) non solo gli enti pubblici quali l’Fbi, l’Ins (polizia incaricata del controllo sugli stranieri) o i servizi sociali, ma anche persone o organismi privati.
I dati vengono utilizzati dai datori di lavoro per scartare le domande d’impiego di persone che hanno avuto a che fare con la giustizia; e poco importa che siano spesso scorrette, obsolete, anodine o addirittura illegali. Con la messa in circolazione di queste schede vengono a trovarsi nel mirino dell’apparato poliziesco e penale non solo i criminali o le persone semplicemente sospettate di aver commesso un reato, ma anche i loro familiari, gli amici, i vicini, e persino i quartieri in cui abitano.
Peraltro, questa politica di espansione del settore penale non è appannaggio dei repubblicani. Negli ultimi cinque anni, mentre il presidente Clinton proclamava in tutto il paese il suo orgoglio per aver posto fine all’era del big government, e sotto l’egida del candidato alla sua successione, Albert Gore, la Commissione riforme dello stato federale si applicava a sfoltire i programmi e a ridurre i posti di lavoro nei servizi pubblici, venivano costruite 213 nuove prigioni – un dato che peraltro non include i reclusori privati che hanno proliferato in seguito all’apertura di un lucroso mercato degli istituti di pena privati.
Nello stesso tempo, il numero dei dipendenti delle sole carceri federali e degli stati passava da 264.000 a 347.000. Di fatto, secondo l’Ufficio del censimento, tra tutte le attività dello stato la formazione e l’assunzione delle guardie carcerarie è quella che ha fatto registrare la più rapida crescita nel corso dell’ultimo decennio.
In tempi di penuria fiscale, l’aumento dei fondi e del personale per gli istituti di pena sono stati possibili solo a scapito degli stanziamenti per l’assistenza sociale, la sanità e l’istruzione. Gli Stati Uniti di fatto hanno scelto di costruire per i poveri case di reclusione e di pena piuttosto che dispensari, asili nido e scuole. Dal 1994, il bilancio annuale del California Department of Corrections (ente preposto ai centri di reclusione di stato riservati ai condannati a pene superiori a un anno) supera quello del campus dell’Università di California.
Il bilancio proposto dal governatore Pete Wilson nel 1995 prevedeva peraltro la soppressione di un migliaio di posti nel settore dell’insegnamento superiore per finanziare 3.000 posti di guardie carcerarie. Una preferenza onerosa per il pubblico erario, dato che in California, grazie all’influenza politica del sindacato del personale carcerario, lo stipendio di un secondino supera del 30% quello di un professore incaricato universitario.
Se l’iperinflazione carceraria è stata accompagnata da un’estensione a latere del sistema penale, decuplicando le sue capacità di inquadramento e di neutralizzazione, va detto che queste capacità si esercitano prioritariamente sulle famiglie e sui quartieri diseredati, e in particolare sui ghetti neri delle metropoli.
Ne testimonia la quarta tendenza di rilievo dell’evoluzione americana in questo campo: l’aumento costante della proporzione dei detenuti di colore tra la popolazione carceraria. Dal 1989, per la prima volta nella storia, gli afro-americani sono in maggioranza in seno agli istituti di pena, benché rappresentino soltanto il 12% della popolazione del paese.
Nel 1995, i 22 milioni di neri in età adulta hanno fornito un contingente di 767.000 detenuti, di 999.000 condannati in libertà vigilata e di 325.000 rilasciati “on parole“, per un tasso globale di assoggettamento a tutela penale del 9,4%. Per i bianchi (163 milioni di adulti), secondo una stima tendenzialmente alta questo tasso è dell’1,9%.
In termini di probabilità statistica riferita alla durata media di una vita, un individuo di sesso maschile e di pelle nera ha più di una possibilità su quattro di scontare almeno un anno di carcere; un ispanico ne ha una su sei, contro una su 23 per un bianco. Questa “sproporzione razziale”, come pudicamente la definiscono i criminologi, è ancora più pronunciata tra i giovani, primi bersagli della politica di penalizzazione della povertà, dato che oltre un terzo dei neri di età compresa tra i 20 e i 29 anni si trova in stato di detenzione, oppure sotto l’autorità di un giudice correzionale o in attesa di giudizio.
È comunque importante notare, al di là dei dati numerici, la logica profonda di questo ribaltamento del sociale nel penale: lungi dal contraddire il progetto neoliberale di deregulation e di spoliazione del settore pubblico, l’ascesa dello stato penale americano costituisce qualcosa come il suo negativo, nel senso dell’altra faccia della medaglia, ma anche di elemento rivelatore.Questo fenomeno riflette infatti l’attuazione di una politica di criminalizzazione della miseria, complemento indispensabile dell’imposizione del lavoro dipendente precario e sottopagato, nonché della revisione dei programmi sociali in senso restrittivo e punitivo. Al momento della sua istituzionalizzazione nell’America della metà del XIX secolo, “la pena carceraria era innanzitutto un metodo volto al controllo delle popolazioni devianti e dipendenti”, e i detenuti erano per lo più poveri e immigrati europei arrivati da poco nel Nuovo mondo.
Ai giorni nostri, l’apparato carcerario americano svolge un ruolo analogo nei riguardi delle fasce di popolazione rese superflue dalla duplice ristrutturazione del rapporto salariale e dell’assistenza da parte dello stato: i settori della classe operaia in declino e i neri. Questo sistema assume così un posto centrale tra gli strumenti di governo della miseria, al crocevia tra il mercato del lavoro dequalificato, i ghetti urbani e i servizi sociali “riformati” e a sostegno della disciplina del cosiddetto rapporto di lavoro flessibile.
In primo luogo, il sistema penale contribuisce direttamente a regolare i segmenti inferiori del mercato occupazionale, e lo fa in maniera infinitamente più coercitiva di qualsiasi prelievo sociale o regolamento amministrativo. Il suo effetto in questo senso consiste nel comprimere artificialmente il livello della disoccupazione, sottraendo a forza milioni di uomini alla popolazione in cerca di un lavoro; inoltre, esso incrementa fortemente l’occupazione nel settore del beni e dei servizi carcerari.
Si valuta ad esempio che durante il decennio ’90, le carceri americane hanno abbassato di due punti l’indice della disoccupazione negli Stati Uniti. L’ipertrofia carceraria è un meccanismo a due facce: se da un lato, a breve termine, migliora apparentemente la situazione occupazionale comprimendo l’offerta di manodopera, a lungo termine non può che aggravarla in quanto pone milioni di persone in condizioni di non poter praticamente più trovare un posto di lavoro.
La massiccia e crescente preponderanza dei neri, a tutti i livelli dell’apparato penale, getta una cruda luce sulla seconda funzione assunta dal sistema carcerario nel nuovo sistema di governo della miseria: quella di sovrapporsi al ghetto per relegare una popolazione considerata deviante e pericolosa, oltre che superflua, sia sul piano economico dato che gli immigrati messicani o asiatici sono assai più docili sia su quello politico poiché i neri poveri non votano, e il centro di gravità elettorale del paese si è comunque spostato verso i quartieri periferici bianchi.
Numerosi stati, quali il Texas o il Tennessee, hanno già trasferito buona parte dei loro detenuti in reclusori privati, e subappaltato la gestione amministrativa dell’assistenza sociale a ditte specializzate. Un modo per rendere redditizi i poveri e i criminali, in senso ideologico oltre che economico.
Quello che si sta costituendo è un sistema commerciale in ambito carcerario e assistenziale, destinato a sorvegliare e a punire la popolazione restia a sottomettersi al nuovo ordine economico, in base a una divisione del lavoro per generi; la componente carceraria si occupa prevalentemente dei maschi, mentre quella assistenziale esercita la propria tutela sulle donne e sui bambini. Ed è la stessa popolazione a circolare da un polo all’altro di questa rete, in un circuito pressoché chiuso.
Dovunque l’utopia neoliberale è riuscita a tradursi in realtà, le fasce più deboli e tutti coloro che sono stati estromessi dall’ambito del lavoro ancora tutelato non ne hanno tratto, come proclamano i suoi paladini, una maggiore libertà, ma al contrario la sua limitazione o soppressione. È il risultato della regressione verso un paternalismo repressivo d’altri tempi, quello del capitalismo selvaggio, oggi ancor più inasprito da uno stato punitivo onnisciente e onnipotente.
Fonte: “Le monde diplomatique”, luglio 1998
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