Il messianismo americano (3a parte)
fonte: Affari italiani
Come Alain Joxe nella sua opera L’impero del caos (2003), sono in molti a ritenere che gli Stati Uniti all’inizio degli anni 2ooo abbiano sviluppato una concezione a due velocità del diritto internazionale. Ai “forti” (gli Stati Uniti e i loro alleati) la protezione del diritto (ispirato dallo Zio Sam). Ai “deboli” è riservato il “non diritto”, simbolizzato fino alla caricatura dalla sorte estrema riservata ai detenuti della base di Guantanamo, quei «combattenti illegali» catturati in Afghanistan e privati della tutela della Convenzione di Ginevra. Sorte estrema, caso eccezionale, davvero?
In correlazione alla scelta strategica dell’unilateralismo, si osserva anche che la dimensione di autolimitazione, percepibile in Wilson, sembra ormai tendere a svanire. Sintomo aneddotico: a fine settembre 2001, dopo aver usato la parola «crociata» (immediatamente ritrattata), la Casa Bianca ha cominciato a chiamare la sua guerra al terrore operazione «giustizia infinita» (Infinite justice). Niente più limiti! E’ stata necessaria una protesta di teologi perché Bush jr. rinunciasse a questa formulazione appropriata per l’Onnipotente, l’Almighty God, per un nuovo appellativo, Enduring Freedom.
A lungo termine, la pressione americana sullo spacepower, la militarizzazione dello spazio, pare anch’essa sfidare il limite. Studiata da Jean-Michel Valantin, questa militarizzazione vuole rendere sicuro lo spazio orbitale nel quadro del programma National Missile Defense (NMD). Sostenute ferventemente da Donald Rumsfeld, le space-based weapons (letteralmente: “armi basate nello spazio”) traducono l’estrema dilatazione delle capacità americane. Più nessuna frontiera, neanche quella, simbolica, del “cielo”, dello spazio, potrebbe avere la meglio sullo space power, «nuovo orizzonte della strategia americana» (J.-M. Valantin).
Più in generale, la splendida rassicurazione espressa nel Project for a New American Century (PNAC) sembra accreditare l’idea di una potenza americana quasi illimitata. Questo progetto, spinto dalla destra dura americana, ha origine nel 1992, in una nuova dottrina elaborata all’epoca da Dick Cheney. Questa linea si è cristallizzata, nel 1997, nel PNAC, dove si trovano ai comandi uomini come Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfovitz, politici che dall’11 settembre 2001 danno il tono della politica estera americana. Già il nome di questo progetto la dice lunga: il fine è di fare del xxi secolo il «secolo americano», sulla base di una global leadership.
Il pianeta ha tutto da guadagnare nell’adottare i valori americani, poiché il modello statunitense ha dimostrato la sua superiorità. Nella sua dichiarazione d’intenti, il PNAC intende radunare il sostegno alla global leadership americana, poiché quest’ultima è naturalmente favorevole ai «principi e agli interessi» degli Stati Uniti. Il progetto invita a «modellare le circostanze prima dell’emergere delle crisi». Non si ripudia del tutto il multilateralismo, che però, in «stile americano», viene vuotato della sua sostanza. La definizione che ne dà Robert Kagan ha il merito di essere esplicita: «Un pugno di ferro unilaterale in un guanto di velluto multilaterale».
Danièle Hervieu-Léger e Jean-Paul Willaime, nel ripercorrere i lavori che Henri Desroche ha dedicato al messianismo, ricordano che «se le utopie messianiche abbracciano in generale tutti i possibili aspetti del nuovo mondo che annunciano, fanno normalmente di una particolare dimensione della vita collettiva il fulcro di questa trasformazione globale: la politica, l’economia, l’organizzazione sessuale e familiare, il rapporto con la natura». Nel caso del PNAC, il fulcro del congegno utopico è implicitamente l’economia di mercato ultraliberale. protetta dal ferro e dal fuoco delle legioni della libertà: «Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità per il ruolo unico dell’America nella salvaguardia e nell’espansione di un ordine internazionale che sia favorevole (amico) alla nostra sicurezza, alla nostra prosperità e ai nostri principi».
Promuovere la «libertà economica e politica» è una priorità mondiale perché la sicurezza e la grandezza americana si propaghi al XXI secolo. La proiezione della potenza militare si comprende nella prospettiva di questo “ordine” politicocommerciale dilatato su scala planetaria. Da un lato, una drastica limitazione dello Stato provvidenza, resa popolare da un discorso stabilito sui tagli fiscali. Dall’altro, uno sviluppo non trattabile della potenza d’urto dell’esercito americano, guardiano del liberalismo.
Non si è lontani dall’utopia di Globalia immaginata da Jean-Christophe Rufin: quella democrazia globalizzata che promette libertà, prosperità, sicurezza, a scapito delle «non-zone» (paesi del Sud). Si arriva così all’ipotesi forte di Emmanuel Todd, che si chiede se questa rivendicazione (velata) dei «monopolio mondiale della violenza legittima» non nasconda la tentazione di ergersi a poco a poco come «stato dell’intero pianeta». E’ con la conquista del monopolio della forza legittima che lo Stato nazionale, secondo Max Weber, si è imposto nella storia. Nel momento della «società-mondo», si oscillerebbe verso una nuova soglia?
Volontaristico, interventista, ottimista, questo progetto non era, in origine, in profonda consonanza con quello di George W. Bush jr., che ha iniziato la sua presidenza con un tono molto più isolazionista. Non aveva forse violentemente criticato, durante la campagna presidenziale, lo sforzo di nation buildíng intrapreso da Bill Clinton ad Haiti nel 1994? Il candidato Bush jr., incapace di nominare gli abitanti della Grecia senza sbagliare (greciens), non intendeva calzare i sandali di cuoio di Alessandro il Grande e del suo illustre precettore Aristotele. Ma con la spinta dell’11 settembre 2001, gli ideologi del PNAC sono arrivati a prendere i comandi del riorientamento strategico globale operato dalla Casa Bianca.
Il nation building condannato ieri (Haiti 1994) diventava la panacea per l’Iraq (2003-04), sotto la guida di Paul Bremer, reincarnazione dei satrapi ellenistici. Il modo di definire la global leadership cara ai neoconservatori del PNAC fa ritenere che gli ultimi due elementi del messianismo repubblicano e cristiano di un Wilson (l’idealismo universalista e l’autolimitazione) sono ampiamente spazzati via a vantaggio di una prospettiva unilaterale e nazionalista. Se, per Wilson, quel che è bene per il mondo è bene per l’America, per la squadra di Bush jr., al contrario, quel che è bene per l’America è bene per il mondo. Come sintetizza molto bene Pierre-jean Luizard, «là dove l’ideale wilsoniano sembra umanista, quello di Bush jr. nasconde a fatica una irrefrenabile volontà di potere».
Nella sfera del messianismo, dimensione familiare della religione civile americana, si è verificato uno spettacolare slittamento tra l’America interventista del 1917 e l’America del dopo il settembre 2001. Se è indubbio che è intervenuta una componente religiosa nell’attuale proiezione della potenza americana, essa non si identifica, o non si identifica più, con quella di un Wilson, e neppure con quella di Carter o di Bush padre (che restava attaccato al multilateralismo). Sembra di scivolare sempre di più al di fuori del nido giudeo-cristiano in cui il messianismo americano era cresciuto e aveva prosperato fino alla metà dei xx secolo. E questo invita a formulare l’ipotesi finale del capovolgimento verso una terza fase della religione civile: dopo la Civil Religion portata dalle mainline Churches, poi una nuova variante con sfumature di protestantesimo evangelico, si scivolerebbe oggi verso una religione civile più secolarizzata, più staccata in ogni caso dal cristianesimo.
L’autolimitazione conferita dalla tensione con una divinità extramondana si attenua dinanzi all’intramondanizzazione accentuata delle utopie di salvezza. Il tragico problema del Male, la cui risoluzione definitiva, nel mondo occidentale, era un tempo di sola competenza del Dio monoteista, è ormai alla portata dello Zio Sam. Richard Perle, eminenza grigia dei neocons washingtoniani (presidente fino al marzo 2003 del Defense Policy Board che dipende da George W. Bush jr.), ha pubblicato nel dicembre 2003, con il suo complice David Frum, un’opera dal titolo eloquente: Estirpare il male, come vincere la guerra contro il terrore (2004). Fine al Male! Paragonato al manicheismo di quelle pagine, perfino John Rambo, archetipo dell’eroe americano interpretato da Sylvester Stallone, può apparire un metafisico trepidante.
Sin dal 1975, Robert Bellah riteneva che la religione civile americana fosse diventata un «guscio vuoto e infranto» e che i mutamenti spirituali e culturali degli Stati Uniti tendessero a «generare nuovi miti americani». Dopo un quarto di secolo, sembra che questi orientamenti futuri, allora previsti da Bellah, comincino a concretizzarsi, ma forse non nella direzione immaginata da quest’ultimo. Tutto accade come se una Civil Religion nuova maniera, le cui forme e i cui contenuti ancora si distinguono solo confusamente, identifichi la divinità generica globalizzata con la stessa America. Così lontano ormai dal fondo giudeo-cristiano, si può parlare ancora di messianismo per definire questo ribaltamento? Sì, se si segue Henri Desroche, per cui i messianismi designano «una popolazione di situazioni rilevate nella storia delle religioni, situazioni in cui un personaggio fondatore di un movimento storico di liberazione socioreligiosa viene identificato con un Potere supremo “che si pronuncia” sull’insieme della storia delle religioni come delle società».
Il «Potere supremo», in questa prospettiva, non è necessariamente il “Messia” cristiano. Esso può designare una forma secolare, dal momento che si ritrova il progetto di un disfacimento dell’ordine del mondo finalizzato all’emancipazione. Ma per segnare bene lo scarto con il messianismo (cristiano) dei puritani, si aggiungerà il prefisso “neo”. Il neomessianismo descrive precisamente questa utopia contemporanea di un modello americano intrinsecamente investito degli attributi del “Potere supremo”. Come se la società americana diventasse il proprio assoluto.
[fine]
Qui e qui rispettivamente la prima e la seconda parte dell’articolo
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