Odi et amo
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE
La strada verso il superamento delle ruggini che dividono Mosca e Washington non è completamente spianata. Scopriamo nei dettagli quali fattori potranno dividere gli USA di Trump e la Russia di Putin nei prossimi anni.
Uno strapiombo profondo e insuperabile sembra avere sostituito lo Stretto di Bering nella divisione tra la Russia e gli Stati Uniti, oggigiorno contrapposti in una rivalità geopolitica ad ampio raggio che ha portato le relazioni diplomatiche tra Washington e Mosca a conoscere una continua involuzione nel corso degli ultimi anni. Il gelo tra i due paesi sta conoscendo una rigidezza sconosciuta da almeno trentennio, dai tempi dei durissimi discorsi di Reagan contro il cosiddetto “Impero del Male” sovietico, periodo che rispetto ad altre fasi della Guerra Fredda mostra maggiori similitudini con il presente. John Lewis Gaddis, tra i massimi esperti della contrapposizione bipolare tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, ha scritto infatti che gli attacchi diretti di Reagan alla superpotenza comunista erano volti a evidenziare
«Ciò che Reagan vedeva come l’errore centrale della distensione: l’idea che l’Unione Sovietica si fosse meritata una legittimazione geopolitica, ideologica, economica e morale pari a quella degli Stati Uniti e delle altre democrazie occidentali nel quadro del sistema internazionale»
Nessuna descrizione potrebbe raccontare in maniera più eloquente uno dei motivi fondanti dell’attuale ostilità, prodottasi proprio negli anni in cui la Russia, ricostituendo un’autonoma influenza in campo internazionale e svincolandosi dalle limitazioni impostele dalle logiche dell’ideologia liberale, ha contribuito progressivamente alla messa in discussione del modello monopolare veicolato dai governi di Washington a cavallo tra XX e XXI secolo. La “legittimazione geopolitica, ideologica, economica e morale” della Russia di oggi è stata conquistata attraverso lo sviluppo di una politica estera attiva ma al tempo stesso astuta e indirizzata con precisione da Vladimir Putin, più volte descritta sulle colonne de L’Intellettuale Dissidente. Tale legittimazione è stata tuttavia negata in continuazione dagli Stati Uniti e dai loro alleati europei, ancorati al ricordo della vecchia Russia eltsiniana acquiescente e inattiva: ciò ha portato, dall’Ucraina alle elezioni del 2016, all’apertura delle numerose linee di faglia che oggi separano le due potenze.
In questo contesto, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca è sembrata un’importante discontinuità: al contrario della sua sfidante Hillary Clinton, a lungo tra i più accesi avversari della ricostruzione della sfera d’influenza russa, il tycoon repubblicano ha espresso a più riprese la sua ammirazione per Vladimir Putin e, come noto, la sua volontà di giungere a un accomodamento e a un’intesa col Cremlino dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Le dichiarazioni di Trump sulla Russia e sul suo leader lasciano, in linea di principio, presagire che a partire dal primo summit tra il Presidente entrante e Vladimir Putin, destinato a tenersi nella prima metà del 2017, la Casa Bianca e il Cremlino cercheranno di operare un nuovo, decisivo reset e di appianare le numerose divergenze geopolitiche in maniera dialettica.
La stessa nomina di Rex Tillerson, CEO di Exxon Mobile estraneo agli apparati di potere del Partito Repubblicano, a Segretario di Stato ha palesato apertamente le intenzioni di Trump, che ha posto a capo della politica estera statunitense un conoscitore della Russia capace di trattare in maniera pragmatica le diverse questioni sul terreno. Ciononostante, le dichiarazioni d’intenti e le nomine non sono affatto sufficienti a garantire che in futuro si assisterà al concreto ristabilimento della piena fiducia tra Mosca e Washington, dato che il processo volto a produrre un effettivo reset si preannuncia lungo, tortuoso e pieno di insidie. A rappresentare fonte d’ostacolo potrebbero essere tanto le differenze di vedute tra i due paesi su determinate tematiche d’ampio respiro geopolitico quanto importanti problematiche di carattere “ambientale” potenzialmente in grado di minare in partenza qualsiasi tentativo di accordo.
In campo statunitense, il principale ostacolo che l’amministrazione Trump dovrà superare per portare avanti il dialogo con la Russia sarà direttamente connesso all’ampia differenza di vedute che sussiste tra il Presidente-eletto e i tradizionali “apparati” burocratico-politici come il Congresso e il Pentagono. John P. Willerton, Professore di Scienze Politiche all’Università dell’Arizona, ha scritto nel numero di Limes di novembre 2016:
«L’accanimento contro Putin ha lasciato dietro di sé strascichi importanti nella scena politica americana […] Nel corso della campagna elettorale, diversi russologi ed ex funzionari governativi in cerca di impiego nella prevista amministrazione Clinton si sono proposti per incarichi di rilievo facendo leva su una retorica fortemente antirussa»
Per il tradizionale establishment, la russofobia rappresenta di conseguenza un vero e proprio passepartout, se non addirittura un prerequisito: la scelta di Trump di nominare un uomo indipendente come Tillerson alla guida del Dipartimento di Stato è ampiamente giustificabile constatando la necessità, per il tycoon repubblicano, di controbilanciare almeno in parte l’influenza che centri di potere prevalentemente russofobi come il Congresso e il Pentagono potrebbero esercitare sulla sua amministrazione.
Sarà inoltre importante verificare la disponibilità dei membri del Partito Repubblicano a recepire le iniziative di Trump e a contribuire ad allentare la pressione avversa del Congresso: sotto questo punto di vista, la strada per Trump parte decisamente in salita, dato che il fronte antirusso unisce sia aperti sostenitori del Presidente-eletto (come Newt Gingrich e Rudy Giuliani) che suoi acerrimi avversari interni al Grand Old Party, guidati dall’instancabile John McCain.
Il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2008, infatti, ha ampiamente strumentalizzato la nebulosa e contorta vicenda del presunto attacco hacker avvallato dal Cremlino per favorire l’elezione di Trump, arrivando a definirla una “minaccia per la democrazia” nonostante la palese mancanza di qualsivoglia tipo di prova credibile rilevata da Paul Craig Roberts, che sul suo sito ha denunciato al tempo stesso le numerose pressioni esercitate su Trump per indurlo a cambiare posizione sulla Russia.
La terza, e più importante, problematica che concerne gli Stati Uniti si salda con il principale freno alle volontà russa\di operare il reset. Nel caso in cui la conflittualità venisse appianata, infatti, Stati Uniti e Russia necessiterebbero di inserire in un quadro coerente sotto il profilo geopolitico la nuova relazione positiva con la controparte. L’interconnessione tra le varie dinamiche globali, infatti, rende necessario che il riavvicinamento sia inteso in una prospettiva più ampia e si strutturi attraverso iniziative concrete coerenti: in questo senso, la volontà comune di combattere l’ISIS in Siria rappresenta senz’altro un punto di partenza positivo, ma non può rappresentare un collante esauriente. Gli Stati Uniti potranno riaprire una collaborazione politica, economica e diplomatica con la Russia solo se al tempo stesso saranno in grado di dimostrare al Cremlino in maniera tangibile il mutato cambio di rotta della loro politica estera: la rimozione delle sanzioni, ad esempio, rappresenterebbe un prerequisito imprescindibile.
Al tempo stesso, Vladimir Putin è ben consapevole che Trump, aperto alla Russia, ha mostrato un atteggiamento decisamente meno collaborativo nei confronti dei suoi due principali alleati, Cina ed Iran. In particolar modo, la relazione speciale venutasi a creare tra Mosca e Pechino, vera e propria “colonna portante del multipolarismo”, rischierebbe una forte incrinatura se la Russia si ritrovasse a dover essere costretta alla scelta tra la Cina e gli Stati Uniti. Se la contrapposizione appare molto simile a quella sperimentata nel pieno degli Anni Ottanta, la Russia si trova oggi nella condizione di dover spendere nel migliore dei modi un capitale geopolitico pari a quello accumulato all’inizio della distensione degli Anni Settanta tra Mosca e Unione Sovietica.
La caleidoscopica realtà della relazione russo-americana porta con sé opportunità e dilemmi per i due paesi. Ciò non toglie sostanza al fatto che sulla voragine apparentemente incolmabile che li separa sia stato gettato un ponte. Labile, traballante e incerto, è comunque un collegamento: dal 20 gennaio in avanti, il compito dei governi di Donald Trump e Vladimir Putin sarà far sì che esso possa, col passare dei mesi, trasformarsi in una struttura stabile.
Fonte:http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/il-ponte-sospeso-tra-putin-e-trump/
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